La letteratura
chinese è d’una ricchezza, che parrà incredibile a chi non pensi ch’è l’opera
continua d’una numerosa nazione, la cui civiltà, nel corso di cinquanta secoli,
non ebbe alcuna di quelle lunghe e profonde interruzioni che afflissero
l’Italia e la Grecia, e spensero interamente i Fenicii e li Egizii. Il dotto sinista
Pauthier dice, che la gran collezione d’opere scelte, fatta
cominciare nel secolo scorso (1773) dall’imperatore Kien Lung, contava già nel
1818 quasi ottantamila volumi! E se ne aspettavano altri centomila (Encycl.
Nouv., Vol. 111, p. 537).
Oltre alle opere grammaticali,
morali, istoriche, la letteratura chinese ha drami, romanzi, novelle, vite e
viaggi. Molte opere hanno forma d’enciclopedie e dizionarii, con grandissimo
numero di volumi. Molte opere riguardano i Giaponesi, i Tibetani, i Turchi
aborigeni e altri popoli; alcune sono tradutte dal sanscrito e da altre lingue;
Kien Lung fece stampare nel suo palazzo una cronologia, desunta dai documenti.
La geografia officiale (Tai Thsing, ec.), una copia della quale adorna
la gran biblioteca di Parigi, ha più di trecento volumi.
I conoscitori delle lettere chinesi
le accusano di servile imitazione e uniformità, forse perché i piú liberi pensatori, essendo esclusi dal
circolo degli studii officiali rimasero facilmente ignorati. Ma noi non
possiamo dubitare che siano in gran numero; dacché leggiamo le amare lagnanze
che, già prima dell’êra nostra, ne
moveva Meng-tseu. — «Li scienziati d’ogni provincia professano massime discordi
e stravaganti. Le dottrine dei settarii Yang e Mè riempiono l’imperio!... La
sêtta di Yang riferisce ogni cosa a sé; e non riconosce i regnanti. La
setta di Mè, ama confusamente tutti e non riconosce le parentele... Io,
paventando i progressi che fanno queste dannose dottrine, difendo la scienza
degli uomini santi del tempo antico. Io combatto Yang e Mè; ripudio le
loro massime pervertitrici» (VI, 9).
Tutto come in Occidente !
L’imperio chinese deve essere
stato istituito a principio da una setta di filosofi, come altri imperii furono
istituiti da sètte di teologi, o da squadre di conquistatori. La China, fin da’
suoi primi secoli, è una grande scola, alla quale partecipa tutta la nazione.
Per effetto di ciò, ai Chinesi,
come per effetto d’altre cagioni a tutte le genti asiatiche anche piú civili, manca il genio della libertà.
Ed è perciò che i liberi Greci, non ostante la magnificenza del vivere e lo
splendore delle arti, chiamavano barbara l’Asia. Prevalse sempre in tutto
l’Oriente la smania di prescrivere e definire ogni atto della vita e
ogni pensiero della mente, mentre l’Europa, e nella barbarie e nella cultura,
aspirò sempre all’uso libero e indefinito della ragione e della volontà.
Ma li scrittori, anziché spiegar questo fatto, lo ignorarono, lo negarono;
dissero che l’Asia era il campo dell’indefinito!
La China ebbe molte guerre
civili, e fughe e uccisioni di regnanti; ma le ribellioni furono solamente
castigo ai principi malvagi, non furono occasione ai popoli di far valere i
loro diritti. In compenso, dominò sempre nella China l’idea dell’eguaglianza
degli uomini, ignota alle caste dell’India, negata sempre, anche al
cospetto dell’evangelio, in Europa. La China non ebbe mai caste; li alti
officii, appunto come in una grande scola, si riputarono dovuti al merito, e
sopratutto alla dottrina; non alla violenza, né alla ricchezza,
né all’eredità, e nemmeno al voto sovente cieco della moltitudine.
In China, nemmeno ne’ piú remoti secoli, vediamo vestigia
d’antropofagia, né di sacrificii umani, né di auti-da-fe. Nella China
primitiva non vediamo l’idolatria, che regna in India, in Egitto, in
Fenicia, in Babilonia, in Grecia, in Italia. Vediamo toleranza dei culti
stranieri (buddisti, ebraici, musulmani), se non in quanto coprissero ambizioni
straniere. Nel gesuita, i Chinesi espulsero il facendiero, non il sacerdote. La
China non separò mai la fede dalla ragione. Essa incivilí le nazioni finitime; fu loro benefica, non malefica. Se una
famiglia di regnanti perseguitò la filosofia; un’altra la ripose in seggio; le
decretò divini onori. Mentre la civiltà europea s’inizia coi misterii di
Samotracia e d’Eleusi, col secreto di Pitagora, coll’antro della Ninfa Egeria,
colle fosche selve dei Druidi, la scienza chinese non ebbe mai arcani: «Voi
discepoli miei tutti quanti, diceva Confucio, credete forse ch’io abbia per voi
dottrine occulte? lo non ho dottrine occulte per voi.» (Colloq., VI,
23).
Mentre noi siamo giunti al libero
insegnamento popolare a forza di sanguinose rivoluzioni, e sulla ruina della
feudalità prelatizia e baronale, l’arte di scrivere, ignota ai tempi d’Omero, e
tornata nel medio evo ad essere un privilegio e quasi un secreto, fu sempre
commune nella China a tutto il popolo, benché fosse nata colà sotto
forme immensamente piú difficili.
Leggiamo nella prefazione di Tciu-hi al Grande Studio: — «Dopo la fine
delle tre prime dinastie, le istituzioni ch’esse avevano fondate, si
propagarono gradatamente. E cosi avvenne che nei palazzi dei re, come nelle
città grandi, ed anche nelle minori ville, non vi era luogo ove non
s’attendesse agli studii. Quando li adolescenti avevano tocco li otto anni di
età, fossero figli di re o di principi o di plebei, andavano
tutti allo Studio minore (Sao hio)... Si insegnavano loro
anche li usi del mondo, i riti, la musica, l’arte dell’arciero e
dell’auriga, lo scrivere, il computare. Quando avevano tocco i quindici
anni, allora tutti, dall’erede dell’imperio e dagli altri figli
dell’imperatore sino ai figli dei principi, dei ministri, dei governatori,
dei letterati, e a quanti figli del popolo primeggiavano per ingegno, andavano
allo Studio maggiore (Ta hio), ove s’insegnava loro il
modo di penetrare i principii delle cose, rettificare i moti dell’animo,
emendarsi, perfezionarsi e regolare li altri uomini.»
Queste istituzioni fiorirono
presso i Chinesi fin dai tempi d’Omero! Se essi le conservano ancora
oggidí, non v’è ragione per
chiamarli immobili; poiché d’allora in poi trovarono molte altre cose, che noi
imparammo da loro.
Ma il sistema chinese, come tutti
i sistemi d’idee che non si trovano in contatto intimo con altri sistemi, poté
bene svilupparsi e propagarsi; non poté emanciparsi dal suo principio. I
sistemi sono come le piante, la cui vegetazione è sempre quale primamente uscí dal germe; né muta aspetto se non per
innesto d’altra pianta. La permanenza del suo principio non tolse però al
sistema chinese un proporzionato sviluppo dello spirito inventivo; onde
generò da sé solo continuamente e perennemente arti e studii. Non gli tolse lo
spirito espansivo; onde abbracciò nella China e nelle regioni vicine uno
spazio di quattro milioni di miglia e cinquecento milioni d’uomini. Nessun
altro sistema teologico o militare giunse mai a tanto.
Noi vediamo antiche presso i
Chinesi molte idee d’economia publica, di sanità, e di beneficenza. Il lavoro è
onorato e promosso, non vituperato, come nei servi della gleba dei feudi
europei, o nei Negri delle nostre colonie. Il lavoro con opportune istituzioni,
antiche nella China, nate ieri in Europa, viene accomodato ai ciechi, ai
vecchi derelitti. Mencio oltrepassa i nostri economisti, che vedono in
un uomo solamente un paio di braccia; egli vede nello studio una forza
produttiva equivalente alla fatica. Egli dice: “Li uni lavorano colla
mente, li altri colle braccia.” (V. 4). Nell’Esprit des Lois, il vecchio
Montesquieu fa dire ad uno degli imperatori Thang: “I nostri padri pensavano
che per ogni uomo che non zappa, e per ogni donna che non fila, qualcuno
nell’imperio deve patire la fame e il freddo; e perciò fece chiudere molti
conventi di Bonzi” (Esprit des Lois, VII, 6). Codesti bonzi sono i frati
del Buddismo.
Chi reputa immobile la China, se
consulterà le istorie, la vedrà in agitazione continua. La vedrà dissodare
primieramente un vasto territorio, arginare fiumi, scavar canali, diffondere
lungo le mille valli dei due fiumi colonie d’agricultori, città innumerevoli;
assorbire le tribú barbare dei
monti; abbracciar tutti i suoi popoli in una sola civiltà col vincolo d’una
sola lingua; inventar leggi, arti e scrittura; e tuttociò, quando l’Europa
stava pertinacemente selvaggia e impotente. Poi scomporsi in piú regni federati; e in quella comparativa
libertà, svolgere popolari e varie filosofie; poi rannodarsi, ora in un
imperio, ora in due, il Catai e il Mangí
di Marco Polo: soffrir come l’Italia due volte la conquista dei barbari; la
prima volta cacciarli; la prima e la seconda ammansarli e aggregarli alla sua civiltà.
Intanto un assiduo lavoro mentale propagava da una parte la filosofia socratica
di Confucio, la filosofia astratta di Lao Tseu, la metafisica in veste
teologica dei Buddisti; infine in pochi anni, sotto i nostri occhi, trasse
dalla lettura della Bibbia il fomite d’una nuova rivoluzione.
Herder negò ai Chinesi il genio inventivo e
progressivo: — «Questa progenie mogolica, anche durando migliaia d’anni, non
poteva, per qualsiasi istituzione artificiale, smentir mai la sua natura. -
Essa ha dato quanto l’organizzazione poteva dare; e altro non si può da essa
pretendere.»
Noi pensiamo: se quando
Carlomagno sottomise la barbara Sassonia alla civiltà latina, alcun Romano o
Bizantino avesse sentenziato che quella stirpe semigotica non poteva, per
qualsiasi istituzione artificiale, smentir mai la sua natura; e ch’essa
aveva dato quanto poteva dare: un tale oracolo si troverebbe smentito anche
solo dal fatto dell’apparizione in Germania dello stesso Herder.
È piú da filosofo il
credere che i riti e le cerimonie e le altre istituzioni artificiali repressero
nei Chinesi la forza geniale e spontanea. In istoria naturale e in etnografia,
i Chinesi, per il loro aspetto, poterono venir classificati coi Mogoli, come li
Ostrogoti cogli Ateniesi; ma per questo non si può indurre una necessaria,
indelebile, eterna conformità tra le idee dei Chinesi e dei Tartari, degli
Ateniesi e degli Ostrogoti. Prova ne sia la lingua, forse per effetto del
precoce uso della scrittura, rimasta monosillaba presso i Chinesi, quando ebbe largo
e libero tempo di svolgersi e divenir polisillaba presso i Mogoli. E cosí pure
la vita nomade dei Mogoli, e l’indole sedentaria dei Chinesi, e il nessun amore
di questi per la pastorizia, e la possibilità che presso di questi
l’agricultura sia precorsa alla pastorizia, come presso i Messicani, o le sia
stata meramente accessoria, come presso i Peruviani.
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