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Carlo Cattaneo
La China antica e moderna

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Noi non facciamo qui l’istoria della China; un intervallo di quindici secoli ci porta al secolo sesto avanti l’êra nostra, al tempo in cui l’Asia Minore produsse Talete, e in Italia fiorirono li Eleati. Due scole allora surgono nella China, suddivisa in piú Stati e comparativamente libera; la scola metafisica di Lao-tseu, e la scola politica e sociale di Khong-tseu, detto con forma latina Confucio.

La dottrina prima è chiamata anche di Tao; voce che in senso proprio significa via, e in senso figurato: «la grande voie de l’univers, dans laquelle marchent et circulent tous les êtres. — C’est le premier principe du mouvement universel, la cause, la raison première de tout: du monde idéal et du monde réel, de l’incorporel et du corporel, de la virtualité et du phénomène. Nous ne pouvons nous empêcher de signaler ici un trait caractéristique de la philosophie chinoise à toutes les époques de son histoire; c’est quelle n’a aucun terme propre pour désigner la première cause, et que Dieu n’a pas de nom dans celle philosophie. En Chine, aucune doctrine ne s’est jamais posé comme révélée, l’idée aussi bien que le nom d’un Dieu personnel, sont restés hors du domaine de la speculation.» (Pauthier, Philosophie des Chinois; nel Dictionnaire des Sciences Philosophiques. Paris, 1844).

Lao-tseu non ebbe molti seguaci; il padre dei dotti chinesi fu per venticinque secoli, ed è ancora oggidí, Confucio. Nato l’anno 55 avanti l’êra nostra, cioè al tempo degli ultimi re di Roma, egli visitò i varii Stati, in cui s’era divisa la China; predicò ai regnanti e ai loro ministri la giustizia, l’umanità e lo studio; lasciò dieci allievi perfetti, settantadue discepoli e tremila seguaci, molti dei quali magistrati e principi; onde in breve la sua parola ebbe autorità presso tutta la nazione. Quanto mai di bene si operò per tutti questi secoli nella China, venne sempre attribuito dai popoli agli insegnamenti di Confucio; il quale, piuttosto che ammirazione d’uomo dotto, n’ebbe culto d’uomo santo. Molti templi sono dedicati al suo nome.

Un paio di secoli, o poco piú, dopo la morte di Confucio (A. C. 255), i principi del regno di Thsin per forza d’armi soggiogarono sei degli altri regni confederati; diedero a tutto l’imperio il nome che poi prevalse, prima in India (Tcina), poi presso i Romani (Sinae), li Arabi (Tsin), e tutti i popoli moderni. Chiusero la frontiera settentrionale con un bastione a doppio muro; munito di torri, e lungo mille e duecento miglia. E impazienti d’un’autorità morale, che era una memoria di tempi piú liberi, e un limite al despotismo e un rimprovero, fecero ardere tutti li esemplari dei libri di Confucio e degli altri filosofi.

Tutto come in Occidente!

Ma sul principio del secolo successivo (A. C. 202), venuta per favore dei popoli all’imperio la famiglia degli Han, fece diligentemente raccogliere le reliquie dei manoscritti antichi; e ordinò che si leggessero in tutte le scole. Dotò di vasti poderi e di privilegi la famiglia di Confucio; la quale divenne nel corso delle generazioni una numerosa tribú, sicché contava nel secolo scorso undicimila persone. Decretò sacri onori a Confucio, come a uomo saggio e santo, e patrono perpetuo dei popoli contro la tirannide, e dei principi contro le proprie passioni e li adulatori. Oggidí non v’è città nel vastissimo regno, che non abbia dedicato un santuario al nome e all’imagine paterna di Confucio. E i popoli onorarono quella generosa dinastia, assumendo il suo nome, e ancora oggidí, dopo venti secoli, chiamandosi uomini degli Han (Han jin).

 Confucio non professò di dare una scienza nuova, ma ristaurò e continuò la tradizione primitiva e popolare: — «Il savio disse: io commento; io dilucido; ma non compongo opere nuove; io ho fede negli antichi e li amo. — Il savio disse: io non nacqui col dono della scienza; io son uno che amo li antichi, e si sforza di far tesoro del loro sapere.» (Colloquj, VII, 1, 19).

Perciò egli raccolse e ordinò i quattro vetustissimi libri delle Forme, degli Annali, dei Versi (Shi King), e dei Riti (Li-ki). Il primo era antico a’ suoi tempi quanto Socrate ai nostri; antico già di venticinque secoli.

Nulla egli scrisse; ma i discepoli fecero raccolta de’ suoi insegnamenti e ne composero i quattro libri classici (Sse Shu), che sono tuttora il testo di tutte le scole chinesi.

Il primo si chiama il Grande Studio (Ta hio); ma consiste in due sole pagine, seguite da breve commento di Thseng Tseu, allievo di Confucio. — Il secondo si chiama l’Invariabil mezzo (Tciung Yung), e fu scritto dal suo nipote Tseu Sse. — Il terzo è il libro dei Colloquj di Confucio (Lun Yu). — Il quarto è il piú lungo; e fu scritto dal suo seguace Meng Tseu, nome la cui forma latina è Mencio (Mencius).

«La mia dottrina è semplice e facile», dice Confucio nei Colloquj. E il suo discepolo Thseng Tseu soggiunge: — «La dottrina del maestro consiste tutta nell’avere l’animo retto e amare il suo prossimo come sé stesso». (Lun Yu, IV, 15). E un altro suo allievo, Tseu Khung, riduce la dottrina dell’umanità a questa formula: «giudicar li altri, paragonandoli a noi; e operare verso di loro come vorremmo ch’ essi operassero verso di noi» (Lun Yu, VI, 28).

Questi insegnamenti furono communi a Confucio con altri antichi. Quello che appartiene a lui si è: «che ogni uomo ricco o povero, illustre od oscuro ha egual dovere di emendare e perfezionare sé stesso, per farsi capace di promuovere il perfezionamento altrui.»

Questa dottrina sublime forma un capitolo dell’Invariabil Mezzo; del quale offriamo uno squarcio onde porgere un esempio del modo concatenato e deduttivo col quale le scole chinesi si sforzano di recare a forma scientifica e ad esercizio dimostrativo le loro idee: — «Nel mondo, i soli uomini veramente perfetti possono conoscere intimamente la propria natura, la legge del proprio essere e i doveri che ne derivano. Potendo conoscere intimamente la propria natura, la legge del proprio essere e i doveri che ne derivano, possono perciò conoscere intimamente la natura degli altri uomini, la legge del loro essere, e additar loro tutti i doveri che hanno a osservare per compiere l’ordine del Cielo. Potendo conoscere intimamente la natura degli altri uomini, la legge del loro essere, e additar loro tutti i doveri che hanno a osservare per compiere l’ordine del Cielo, possono perciò conoscere intimamente la natura degli altri esseri viventi e vegetanti, e fare che compiano la legge vitale secondo la natura loro. Potendo conoscere intimamente la natura degli esseri viventi e vegetanti, e fare che compiano la legge vitale secondo la natura loro, possono perciò col proprio alto intendimento secondare il Cielo e la Terra nella trasformazione e conservazione degli esseri, affinché questi conseguano il pieno loro svolgimento. Potendo secondare il Cielo e la Terra nella trasformazione e conservazione degli esseri, possono perciò costituire un terzo Potere insieme col Cielo e colla Terra» (Cap. XXII).

Questo ultimo annello della catena è veramente aureo e prezioso. È la piú alta cosa che sia detta intorno alla natura umana, considerata nella sua perfettibilità; considerata come una potenza che conserva e trasforma li altri esseri viventi su la terra.

Un tal modo di connettere i pensieri, che si potrebbe figurare colla statua d’un Giano bifronte, si vede adoperato altrove con doppio procedimento d’andata e ritorno, o d’ascesa e discesa. Ad esempio recheremo una delle due pagine del Grande Studio. «I principi antichi, che amavano fomentare e ravvivare nei regni loro il lume di ragione che riceviamo dal Cielo, attendevano prima a governar bene i regni loro. Quelli che amavano governar bene i regni loro, attendevano prima a ordinar bene le loro famiglie. Quelli che amavano ordinar bene le loro famiglie, attendevano prima ad emendare sé stessi. Quelli che amavano emendare sé stessi, attendevano prima a rettificare il loro animo. Quelli che amavano rettificare il loro animo, attendevano prima a render pure e sincere le loro intenzioni. Quelli che amavano render pure e sincere le loro intenzioni, attendevano prima a perfezionare le loro nozioni morali. Perfezionare le nozioni morali consiste nel penetrare e scandagliare il principio delle azioni.»

E qui comincia il ritorno:

«I principii delle azioni essendo penetrati e scandagliati, le nozioni morali vengono recate a somma perfezione. Le nozioni morali essendo recate a somma perfezione, le intenzioni si rendono pure e sincere. Le intenzioni essendo pure e sincere, l’animo si riempie di rettitudine. Lanimo essendo pieno di rettitudine, la persona viene ad emendarsi e perfezionarsi. La persona essendo emendata e perfezionata, la famiglia viene ad essere ben regolata. La famiglia essendo ben regolata, il regno è ben governato. Il regno essendo ben governato, il mondo è in pace e in armonia!»

Con questo duplice sorite, Confucio ha immedesimato la politica e la morale.

Piú sovente il pensiero chinese procede da un particolare ad un altro particolare, per via d’esempio, o d’analogia, o anche di mera similitudine poetica, che poi volentieri attinge da taluna delle odi antiche. — «Il Libro dei Versi dice: l’augello dorato, dal canto flebile, fa il nido nelle ombrose rupi. Il savio dice: l’augello conosce il luogo del suo destino; e non potrà l’uomo saper quanto l’augello?» (Commento al Grande Studio, 111,2).

Talora codeste sentenze sono espresse in modo affatto triviale: — «Se fossimo tre viandanti, io potrei aver due maestri: l’uomo dabbene, per imitarlo; e il malvagio, per emendarmi

Ma talora sono dettate dal piú generoso ardimento, come quando Meng Tseu dice al re di Liang: — «Il popolo muore di fame per le vie; e tu non apri i publici granai. Quando vedi li uomini morir di fame, tu dici: non è colpa mia; è la sterilità della terra. Non sei tu come colui che avendo trafitto uno colla spada, dicesse: non son io; è la mia spada ?... Uccidere l’uomo colla spada o col mal governo, che divario tu vi trovi ?... Le tue cucine ridondano di vivande, e le tue stalle son piene di cavalli ben pasciuti; ma il popolo ha su lo scarno volto il pallor della fame, e i campi sono sparsi di cadaveri... Dover tuo sarebbe reggere lo Stato, come se tu fossi il padre e la madre del tuo popolo» (Meng Tseu, I, 3 4).

Cosí parlavano e scrivevano, cinque secoli prima dell’era nostra, questi sacerdoti della ragione e dell’umanità. Era dunque naturale che i despoti ardessero i loro libri; ed è giusto che i popoli consacrino ancora al nome loro statue e santuari.

Noi crediamo che il piú sicuro modo di conoscere a fondo e apprezzare una gran nazione, sia quello di addentrarsi cosí nei secreti del suo pensiero. Perciò ne sia concesso citare un altro passo dell’Invariabil Mezzo, che ben potrebbe nei nostri libri di filosofia valere ad esempio del potere dell’analisi. «Se leviamo li occhi al cielo, vediamo a prima giunta solamente uno spazio scintillante di lumi; ma se potessimo sollevarci fino a quello spazio luminoso, lo troveremmo immenso. Il sole, la luna, le stelle, i pianeti vi pendono come da un filo; tutti li esseri del mondo ne sono coperti come d’una tenda. Che se di volgeremo li occhi alla terra, crederem sulle prime di poterla stringere nella mano; ma se la percorreremo, troverem ch’è vasta e profonda, perché sostiene li eccelsi Monti Fioriti (nel Shen-si) e non cede al peso; abbraccia nel suo grembo i fiumi e i mari, e non ne viene sommersa; e contiene tutti i viventi. E quei monti sembrano un frammento di rupe; ma quando esploriamo l’ampiezza loro, li troviamo alti e vasti; e vi allignano erbe e arbori; e augelli e quadrupedi vi fanno dimora; e vi si rinchiudono inesplorati tesori. E l’acqua, che da lungi miriamo, sembra poter colmare appena una lieve tazza; ma se scendiamo alla sua riva, non possiamo scandagliare la sua profondità; e nel suo seno vivono grosse testudini e crocodili e idre e pesci d’ogni forma; e vi nascono preziose gioie (Tciung Yung, XXVI, 9).

Ma per somma sventura della sua nazione, e, non esitiamo a dire, del genere umano, il venerabile Confucio, o per dare autorità alle sue dottrine, o per avvalorare l’autorità delle leggi, le immedesimò colle antiche costumanze, che poi non distinse dai sacri riti. — “Si può con una vera e sincera osservanza dei riti reggere un regno. “ (Colloq., IV, 13).

E questa inviolabilità coperse in perpetuo tutte le vanità della vita profana, li augurii, i saluti, li inchini, i titoli, le parole, i gesti, le vestimenta, i pennacchi, i bottoni! È prescritto nei libri rituali in quali modi, non altrimenti, e per quanti giorni, e non meno, ne piú, debba il magistrato di tale o tal grado ritirarsi a piangere la morte de’ suoi genitori; e dimorare nei luoghi ove sono i loro sepolcri; e in quali modi debba farne annua commemorazione nel sacrario domestico dedicato agli antenati.

Nulla dunque resta al libero e sincero affetto. I riti e le cerimonie essendo uniformi per tutte le persone del medesimo grado, mentre i sentimenti dell’animo variano secondo l’indole dei vivi e il merito dei morti, ciascuno è costretto dalla legge a dissimulare ciò che sente, a simulare ciò che non sente. I figli delle varie donne, che un concubinato legale ammette nella famiglia chinese, devono, giusta i riti, considerarsi tutti come figli della moglie grande, della matrona, come avrebbero detto i nostri Romani antichi; e perciò anche quelli che non sono i figli di lei, devono piangere piú lungamente la sua morte che non quella della vera loro madre.

Adunque tutti li atti publici e privati cadono sotto la giurisdizione del tribunale dei Riti (Li-pu); e quindi sotto quella del tribunale delle Pene (Hing-pu). Le gravi trasgressioni dei riti sono anche nei piú grandi personaggi punite col bastone, o coi tormenti, colla perdita dei pennacchi e bottoni d’onore, degli officii, dei beni, coll’esilio nei deserti, colla morte. Ognuno vive in continuo pericolo di cadere in fallo, in pena, in miseria; nessuna famiglia è sicura della sua fortuna. La trasgressione d’un inchino o di altra mera cerimonia, essendo pareggiata dalla legge a quella dei supremi doveri morali, ne viene gran confusione nella mente e nella coscienza dei popoli. Domina in tutta la nazione, come nelle nostre corti, una continua dissimulazione, coperta da una gentilezza affettata e compassata; al paragone della quale, i modi aperti e spontanei dei naviganti e trafficanti europei devono con molta ragione apparire al popolo chinese inculti e barbari.

Ma, per converso, questa cortigianesca e servile disciplina pesa piú sulle famiglie potenti che non su le umili e povere; e opprime con maggior ingombro di riguardi e di doveri la famiglia imperiale, ch’è soggetta ad un Consiglio di vigilanza (Tsong-jin-fu). L’imperatore medesimo soggiace alle impuni rimostranze dei censori (Tu-cia-yuan). Inoltre egli non può prendere alcuna risoluzione se non col consenso del Consiglio intimo (Ne-i-ko ); né può emanare alcun comando se non per mezzo del Consiglio dei magnati (Kiun-hi-ta-cin). Le ordinanze di questi si diramano a’ sei tribunali: dei Riti, delle Pene, delle Leggi civili, della Guerra, delle Finanze, delle Opere publiche, e all’officio delle Provincie barbare e degli Affari esteri. E tutti questi magistrati non si prestano a far cosa che contravenga ai riti, essendo poi essi soggetti ad altri censori (Lu-ko). In questo labirinto ministeriale vanno ad affondarsi oscuramente le forze d’una nazione ingegnosa, studiosa, industre e ricca, che ha tanto numero quanto due volte l’Europa, e che trovò tutto da sé; e nulla imparò da popolo del mondo.

Tutto come in Occidente.

Infine, nessuno può divenir magistrato, o come noi sogliam dire, mandarino, se non conseguí nelle scole il grado di dottore (tsin-sse) o di licenziato (kin-jin). Alle scole presiede l’istituto degli Han-lin; i cui membri sono uomini distinti nelle lettere e nelle scienze, ovvero discendenti di Confucio e di Mencio; e sono rivestiti del secondo fra i nove gradi della decananza chinese. Questi gradi sono contradistinti con un ricamo quadrato che si porta sul dorso e sul petto, o con un bottone che si porta sul beretto officiale, e ch’è una gemma o un corallo o un cristallo d’uno o d’altro colore.

 




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