Noi non
facciamo qui l’istoria della China; un intervallo di quindici secoli ci porta
al secolo sesto avanti l’êra nostra,
al tempo in cui l’Asia Minore produsse Talete, e in Italia fiorirono li Eleati.
Due scole allora surgono nella China, suddivisa in piú Stati e comparativamente libera; la scola metafisica di
Lao-tseu, e la scola politica e sociale di Khong-tseu, detto con forma latina
Confucio.
La dottrina prima è chiamata anche di Tao; voce che in senso proprio
significa via, e in senso figurato: «la grande voie de l’univers, dans
laquelle marchent et circulent tous les êtres.
— C’est le premier principe du mouvement universel, la cause, la raison
première de tout: du monde idéal et du monde réel, de l’incorporel
et du corporel, de la virtualité et du phénomène. Nous
ne pouvons nous empêcher de signaler
ici un trait caractéristique de la philosophie chinoise à toutes les époques de
son histoire; c’est qu’elle n’a aucun terme propre pour désigner la première
cause, et que Dieu n’a pas de nom dans celle philosophie. En Chine,
où aucune doctrine ne s’est jamais posé comme révélée, l’idée aussi bien
que le nom d’un Dieu personnel, sont restés hors du domaine de la
speculation.» (Pauthier, Philosophie des Chinois; nel Dictionnaire
des Sciences Philosophiques. Paris, 1844).
Lao-tseu non ebbe molti seguaci;
il padre dei dotti chinesi fu per venticinque secoli, ed è ancora oggidí, Confucio. Nato l’anno 55 avanti l’êra nostra, cioè al tempo degli ultimi re
di Roma, egli visitò i varii Stati, in cui s’era divisa la China; predicò ai
regnanti e ai loro ministri la giustizia, l’umanità e lo studio;
lasciò dieci allievi perfetti, settantadue discepoli e tremila seguaci,
molti dei quali magistrati e principi; onde in breve la sua parola ebbe
autorità presso tutta la nazione. Quanto mai di bene si operò per tutti questi
secoli nella China, venne sempre attribuito dai popoli agli insegnamenti di
Confucio; il quale, piuttosto che ammirazione d’uomo dotto, n’ebbe culto d’uomo
santo. Molti templi sono dedicati al suo nome.
Un paio di secoli, o poco piú, dopo la morte di Confucio (A. C. 255), i
principi del regno di Thsin per forza d’armi soggiogarono sei degli
altri regni confederati; diedero a tutto l’imperio il nome che poi prevalse,
prima in India (Tcina), poi presso i Romani (Sinae), li
Arabi (Tsin), e tutti i popoli moderni. Chiusero la frontiera
settentrionale con un bastione a doppio muro; munito di torri, e lungo mille e
duecento miglia. E impazienti d’un’autorità morale, che era una memoria di
tempi piú liberi, e un limite al
despotismo e un rimprovero, fecero ardere tutti li esemplari dei libri di
Confucio e degli altri filosofi.
Tutto come in Occidente!
Ma sul principio del secolo
successivo (A. C. 202), venuta per favore dei popoli all’imperio la famiglia
degli Han, fece diligentemente raccogliere le reliquie dei manoscritti
antichi; e ordinò che si leggessero in tutte le scole. Dotò di vasti poderi e
di privilegi la famiglia di Confucio; la quale divenne nel corso delle
generazioni una numerosa tribú,
sicché contava nel secolo scorso undicimila persone. Decretò sacri onori a
Confucio, come a uomo saggio e santo, e patrono perpetuo dei popoli contro la
tirannide, e dei principi contro le proprie passioni e li adulatori. Oggidí non v’è città nel vastissimo regno, che
non abbia dedicato un santuario al nome e all’imagine paterna di Confucio. E i
popoli onorarono quella generosa dinastia, assumendo il suo nome, e ancora
oggidí, dopo venti secoli,
chiamandosi uomini degli Han (Han jin).
Confucio non professò di dare una scienza
nuova, ma ristaurò e continuò la tradizione primitiva e popolare: — «Il savio
disse: io commento; io dilucido; ma non compongo opere nuove; io ho fede negli
antichi e li amo. — Il savio disse: io non nacqui col dono della scienza; io
son uno che amo li antichi, e si sforza di far tesoro del loro sapere.» (Colloquj,
VII, 1, 19).
Perciò egli raccolse e ordinò i
quattro vetustissimi libri delle Forme, degli Annali, dei Versi
(Shi King), e dei Riti (Li-ki). Il primo
era antico a’ suoi tempi quanto Socrate ai dí
nostri; antico già di venticinque secoli.
Nulla egli scrisse; ma i
discepoli fecero raccolta de’ suoi insegnamenti e ne composero i quattro
libri classici (Sse Shu), che sono tuttora il testo di tutte
le scole chinesi.
Il primo si chiama il Grande
Studio (Ta hio); ma consiste in due sole pagine, seguite
da breve commento di Thseng Tseu, allievo di Confucio. — Il secondo si chiama
l’Invariabil mezzo (Tciung Yung), e fu scritto dal suo
nipote Tseu Sse. — Il terzo è il libro dei Colloquj di Confucio (Lun
Yu). — Il quarto è il piú
lungo; e fu scritto dal suo seguace Meng Tseu, nome la cui forma latina è Mencio
(Mencius).
«La mia dottrina è semplice e
facile», dice Confucio nei Colloquj. E il suo discepolo Thseng Tseu
soggiunge: — «La dottrina del maestro consiste tutta nell’avere l’animo retto e amare il suo prossimo come sé stesso».
(Lun Yu, IV, 15). E un altro suo allievo, Tseu Khung, riduce la dottrina
dell’umanità a questa formula: «giudicar li altri, paragonandoli a noi; e
operare verso di loro come vorremmo ch’ essi operassero verso di noi» (Lun
Yu, VI, 28).
Questi insegnamenti furono
communi a Confucio con altri antichi. Quello che appartiene a lui si è: «che
ogni uomo ricco o povero, illustre od oscuro ha egual dovere di emendare
e perfezionare sé stesso, per farsi capace di promuovere il perfezionamento
altrui.»
Questa dottrina sublime forma un
capitolo dell’Invariabil Mezzo; del quale offriamo uno squarcio
onde porgere un esempio del modo concatenato e deduttivo col quale
le scole chinesi si sforzano di recare a forma scientifica e ad esercizio
dimostrativo le loro idee: — «Nel mondo, i soli uomini veramente perfetti possono
conoscere intimamente la propria natura, la legge del proprio essere e i doveri
che ne derivano. Potendo conoscere intimamente la propria natura, la legge
del proprio essere e i doveri che ne derivano, possono perciò conoscere
intimamente la natura degli altri uomini, la legge del loro essere, e additar
loro tutti i doveri che hanno a osservare per compiere l’ordine del Cielo. Potendo
conoscere intimamente la natura degli altri uomini, la legge del loro essere, e
additar loro tutti i doveri che hanno a osservare per compiere l’ordine del
Cielo, possono perciò conoscere intimamente la natura degli altri esseri
viventi e vegetanti, e fare che compiano la legge vitale secondo la natura
loro. Potendo conoscere intimamente la natura degli esseri viventi e
vegetanti, e fare che compiano la legge vitale secondo la natura loro, possono
perciò col proprio alto intendimento secondare il Cielo e la Terra nella
trasformazione e conservazione degli esseri, affinché questi conseguano il
pieno loro svolgimento. Potendo secondare il Cielo e la Terra nella
trasformazione e conservazione degli esseri, possono perciò costituire un terzo Potere insieme col Cielo e colla Terra»
(Cap. XXII).
Questo ultimo annello della
catena è veramente aureo e prezioso. È la piú
alta cosa che sia detta intorno alla natura umana, considerata nella sua
perfettibilità; considerata come una potenza che conserva e trasforma li altri
esseri viventi su la terra.
Un tal modo di connettere i
pensieri, che si potrebbe figurare colla statua d’un Giano bifronte, si vede
adoperato altrove con doppio procedimento d’andata e ritorno, o d’ascesa e
discesa. Ad esempio recheremo una delle due pagine del Grande Studio.
«I principi antichi, che amavano fomentare e ravvivare nei regni loro il
lume di ragione che riceviamo dal Cielo, attendevano prima a governar bene i
regni loro. Quelli che amavano governar bene i regni loro, attendevano
prima a ordinar bene le loro famiglie. Quelli che amavano ordinar bene
le loro famiglie, attendevano prima ad emendare sé stessi. Quelli che
amavano emendare sé stessi, attendevano prima a rettificare il loro animo. Quelli
che amavano rettificare il loro animo, attendevano prima a render pure e
sincere le loro intenzioni. Quelli che amavano render pure e sincere le
loro intenzioni, attendevano prima a perfezionare le loro nozioni morali. Perfezionare
le nozioni morali consiste nel penetrare e scandagliare il principio delle
azioni.»
E qui comincia il ritorno:
«I principii delle azioni essendo
penetrati e scandagliati, le nozioni morali vengono recate a somma
perfezione. Le nozioni morali essendo recate a somma perfezione, le
intenzioni si rendono pure e sincere. Le intenzioni essendo pure e sincere,
l’animo si riempie di rettitudine. L ‘animo essendo pieno di
rettitudine, la persona viene ad emendarsi e perfezionarsi. La persona
essendo emendata e perfezionata, la famiglia viene ad essere ben regolata. La
famiglia essendo ben regolata, il regno è ben governato. Il regno
essendo ben governato, il mondo è in pace e in armonia!»
Con questo duplice sorite, Confucio
ha immedesimato la politica e la morale.
Piú sovente il pensiero chinese procede da un particolare ad un
altro particolare, per via d’esempio, o d’analogia, o anche di mera
similitudine poetica, che poi volentieri attinge da taluna delle odi antiche. —
«Il Libro dei Versi dice: l’augello dorato, dal canto flebile, fa il
nido nelle ombrose rupi. Il savio dice: l’augello conosce il luogo del suo
destino; e non potrà l’uomo saper quanto l’augello?» (Commento al Grande
Studio, 111,2).
Talora codeste sentenze sono
espresse in modo affatto triviale: — «Se fossimo tre viandanti, io potrei aver
due maestri: l’uomo dabbene, per imitarlo; e il malvagio, per emendarmi.»
Ma talora sono dettate dal piú generoso ardimento, come quando Meng
Tseu dice al re di Liang: — «Il popolo muore di fame per le vie; e tu non apri
i publici granai. Quando vedi li uomini morir di fame, tu dici: non è colpa
mia; è la sterilità della terra. Non sei tu come colui che avendo trafitto uno
colla spada, dicesse: non son io; è la mia spada ?... Uccidere l’uomo colla
spada o col mal governo, che divario tu vi trovi ?... Le tue cucine ridondano
di vivande, e le tue stalle son piene di cavalli ben pasciuti; ma il popolo ha
su lo scarno volto il pallor della fame, e i campi sono sparsi di cadaveri...
Dover tuo sarebbe reggere lo Stato, come se tu fossi il padre e la madre del
tuo popolo» (Meng Tseu, I, 3 4).
Cosí parlavano e scrivevano, cinque secoli prima dell’era nostra,
questi sacerdoti della ragione e dell’umanità. Era dunque naturale che i
despoti ardessero i loro libri; ed è giusto che i popoli consacrino ancora al nome
loro statue e santuari.
Noi crediamo che il piú sicuro modo di conoscere a fondo e
apprezzare una gran nazione, sia quello di addentrarsi cosí nei secreti del suo pensiero. Perciò ne
sia concesso citare un altro passo dell’Invariabil Mezzo, che ben
potrebbe nei nostri libri di filosofia valere ad esempio del potere
dell’analisi. «Se leviamo li occhi al cielo, vediamo a prima giunta solamente
uno spazio scintillante di lumi; ma se potessimo sollevarci fino a quello
spazio luminoso, lo troveremmo immenso. Il sole, la luna, le stelle, i pianeti
vi pendono come da un filo; tutti li esseri del mondo ne sono coperti come
d’una tenda. Che se di là volgeremo li occhi alla terra, crederem sulle prime
di poterla stringere nella mano; ma se la percorreremo, troverem ch’è vasta e
profonda, perché sostiene li eccelsi Monti Fioriti (nel Shen-si) e
non cede al peso; abbraccia nel suo grembo i fiumi e i mari, e non ne viene
sommersa; e contiene tutti i viventi. E quei monti sembrano un frammento di
rupe; ma quando esploriamo l’ampiezza loro, li troviamo alti e vasti; e vi
allignano erbe e arbori; e augelli e quadrupedi vi fanno dimora; e vi si
rinchiudono inesplorati tesori. E l’acqua, che da lungi miriamo, sembra poter
colmare appena una lieve tazza; ma se scendiamo alla sua riva, non possiamo
scandagliare la sua profondità; e nel suo seno vivono grosse testudini e
crocodili e idre e pesci d’ogni forma; e vi nascono preziose gioie.» (Tciung
Yung, XXVI, 9).
Ma per somma sventura della sua
nazione, e, non esitiamo a dire, del genere umano, il venerabile Confucio, o
per dare autorità alle sue dottrine, o per avvalorare l’autorità delle leggi,
le immedesimò colle antiche costumanze, che poi non distinse dai sacri riti. —
“Si può con una vera e sincera osservanza dei riti reggere un regno. “ (Colloq.,
IV, 13).
E questa inviolabilità coperse in
perpetuo tutte le vanità della vita profana, li augurii, i saluti, li inchini,
i titoli, le parole, i gesti, le vestimenta, i pennacchi, i bottoni! È
prescritto nei libri rituali in quali modi, non altrimenti, e per quanti
giorni, e non meno, ne piú, debba il
magistrato di tale o tal grado ritirarsi a piangere la morte de’ suoi genitori;
e dimorare nei luoghi ove sono i loro sepolcri; e in quali modi debba farne
annua commemorazione nel sacrario domestico dedicato agli antenati.
Nulla dunque resta al libero e
sincero affetto. I riti e le cerimonie essendo uniformi per tutte le persone
del medesimo grado, mentre i sentimenti dell’animo variano secondo l’indole dei
vivi e il merito dei morti, ciascuno è costretto dalla legge a dissimulare ciò
che sente, a simulare ciò che non sente. I figli delle varie donne, che un
concubinato legale ammette nella famiglia chinese, devono, giusta i riti,
considerarsi tutti come figli della moglie grande, della matrona, come
avrebbero detto i nostri Romani antichi; e perciò anche quelli che non sono i
figli di lei, devono piangere piú
lungamente la sua morte che non quella della vera loro madre.
Adunque tutti li atti publici e
privati cadono sotto la giurisdizione del tribunale dei Riti (Li-pu);
e quindi sotto quella del tribunale delle Pene (Hing-pu). Le
gravi trasgressioni dei riti sono anche nei piú grandi personaggi punite col bastone, o coi tormenti, colla perdita
dei pennacchi e bottoni d’onore, degli officii, dei beni, coll’esilio nei
deserti, colla morte. Ognuno vive in continuo pericolo di cadere in fallo, in
pena, in miseria; nessuna famiglia è sicura della sua fortuna. La trasgressione
d’un inchino o di altra mera cerimonia, essendo pareggiata dalla legge a quella
dei supremi doveri morali, ne viene gran confusione nella mente e nella
coscienza dei popoli. Domina in tutta la nazione, come nelle nostre corti, una
continua dissimulazione, coperta da una gentilezza affettata e compassata; al
paragone della quale, i modi aperti e spontanei dei naviganti e trafficanti
europei devono con molta ragione apparire al popolo chinese inculti e barbari.
Ma, per converso, questa
cortigianesca e servile disciplina pesa piú
sulle famiglie potenti che non su le umili e povere; e opprime con maggior
ingombro di riguardi e di doveri la famiglia imperiale, ch’è soggetta ad un Consiglio
di vigilanza (Tsong-jin-fu). L’imperatore medesimo soggiace
alle impuni rimostranze dei censori (Tu-cia-yuan). Inoltre
egli non può prendere alcuna risoluzione se non col consenso del Consiglio
intimo (Ne-i-ko ); né può emanare alcun comando se non per mezzo del
Consiglio dei magnati (Kiun-hi-ta-cin). Le ordinanze di
questi si diramano a’ sei tribunali: dei Riti, delle Pene, delle Leggi civili,
della Guerra, delle Finanze, delle Opere publiche, e all’officio delle
Provincie barbare e degli Affari esteri. E tutti questi magistrati non si
prestano a far cosa che contravenga ai riti, essendo poi essi soggetti ad altri
censori (Lu-ko). In questo labirinto ministeriale vanno ad
affondarsi oscuramente le forze d’una nazione ingegnosa, studiosa, industre e
ricca, che ha tanto numero quanto due volte l’Europa, e che trovò tutto da sé;
e nulla imparò da popolo del mondo.
Tutto come in Occidente.
Infine, nessuno può divenir
magistrato, o come noi sogliam dire, mandarino, se non conseguí nelle scole il grado di dottore (tsin-sse)
o di licenziato (kin-jin). Alle scole presiede l’istituto
degli Han-lin; i cui membri sono uomini distinti nelle lettere e nelle
scienze, ovvero discendenti di Confucio e di Mencio; e sono rivestiti del
secondo fra i nove gradi della decananza chinese. Questi gradi sono
contradistinti con un ricamo quadrato che si porta sul dorso e sul petto, o con
un bottone che si porta sul beretto officiale, e ch’è una gemma o un corallo o
un cristallo d’uno o d’altro colore.
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