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Quando
Cartesio, con un atto d'analisi libera e pura, distinse nella coscienza del
pensiero la coscienza dell'essere, egli volle con quella affermazione dell'io,
disciogliersi dalla natura e dalla società. Ma la natura era già
passata d'innanzi al suo intelletto; ma la società gli aveva dato la tradizione
scientifica. Quella voce che gli pareva surgere solitaria dalla sua coscienza,
era la prima parola d'un problema già maturato nel corso dei secoli e nella
successione delle filosofie: - problema che l'io solitario non avrebbe
nemmen potuto proporsi.
Così è. Alle
evoluzioni della potenza analitica hanno parte la natura e la società.
E come sono esse le cause che la destano, così sono parimenti le cause che
possono renderla perpetuamente inerte. Dissi perpetuamente inerte; poiché, a
prossima nostra memoria, alcune genti si estinsero o si confusero con altre e
si sommersero in esse, prima d'avere, in migliaia d'anni, superato colla
propria mente quell'infinito limite il quale è concesso anche al discernimento
istintivo degli animali.
La natura aveva
già stabilito fra una gente e l'altra una disparità di condizioni, secondo la
disparità delle cose utili o nocive e dei luoghi e dei climi. Le singole genti
nelle singole loro patrie non potevano avvedersi se non di ciò ch'ella vi
avesse posto.
La presenza di
certi frutti ovviamente alimentari e di certi animali o più mansueti o più
feroci, il complesso d'una terra e d'un clima, d'una flora e d'una fauna,
dettavano adunque agli aborigeni una serie d'atti d'attenzione, coordinata
alla serie delle più immediate necessità; e tanto quivi inevitabile quanto
impossibile altrove.
E così li
aborigeni dovevano costituire nelle singole regioni native le singole parti
d'una superficiale analisi, dispersa a frammenti su tutta la terra abitata. La
rimanente natura giacque inosservata e indistinta. Era pel genere umano come
s'ella non fosse.
Quanto alla società,
comunque isolata e misera, questi singoli frammenti d'osservazione dovevano
nel suo seno sopravivere all'individuo. Ciò che l'infante, per necessità
di convivenza e per cieca imitazione, apprendeva, dovevagli apparire come
l'ordine necessario, ed unico possibile, della vita. Così nasceva la tradizione,
- involontaria, spontanea, irriflessiva, - ma imperiosa già fin d'allora
com'essa è tuttavia per noi. - L'analisi non era libera.
Ogni individuo
non era più costretto a cominciar da sé tutta la serie di quelle scoperte. Ma
ogni mente entrava nella carriera del pensiero già improntata dal pensiero
altrui. L'analisi, nata serva della natura, crebbe serva della società.
La tradizione
era un filo tenace che associava le menti, non da gente a gente, ma da
generazione a generazione. Era la società perpetua dei posteri cogli
antenati. Anche nell'intimo recesso delle menti, ogni generazione era figlia
non solo della sua terra ma de' suoi padri. Era un indirizzo
dato, e un vincolo imposto, all'intelletto dei nascituri, in distanza di
secoli. Erano già determinate nelle viscere della famiglia selvaggia certe
nozioni che dovevano sopravivere in seno ad una tarda civiltà. Molte osservanze
e molte avversioni nei cibi e in altri usi della famiglia, che durano tuttavia
qua e là fra i popoli, sono tradizioni di tempo immemorabile; forse furono in
origine mere ammissioni od omissioni di quelle analisi primitive.
I Latini, per
chiarire i fatti delle istorie, solevano risalire a ciò ch'essi chiamavano le
origini, benché allora intessute già di poetiche fantasie. E parimenti solo
dalle origini si possono spiegare alcuni fatti del mondo moderno. Valga un
esempio: - ancora nel secolo decimosesto, nella splendida città del Messico,
edificata con arte idraulica fra due laghi, con grandi vie rettilinee e
rettangole, si praticava tuttavia sulla sommità d'eccelse piramidi una
continuazione rituale della vita canibale, oramai probabilmente, a solo terrore
delle genti suddite e ad arte di stato. Ma le origini di questa atroce idea, in
una nazione ricca già di molte arti e addottrinata in collegi sacerdotali,
erano le tradizioni, non interrotte mai, della vita selvaggia.
Il vincolo
intimo e commune di tutte queste analisi primitive è la lingua. Il discorso è
una continua analisi. È d'uopo analizzare il pensiero per tradurlo in parola; è
d'uopo analizzare viceversa la parola per estrarre il pensiero. Costretto
l'uomo sin dall'infanzia a percorrere l'assiduo andirivieni in quella trafila
analitica che modula nella prescritta forma sociale ogni suo ed ogni altrui
concetto, non può cancellar poi del tutto le vestigia di quella perenne
disciplina, sicché non sopravivano indelebili, nei successivi incrementi delle
lingue e nelle loro miscele e trasformazioni.
Per un esempio:
- nella numerazione, la lingua dei succitati Aztechi del Messico, procede, non
per decine, ma per quintine. È manifesto ch'ella deve aver preso le mosse dalla
primitiva analisi d'una sola mano. E sopravivono pur troppo in questo
secolo altre genti oceaniche e americane e africane, le quali non giunsero a
compire i loro numerali, nemmeno per potersi contare tutte le dita d'una mano.
Esse, fin dall'infanzia, si avvezzano a far senza dei numeri, come fecero i loro
avi per migliaia d'anni. Perciò tutti i loro concetti, non solo di numero,
ma di spazio, di tempo, di misure, di distanze, di altezze, di valori, di
forze, sono indeterminati; sono irreparabilmente vaghi e
vani. Tutta la loro potenza mentale e materiale ne rimane snervata. Io credo
ch'essi, nella pratica del commercio, dovranno inevitabilmente completare la
loro numerazione. Ma credo che non potrebbero più dedurre i nuovi numeri dal
medesimo principio dal quale dedussero anticamente i primi; ma bensì dovranno
appropriarsi a dirittura i numeri europei, tali e quali sogliono udirli al
mercato. Così fecero li Europei medesimi quando presero a prestito il nome di millione
dalla nostra lingua; nella quale era organicamente nato, in forma di mero
accrescitivo, forma inflessiva ch'essi nelle loro lingue non avevano.
Quando le
singole genti nelle singole regioni ebbero costituito colle varie analisi
iniziali altretante tradizioni iniziali, espresse con altretanti rudimenti di
lingue, potevano aumentare in varii modi quel primo patrimonio. - Potevano
intorno a sé avvertire altre cose utili o dannose, dapprima inosservate. -
Potevano, sia per attenzione ripetuta, sia per associazione d'idee, sia per
lampo di genio individuale, discernere negli oggetti già noti nuove proprietà e
nuove corrispondenze ai communi bisogni. Avvenne, per esempio, che fra quei
barbari alcuno più sagace, trovandosi armato già istintivamente d'un pezzo di
legno, così come poteva fare eziandio l'orangotango o il gorrilla, potesse, per
forza propria dell'intelletto umano, oltrepassare quel limite istintivo,
intravedere in una selce tagliente o in una resta di pesce di che farne un
coltello, una scure, una lancia, una saetta. - Avvenne che alcuno, nella
terribile esperienza d'un veleno, intravedesse il modo d'inasprire vie più
quelle povere armi e avventare una morte certa contro le fiere e i nemici. -
Avvenne che alcuno, cadendo in un fiume, si salvasse afferrandosi per mero
istinto ad un tronco galleggiante; e che continuando e rinovando quell'atto, vi
percepisse l'idea madre dell'arte nautica. In questi nuovi avvedimenti,
comincia l'azione analitica dell'individuo oltre la tradizione e contro la
tradizione. Questi furono i primi conati di libera analisi. Codesta
potenza dell'individuo che vede nelle cose ciò che li altri non videro, quando
si esalti a sommo grado e trovi un'idea madre, cioè il caposaldo d'una
nuova serie d'idee, costituisce il genio; perché si considera
come opera d'un'intelligenza superiore alla natura umana e quasi come d'uno
spirito tutelare. Gli antichi considerarono veramente tutte codeste idee madri
d'un'arte o d'una scienza come doni fatti all'umanità dalli dei o semidei.
Ma in queste
nuove analisi ebbe parte grande il caso. - Si narra che i Fenici,
abbruciando una congerie d'erbe marine sulle arene silicee del lido, vedessero
scorrere per la prima volta il vetro liquefatto. Si narra che gli Spagnuoli
scopersero per simil modo un copioso letto di cloruro d'argento.
Quando interviene
l'azione individuale o quella del caso fortuito, facilmente si spiega come le
nazioni abbiano potuto raggiungere un'idea forse più astrusa, senza averne
potuto percepire un'altra forse più ovvia. Così vediamo li eroi dell'Iliade
combattere sui carri e non ancora sul dorso dei cavalli. Così appare già
diffuso nel Perù l'uso del guano, in un tempo quando colà l'agricultura si
esercitava con istrumenti di legno. Così nell'Australia, nessuno per migliaia
d'anni concepì la più rozza forma di casa o di nave; eppure vi fu chi divisò
d'ostruire con pietre e legni le aque nei passi più angusti per imprigionarvi
il pesce.
Qui mi sia
permesso di notare come molti credono oramai dimostrato che nella cronologia
delle nazioni primitive si seguano in ordine fisso le successive età del legno,
della pietra, del rame, del ferro. La tradizione classica faceva precedere
l'età dell'oro; e ciò forse poteva rappresentare la credenza ad una legge
piuttosto di decadimento che non di progresso. È certo però che in America, al
tempo della conquista, unicamente diffuso e antico era l'uso dell'oro, mentre
colà il rame e il ferro erano affatto ignoti. E fu l'oro che a memoria nostra
attrasse il torrente dell'emigrazione in California e in Australia, dove li
aborigeni non avevano scoperto alcun altro metallo. La scienza deve tener conto
di queste varietà e non essere troppo sollecita di chiudete il ruolo dei fatti,
affinché le ulteriori analisi rimangano più libere e le scoperte compiute e
annunciate con unanimi testimonianze non sembrino contradette dalle scoperte
successive.
Fin qui mi sono
rinchiuso nell'ipotesi delle tradizioni universalmente isolate. Ma già
dai primordii, le scoperte possono propagarsi da tribù a tribù, almeno a
brevi distanze.
Fu osservato
che intorno alle palafitte lacustri sulle quali posero dimora i selvaggi della
prisca Europa, si raccolgono in alcuni luoghi certe pietre taglienti delle
quali essi formavano coltelli e lance, quando era ignoto l'uso dei metalli. Ma
siccome i geologi rilevarono che quelle pietre non si trovano naturalmente
sparse in quelle vicinanze, fecero induzione che fossero colà recate per un
primordio di communicazione vicinale con altri selvaggi amici o nemici che
avessero potuto rinvenirle altrove o averle da altri.
Perloché queste
umili pietruzze sarebbero il più antico documento non solo d'un commercio da
gente a gente, ma della prima propagazione d'un'idea. Le menti
associate già solamente nelle tradizioni del passato avevano adunque già
incominciato a communicarsi fra loro da tribù a tribù le idee del presente. Alla
tradizione ereditaria si aggiungeva già la propaganda vicinale.
Parimenti quando in quelle terre
sepolcrali si dissotterrano le ceneri e i carboni di quei focolari selvaggi, si
ha un documento antichissimo della propagazione contemporanea del fuoco; -
altra idea-madre, più feconda di tutte, e più varia nelle
sue applicazioni alla scoperta d'altre idee-madri. Quella
nuova fonte di calore e di luce fu anche in età successive trasmessa come cosa
sacra. Nel Zendavesta la fondazione delle città e delle colonie è chiamata la
propagazione dei fuochi. Anche in più lontani secoli, i re persiani
solevano mandare inanzi al loro esercito fochi sacri, accesi sopra altari
d'argento, come se volessero con quel dono allettare i popoli ad accettare i
beni della loro signoria: - Ignis, quem ipsi sacrum et aeternum vocabant,
argenteis altaribus praeferebatur (Curt. 3.3. Forc. Ignis).
Il foco sacro
era custodito nei templi; spento veniva riacceso con mistiche solennità, la cui
tradizione vive tuttavia fra le mutate nostre credenze. La
partecipazione del foco rimase per sempre un diritto della famiglia, un diritto
delle genti; l'esclusione era un'ingiuria, una pena, un esilio, una guerra, una
maledizione: - Hostes judicemur; aquâ et igni nobis interdicatur (D. Br.
Forc. Interdicere).
Signori,
l'umanità è ben giovine. L'invenzione del foco appena ha compiuto il giro del
globo. Ho letto ne' miei primi anni, se ben mi ricordo nella collezione del
Laharpe o nei viaggi di Cook, che in qualche isola del grande Oceano, quando li
aborigeni videro ardere per la prima volta il foco, lo stimarono una cosa viva,
e avendo osato toccarlo, si credettero morsi da un animal feroce. Qui la
propaganda vicinale si dilata in propaganda delle nazioni. Le
osservazioni d'una tribù divengono cognizioni del genere umano.
Ogni arte
nuova diviene un nuovo campo d'analisi. Chi ha scoperto l'uso del fuoco ha
fatto strada alla scoperta dei metalli. Chi ha intraveduto in un tronco natante
una nave, ha preordinato per sé e suoi come per gli stranieri, per i viventi
come per i posteri, una serie di successive scoperte, che senza limite di
materia e di forma, sempre crescendo, giunse fino a noi e crescerà fin che duri
il genere umano. Ma queste successive analisi che svolgono dal seno d'un'idea
madre le nuove arti consistono nell'osservare le leggi della natura, per
conformarsi ad essa: - «Natura parendo vincitur», - disse Bacone. E
riescono più facili o difficili, secondo che corrispondono alle tradizioni e
disposizioni delle società. Le menti associate in questa analisi
ereditaria e progressiva oscillano dunque perpetuamente tra un ordine ideale
che rappresenta le leggi invariabili della natura - e un altro ordine
ideale che rappresenta, in dati tempi e luoghi e popoli, le condizioni della società.
Tutto questo progresso delle idee rimane
posto fuori dall'ipotesi dell'individuo pensante; oltrepassa tanto la solitudine
metafisica di Cartesio quanto la statua sensitiva di Condillac, la solitudine
poetica di Rousseau e la commune natura delle nazioni di Vico. A
compimento della dottrina di Vico resta di chiarire come, la natura delle genti
essendo commune, le colonie delle nazioni progressive debbano in molte parti
della terra trovarsi a fronte di tutte le gradazioni d'una barbara inerzia.
Questo è il più grande problema dell'umanità. Perché venga studiato è d'uopo
che venga proposto.
Ricorrendo
tutta quella serie d'idee che fin qui abbiamo percorso, non si offerse alla
nostra mente dove collocare l'idea poetica del selvaggio solitario, felice co'
suoi pensieri nel seno della madre natura, quale Rousseau lo dipinse a sé
medesimo e ai nostri padri: - «Je le vois se rassaisiant sous un chêne, se
désalterant au premier ruisseau, trouvant son lit au pied du même arbre qui lui
a fourni son repas».
Ma questo placido
regno del pensiero è impossibile nel perenne bisogno e nella perenne agitazione
della vita selvaggia. Rousseau aveva accolto la tradizione, verisimile
purtroppo, che li aborigeni in Italia avessero vissuto di ghiande; e infatti
l'analisi della nostra flora nativa non disdice molto notevolmente questa poco
allettevole tradizione. Anzi la tradizione stessa popolava le selve dell'Italia
e della Grecia colle truci sembianze dei Lestrigoni, dei Ciclopi, di Caco, di
Licaone, di Tieste. Erano le memorie confuse del passato che abbracciavano i
fantasmi della vita canibale. E questa era inevitabile fintantoché l'aborigene
nudo, nelle deserte selve di roveri e d'elci, con un vivere senza casa e una
pesca senza reti e una caccia senz'armi, doveva avere di che sfamarsi
regolarmente ogni dì dell'anno, senza saper preservare dalle ingiurie degli
elementi e dalle insidie degli animali diurni e notturni le incerte prede e i
caduchi frutti. Oggi satollo e oppresso di cibo, per rodere dimani i fetidi
avanzi - o cader di fame, - o tenersi in vita divorando il cadavere del suo
simile. È perciò che in alcuni paesi dell'Africa meridionale, quando alcuno
atterra un grosso animale, tutta la tribù accorre per prisca tradizione a
dividerlo secolui; e chi alla sua volta tradisce il ricambio, vien maledetto
con formule sacre, alla cui giustizia si attribuisce ogni seguente calamità.
Laonde se
l'uomo selvaggio da Hobbes fu detto puer robustus, più giustamente
potrebbe dirsi puer famelicus; perché s'indicherebbe nel tempo stesso
come quell'ansietà perpetua del vivere sia causa di quella perpetua puerizia
della mente.
Vi parrà forse, Signori, ch'io mi sia
troppo divagato ricercando in seno all'estrema barbarie i più intimi secreti
della vita scientifica. Ma questa analisi della vita del pensiero nella sua
iniziale semplicità torna utile, perché chiarite una volta le sue leggi si può
seguirle poi nelle sue più difficili evoluzioni.
Le tradizioni
delle singole tribù ingrossando inegualmente nel corso dei secoli le loro
correnti, dovevano ad ogni modo incontrarsi fra loro e confluire. Le tribù
vicine, o perché amiche o tanto più perché nemiche, dovevano ammaestrarsi
coll'esempio e colla forza prevalente delle offese. L'arco e la fionda furono a
quei tempi ciò ch'è in questi giorni il fucile prussiano. O perire o imitare; o
perire o accettare un'idea!
Siffatte
communicazioni primitive dovevano essere più agevoli e immediate lungo le convalli
dei grandi fiumi nelle regioni più temperate; poiché offrono una lunga sequela
di luoghi ubertosi ove piante e animali trovano alimento nella terra e nelle
aque; epperò le tribù possono trovare vita meno incerta e faticosa;
moltiplicarsi ed assicurarsi col numero; coordinare i frammenti delle
tradizioni iniziali nel seno di prevalenti lingue mediatrici; appropriarle
con nuove inflessioni e composizioni e con traslati ad esprimere ordini
d'analisi sempre più elevati; a tentare le prime astrazioni del numero, del
tempo, dello spazio, delle forme. I poteri dell'osservazione non sono più
angustiati dalle inesorabili necessità d'una perpetua carestia. Sono ognor più
liberi li atti dell'attenzione; ognor più largo il suo campo. Le genti, potendo
anche più facilmente moversi da luogo a luogo, possono raccogliere maggior
numero di scoperte locali. Ciò accresce vie più la facilità del vivere,
l'addensarsi delle società. Ricomincia il lavoro sociale; ma non è più quello
della tribù solitaria; è la tradizione d'un popolo nel seno d'un vivere
migliore. Si comincia ad aver tempo. È ciò che i Latini chiamano ozio;
l'ozio per lo studio; otium studio, come scrive Cicerone; cioè riposo e
pensiero. Ozio in greco si dice scholê, ed è una delle voci più sapienti
di quella lingua sapiente. La scola ossia l'ozio d'Atene è il portico, è
l'orto, è la selva d'Academo. È il libero e amabile corso della mente alla
ricerca del vero:
atque inter
silvas Academi quaerere verum. Hor.
Le più grandi
aggregazioni di popoli avvennero in Oriente lungo i grandi fiumi ove le flore e
le faune native comprendevano fin da principio alcuno dei principali elementi
dell'agricultura e della pastorizia. Tale era la bassa valle inondata così
regolarmente dal Nilo; tali erano i due fiumi della Mesopotamia; i due fiumi
della Battria; i due fiumi dell'India; i due fiumi della China. Sotto la zona
torrida le grandi associazioni dei popoli si svolsero sui vasti altipiani
dell'Etiopia, del Perù, del Messico, perché quivi l'altitudine fra nevosi monti
mitigava i calori della latitudine. La terra meno propizia fu l'Australia, perché
la natura le negò i grandi fiumi, i fecondi altipiani, e vi sparse una flora e
una fauna egualmente ingrate. Mancando l'opera della natura, mancò anche
l'opera della società. La vita del pensiero fu impossibile. E così
avvenne che ammessa pure anche per quei miseri abbozzi d'uomo l'ipotesi della commune
natura delle nazioni e il principio incontestabile della commune natura
dell'intelletto, resta facilmente spiegato come quella gente non sia mai
giunta ad afferrare l'idea madre né dell'agricultura, né della pastorizia, né
della navigazione, né della metallurgia, e non mostri tampoco l'istinto
costruttivo del castoro, e sia molto probabilmente destinata a perire in questa
cadaverica inerzia d'un intelletto nato morto.
Signori, ho
tentato dimostrare come l'origine delle idee non sia così semplice come la
natura dell'intelletto, né si possa spiegare colla sola natura dell'intelletto.
Essa mi pare come un arbore che vive bensì di vita sua propria, ma che per
vivere deve tenere le radici nella terra e stendere i rami sovra un consorzio
sociale.
Non mi sembra
probabile l'idea generalmente diffusa che l'idea madre della pastorizia dovesse
regolarmente precedere l'idea madre dell'agricultura; il che implica che
dovessero nascere distinte e separate. Una tribù poteva tanto trovare nella sua
patria la palma o il frumento o il riso, se la natura gliene aveva fatto il
dono, come poteva trovarvi la pecora o il bove. Una sola di codeste utili
specie animali o vegetabili bastava per inaugurarvi la vita pastorale o
l'agricola o entrambe. L'uomo che avesse incontrato in qualche romita valle un
gregge vagante nella primitiva libertà, aveva solo a pensare: quel gregge è
mio; difenderlo dalle fiere e dai nemici, soccorso dal vigile cane
che lo seguiva per godere le reliquie del macello. Ma ciò non impediva di
continuare a raccogliere come prima i frutti selvaggi o alcun grano o legume. E
ad iniziare con alcuno di questi la vita agricola, bastava che nella secolare
esperienza della sua tribù fosse giunto a discernere in quella pianta il seme,
che caduto nel fango risurgeva in novella pianta.
Ma l'elemento
pastorale era più efficace alla propagazione delle scoperte perché più
mobile. I mansueti e gregarii animali erano disposti da natura a seguir
l'uomo da luogo a luogo e anche a trasportarlo.
Ecco quindi le genti dell'Asia
predestinate a moversi vastamente sulla terra e raccogliere ogni dove gli
sparsi frammenti dell'analisi selvaggia. Il gran deserto dell'Africa rimase
impraticabile finché il camelo dell'Arabia e della Battria non approdò alle
isole palmifere del mare d'arena.
Oramai nella
certezza e continuità del vivere, il pensiero poté levarsi finalmente al cielo;
distinguere non più solamente il sole e la luna; ma suddividere le stelle fisse
in costellazioni, e distinguere i pianeti che s'accompagnano or all'una or
all'altra costellazione. Oramai la natura e la società schierano inanzi al
pensiero i tesori di molte regioni e le tradizioni di molti popoli. Ma pur
troppo il pensiero dai faticosi e lenti passi dell'analisi trapassa ai rapidi
voli della sintesi. L'imaginazione si sveglia; anticipa e presume ciò che non
sa; precorre alla cognizione, esagera un'idea per compirla; scambia
l'astronomia con l'astrologia, la medicina con la magia, la contemplazione con
la visione e con l'estasi. Non appena la misurazione dei campi ha dato
occasione alla prima geometria; e già la scienza del matematico si confonde
coll'arte dell'indovino: «Mathematici... genus hominum... sperantibus fallax».
Tacito.
Mentre per tal
modo le caste dotte mutano la dura e fedele osservazione in vaga poesia, le
moltitudini passano dalla miseria del selvaggio alla miseria dello schiavo. Il
commercio inizia lo scambio delle cose; e perciò ciascuno si raccoglie in
un'arte sola, fugge dagli oppressori della patria in cerca di libertà; fugge ad
esercitarla presso altre genti; ogni arte diviene un secreto e una nuova casta;
ecco nascere ciò che li economisti chiamano la divisione del lavoro; ma
che al cospetto della psicologia è solamente un nuovo ordine d'analisi il
quale penetra sempre più profondamente negli arcani della natura. Intento
solamente all'arte sua, il plebeo riceve passivamente tutte le idee generali
che gli vengono imposte dalle classi dotte. Quindi fomentato quell'ordine
d'idee che s'accorda ai voleri del potente, e repressa e maledetta ogni ricerca
che può rivocare in dubbio le credenze ch'egli ha dettato. L'analisi si estende
e fra i signori e fra i servi; ma non è libera; i potenti segnano un limite
agli altri; segnano un limite a sé stessi; l'analisi diviene nuovamente
preordinata e fatale. La potenza dunque, senza avvedersi, segna un limite
alla potenza. È il fatto odierno della Russia, dell'Austria, della Francia
stessa e dell'Italia.
V'è un momento
in cui l'analisi officiale rompe le sue catene nelle libere città della Grecia;
ma sopraviene l'unità macedonica e l'enciclopedia d'Aristotele, poi la
conquista romana e l'unità bizantina; il pensiero greco si sommerge nella
memoria del passato; in tutto il medio evo l'analisi è preordinata e fatale.
Io non mi
trattengo a descrivervi il fatto del quale molti di voi sono più intimi
testimonii ch'io non sia.
Io non mi
trattengo a rammentarvi come avvenne che nella moderna Europa e nelle sue
colonie, in rapporto sempre alle tradizioni più o meno libere e audaci ch'esse
avevano recato seco dalla madre patria, la potenza dell'analisi si esaltò ad un
grado che non ha esempio nel corso de' secoli.
Voi sapete come
l'analisi universale cominciasse ad armare sé stessa coll'opera d'innumerevoli
ordini d'analisi speciali. Altro che non sapersi numerare le dita d'una mano! -
altro che numerare per quintine! - altro che dire due paja ed uno per
significar cinque, tre paja per significar sei, tre paja ed uno per significar
sette e poi non saper più andare avanti, e per disperazione afferrarsi con ambe
le mani i capelli e gridar cuma! ciò che vuol dire molti! - nella
povera lingua delle tribù visitate dal nostro commune amico Osculati, nelle
selve appiè dell'eccelso altipiano del Perù! L'analisi universale si armò
coll'analisi matematica; si armò di tutti li strumenti della fisica, misurò
tutte le variazioni del calore, dissipò la favola di Dedalo; trasmutò gli
ardori della sfera del foco in una sfera di gelo, invano penetrata dai raggi della
fotosfera solare; pesò l'aria; calcolò le cadute dei gravi; alzò in faccia a
Giove Tonante il parafulmine, tese sui gioghi delle Alpi e negli abissi
dell'Oceano i fili parlanti. Si armò di tutti li artificii della chimica;
trovò i numeri degli equivalenti, il gran gioco di carte della natura, le
poche carte che fanno una serie infinita di giochi; disfece e rifece tutte le
combinazioni di quel caleidoscopio e calcolò altre combinazioni a cui forse la
madre natura non aveva peranco avuto occasione; scoperse che tutte le potenze
letali e vitali del mondo vegetabile non piovevano sulla terra per magico
influsso degli astri, ma erano poco più che numeriche proporzioni d'aqua e di
carbonio. La medicina si armò dell'analisi anatomica, oppose veleni a
veleni, cogli strumenti della morte salvò la vita; era il senso della sapiente
parola di farmaco che la sapienza anticipata dell'Oriente aveva
consegnato alla Grecia.
Volgendosi al
mondo delle tradizioni l'analisi universale interrogò tutte le lingue,
dissepellì le loro radici, le radici delle loro radici; narrò ad esse colle
loro proprie parole com'erano nate e come da lingue di canibali più brutali
dell'orangotango e del gorrilla fossero giunte a dare un nome ordinatore a
tutte le piante e a tutti li animali dell'orbe terraqueo, - a tutte le pietre e
a tutte le creazioni petrificate che avevano vissuto in quelle pietre nei
secoli dei secoli dei secoli. Trasse dall'umile basalto di Rosetta i misterii
dell'antico Egitto; lesse diecimila anni di date sepolte sulle
pareti dei templi e nelle viscere delle piramidi. Penetrò il senso del sapiente
aggettivo dato alla volta celeste da Virgilio, l'allievo dei Druidi, il maestro
di Dante:
Terrasque,
tractusque maris coelumque profundum!
L'analisi
antica, libera tratto tratto, ma sempre inerme, divenne libera e armata;
divenne irresistibile; essa è ancora preordinata e fatale, ma il suo ordine è
l'ordine di Dio; il suo fato è la verità.
Libertà e
verità! Signori, scrivete queste parole sulle porte di tutte le
università.
Intanto sugli
immani regni dell'Asia si aggreva l'ineluttabile dominio delle tradizioni, la
scienza delle sintesi premature e anticipate.
Oggi
nell'Europa e nelle colonie, oramai propagate alle estremità della terra, ma
non pervenute ancora a penetrarne tutte le parti, non pervenute ancora a
riconoscere in tutto il suo circuito il patrimonio del genere umano si
commisura alla libertà dell'analisi la ricchezza e la potenza delle nazioni: - Scienza
è forza!
Non si considera fra noi più nemmeno come
scienziato chi vive parasita delle tradizioni, chi non abbia dato alla scienza
un'idea la quale egli possa chiamar sua. L'arte di fare le scoperte prevista e
descritta anzi tempo dal profeta Bacone è divulgata a tutti. Vi sono società
d'uomini la cui vita consiste nell'attendere a fare scoperte; e d'altri uomini
la cui vita consiste nell'attendere ad annunciarle. È l'analisi per
l'analisi!
Noi fummo testimoni degli eventi che
sottomisero all'Europa e alle sue colonie le sorti dell'Asia e dell'Africa. Ora
si affaccia a noi la più grande di tutte le rivoluzioni che sottomette tutte le
discordi sintesi d'una scienza fantastica all'urto dell'analisi libera e armata
delle opere sue; che inaugura finalmente la concorde libertà del pensiero per
tutto il genere umano.
Oramai non
dobbiamo curarci di rinvenire tra le reliquie del mondo fossile l'unità
primordiale del genere umano. Da dovunque egli sia venuto il genere umano
procede alla libera unità del pensiero.
Signori, questo è per me un breve
capitolo; ma potrebbe essere ad altri un'opera di lunga lena.
Io aveva già
presenti alla mente queste idee, quando (in gennaio 1862) risposi publicamente
nel Politecnico ad una cortese inchiesta che l'onorevole Matteucci, allora
ministro, mi faceva sulla riforma da lui proposta per gli studi scientifici in
Italia.
Io gli proposi
allora per sommo principio da seguirsi nel complesso delle università la
divisione del lavoro, ossia la libera analisi, in quanto che non si
riproducesse mai in una università l'identico programma d'un'altra; ma le sole
scienze generali e necessarie, le sole scienze preliminari e accompagnatorie
fossero uniformi in più facultà; ma gli altri studii costituissero corsi
affatto speciali, proprii ciascuno di ciascuna università. E così per
esempio, supposto che avessimo in Italia dieci uniformi facultà per gli
ingegneri, ciascuna delle quali avesse dieci catedre, io intendeva che si
ponesse la mira a disporre a poco a poco le cose in modo che una metà incirca
di quelle catedre avesse un programma uniforme di scienze generali egualmente
necessarie per tutte le varietà dell'insegnamento; ma l'altra metà delle
catedre fosse intesa ad un insegnamento speciale, proprio di quella sola
università. Una delle dieci facultà d'ingegneri dovrebbe fornire un
insegnamento speciale d'alta matematica, destinato a preparare forti
professori di questa famiglia di scienze, anche per le altre facultà, per i
licei e le scuole tecniche e militari. Questa facultà matematica, per
conservare una certa tradizione locale si potrebbe istituire in Modena. Un
corso speciale d'ingegneri agronomi sarebbe da istituirsi in Pavia. E così
sarebbe ad assegnarsi ad altra opportuna città un corso d'ingegneri idraulici,
censuarii, maremmani, navali, ferroviarii, meccanici senza obliare un ramo di
bella architettura. E ora aggiungerei un ramo di buona e provida architettura
campestre e urbana nelle sue più modeste e utili e salubri forme.
Dato che in
ogni università questi corsi avessero cinque catedre generali, epperò uniformi,
e cinque catedre speciali, epperò diverse in ogni università, si avrebbero con
una equivalente spesa nelle dieci università cinque rami d'insegnamento
uniformi in tutte e cinquanta rami speciali e tutti variati. Perloché codesto
studio degli ingegneri che ora nelle dieci università colla spesa di cento
catedre darebbe soli dieci rami d'insegnamento, allora, pur con cento catedre,
darebbe cinquantacinque rami, dei quali cinque soli sarebbero uniformi da per
tutto.
Applicato il
medesimo principio alla facultà medica, alla legale, all'amministrativa,
all'industriale, si avrebbero più centinaja di rami speciali d'insegnamento; e
dal complesso di tutte le facultà così sviluppate, surgerebbe una sola e grande
e vera universitas studiorum, come s'intese quando le università furono
primamente instituite coi poveri materiali che il medio evo poteva offrire. E
in luogo d'una misera e servile e sterile uniformità, l'Italia darebbe
l'esempio d'una splendida enciclopedia nazionale.
Per aumentare
vie più la divisione del lavoro e la intensità dell'insegnamento, si
dovrebbero ammettere in ciascuna università corsi liberi e occasionali da chi
potesse apportarvi qualche ordine nuovo d'idee. Con questi corsi liberi e
originali li aspiranti alle catedre si farebbero conoscere in ben altro modo
che colla usanza delle terne, consegnate ai favori di amministratori non sempre
competenti.
Parimenti i
veterani delle facultà che attendessero notoriamente a studii di scoperta e ne
dessero annuo saggio, potrebbero cedere una parte della quotidiana fatica ed
esporre poi le loro dottrine in lezioni volontarie aperte a tutti.
Anzi io proposi
che una facultà di Scienze Nuove si aprisse in Roma; e che a questi
giochi olimpici dell'Italia pensante, fossero invitati con alta ospitalità i
più gloriosi campioni della scienza straniera. Sarebbe una festa del genere
umano, la festa del libero pensiero: Libertà e Verità.
Io conchiudeva allora dicendo: «che ad
ogni ramo speciale di scienza si potrebbe aggiungere una relativa appendice
militare; perché ad ogni più alto pensiero la gioventù deve sempre
intessere un pensiero di guerra, come il popolo che rialzando dalle ruine la
sacra sua città: unâ manu faciebat opus et alterâ tenebat gladium (Esdra,
XI, 4)».
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