Non è che
manchi ai Chinesi la coscienza d’esser nazione; poiché già una volta scossero
il dominio straniero dei Mogoli; e già da piú
generazioni, già fin dal principio del nuovo dominio dei Manciuri, colà
millioni d’uomini vivono ascritti a ereditaria e perpetua congiura; e una vasta
ribellione, discesa dalle ancora indomite regioni montuose, contende da
parecchi anni ai dominatori le piú
fertili provincie. Né si può dire che manchi loro fierezza di propositi,
coraggio e devozione, quando si vedono popolose città interamente desolate
dalle guerre civili e straniere, e i loro difensori, anziché lasciare in potere
dei nemici le famiglie, trucidarle di propria mano, e gettarle nelle fiamme.
Il pregiudicio che attribuisce
sommariamente la debolezza di quei popoli a inerzia mentale, all’odio d’ogni
utile innovazione, al nessuno contatto con altre genti, involge alcune parti di
vero; ma nel suo complesso è un grave inganno. La debolezza loro dipende
veramente da cause che sono assai meno lontane da quelle per le quali siamo
caduti noi medesimi, per sí lungo
tempo, in sí basso e indegno stato. La civiltà chinese, iniziata splendidamente
venti e piú secoli prima della
fondazione di Roma, e quando la superba Europa era ancora tutta barbara e in
gran parte selvaggia, fu sempre e assiduamente progressiva. E se non neghiamo i
fatti piú evidenti e solenni, lo è
ancora ai nostri giorni. I Chinesi, senza noi, e prima di noi e a nostro ammaestramento
e vantaggio, trovarono la cultura del riso e quella del cotone, dello zucchero,
del té, del limone, dell’arancio, quella della canfora, del rabarbaro e d’altre
piante salutari. Trovarono dal principio al fine tutta l’arte di raccoglier la seta,
di filarla, di tesserla, di tingerla in colori che sono ancora un secreto per
la nostra chimica. Essi, già nei tempi di Marco Polo, or sono sei secoli,
avevano scoperto l’uso del carbon fossile, che a quell’illustre viaggiatore
parve una pietra. Essi trovarono pur da principio a fine tutta l’arte di
comporre e colorare porcellane di mirabile delicatezza; e di fare carta di
seta, di gelso, di bambú, d’aralia;
di trarre tele e stuoie da specie a noi ignote di palme, d’ortiche, di canapi,
di giunchi; e ricavare pur dal regno vegetale sevo, cera, sapone, vernici,
lacche; di preparare finissimi inchiostri e acquerelli. Essi inventarono prima
di noi la polvere da foco, e la stampa; trasmisero per mezzo degli Arabi agli
Italiani la prima invenzione della bussola. Essi, prima di noi, ridussero ad
arte la concimazione, la pescicultura, la selvicultura, la costruzione dei
giardini, non solo in terra, ma persino sopra zattere galleggianti; essi furono
maestri agli Olandesi, agli Inglesi, ai Francesi nella piú gentile delle arti, la floricultura.
Essi condussero le acque a irrigare, non solo i piani, ma il pendio delle
colline; essi scavarono fin dai remoti tempi il piú largo e lungo di tutti i canali navigabili del mondo;
costrussero sovra un braccio di mare un ponte di trecento pile; e con argini di
fiumi e tagli di paludi, acquistarono all’agricultura provincie che noi
chiameremmo grandi regni. Né il Chinese rifiutò in questi ultimi anni di
accettare utili esempii; adottò largamente le tre culture americane della patata,
del maiz e del tabacco; accolse docilmente l’innesto del vaccino, combattuto sí lungamente in Europa; e pur troppo da
soli sessant’anni si sotomise al fatale uso e al piú fatale commercio dell’opio.
Ma la piú manifesta prova d’un immenso progresso, operato in queste ultime
generazioni su tutta la superficie della China, è questa. Mentre le memorie dei
secoli piú lontani attribuiscono
alla China solo tredici millioni d’abitanti; e quelle del principio
dell’era nostra sessanta millioni, questo numero nel principio del
secolo passato saliva a cento; verso la fine del secolo a trecento. E
se prestiamo fede alle ultime notizie officiali fatte raccogliere dal governo
francese, sarebbe giunto nel 1812 a 367 millioni; e nel 1860 al prodigioso
numero di 530 millioni ; che fa incirca il doppio della popolazione di tutta
Europa; quasi la metà del genere umano1. Onde li scrittori officiali
francesi, li scrittori d’un governo a cui mancò appunto sempre l’arte di
moltiplicare le sussistenze, si fanno maraviglia che su tutta la vasta
superficie della China, comprese le piú
inospiti montagne, possano vivere 157 abitanti per chilometro quadro, e nelle
provincie basse 262 abitanti, mentre la Francia su tutta la sua superficie ne
ragguaglia incirca 60. «Aucune grande
nation n’est parvenue à faire vivre une quantité d’hommes aussi considérable; —
magnifique résultat, obtenu par des progrès continus depuis deux
siècles». Noi non crediamo che il sommo della sapienza civile sia:
quello di gettar sulla superficie del globo millioni di miserabili, non
intendiamo disputare se un sí rapido
incremento di popolazione sia un assoluto bene o un assoluto male. Ma diciamo
che una nazione la quale in 150 anni trovò modo di far vivere, sovra una terra
già popolata da cento millioni d’uomini, quattrocento millioni di più, senza
avere usurpato il valore d’un centesimo alle altre nazioni della terra, non può
esservi riescita senza un immenso sviluppo di lavoro, di capitale e d’ingegno;
e che, chi la giudica da lontano una gente inerte e decrepita, è un insensato.
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