DELL’INDIA
ANTICA E MODERNA
In onta alle rapide evoluzioni del nostro
incivilimento che fanno ogni nuova generazione tanto diversa da' suoi padri,
sopravive ai nostri giorni nella penisola indiana un gran popolo, o piuttosto
una gran famiglia di popoli, numerosa di cento e più millioni, su la quale
sembra che la mano innovatrice del tempo non abbia forza. Le sue leggi, le
scienze, le opinioni; i costumi, li idoli, i sacrificii si conservano al tutto
quali erano milliaia d'anni addietro, quantunque sia da più secoli penetrata
per ogni parte da genti straniere, e annodata seco loro a ineluttabile
convivenza.
Vico, dopo
ch'ebbe scoperto nelle istorie della Grecia e di Roma un procedimento commune,
lo riputò principio naturale di tutto il genere umano; e lo circoscrisse a un
ricorso perpetuo d'emancipazioni che dalla omerica violenza conducono le genti
all'equità civile, onde poi per la curva d'un'inevitabile corruttela, e quindi
d'una recidiva barbarie, s'inaugura una nuova carriera d'emancipazioni. Ma
questa sua formula non porge il filo dell'incivilimento indiano, nel quale, in
luogo delle successive trasformazioni, regna il principio d'una ferrea
perpetuità, come se la natura umana fosse colà costrutta d'altri elementi.
Perloché in quella fede d'un continuo progresso della quale sembra compreso il
nostro secolo, tanto più giusto è il desiderio d'intendere il secreto d'una
società che pare esclusa da quelli che noi riputiamo necessarii destini del
genere umano. E forse non è senza pratico frutto l'indagare a quali istituzioni
per avventura si debba codesta immobilità; perocché in vero mal si potrebbe
attribuirla interamente a natura singolare della nazione inda, la quale, a
preferenza di molte altre, si collega per lingue, e quindi per antica parentela
all'Europa, e nella congerie delle sue dottrine tante ne ha communi con quelle
dei nostri antichi e di noi. Fra le due società, la nostra e l'indiana, che
tremila anni sono aprivano il corso della loro vita sotto l'imperio di credenze
in gran parte medesime, espresse coi medesimi riti e con parole d'una medesima
radice, ora l'una si vede illuminata, audace, scorrere colla potenza del vapore
tutti i mari, e seminar di novelle popolazioni quanto rimane di abitabili
terre; l'altra dopo una prematura gioventù abbellita dalle arti e dalla poesia,
declinar subitamente a vecchiezza ingloriosa, inerme, infeconda non curante
delli altri né di sé, cieca d'ogni lume di scienza esperimentale, ammaliata da
insanabili superstizioni. Laonde, o non v'ha generale dottrina delle umane
cose, o essa, prima di dirsi tale, deve adoperarsi a schiarire in qualche modo
le riposte cagioni, per cui mentre li occidentali salivano alla scienza viva e
a sempre crescente potenza, l'Oriente avviavasi senza riparo sul calamitoso
pendio dell'inerzia e del decadimento. La suprema delle umane scienze certo
sarebbe quella che aspirasse a dimostrare coi fatti di tutte le istorie esservi
come un'arte del bene, così anche un'arte del male; e il progresso dell'umanità
non essere così spontaneo e vittorioso, come parve a coloro che, per
architettare un'ordinato sviluppo di cause e d'effetti, tolsero all'uomo la
responsabilità e la vigilanza delle sue sorti.
La penisola
indostanica rammenta sotto certi aspetti naturali, sebbene con superficie dieci
volte maggiore, l'Italia. Anch'essa ha le sue Alpi, ma eccelse il doppio e
stese da levante a ponente con arco quattro volte più vasto: anch'essa protende
fra due mari una catena d'Apennini; l'indole fluviale del Gange simiglia a
quella del Po; il Bramaputra raffigura l'Adige; la Nerbudda, l'Arno; l'Indo
gira intorno alli Imalai come il Rodano alle Alpi; l'altipiano dei Seichi e di
Casmira potrebbe compararsi a quello dell'Elvezia come quello dei Rageputi al
Piemonte, le campagne d'Agra e di Benares alla Lombardia, la laguna veneta al
Bengala, i monti dei Maratti alla Liguria e all'Etruria, le lande del
Coromandel al tavoliere dell'Apulia, il Malabar alle riviere della Calabria, e
l'isola di Ceilan, se non giacesse verso levante, alla Sicilia. In pari modo
fra i paesi circostanti all'India, l'Afgania potrebbe assimigliarsi per la sua
posizione alla Francia, la Persia alla Spagna, il corso navigabile dell'Oxo, al
di là delli Imalai verso la Bocaria e la Chivia al corso del Reno. - Il clima
dell'India è meridionale, la parte protesa fra i due mari è tutta nella zona
torrida, la valle del Gange ha la latitudine dell'Egitto, e la somma valle
dell'Indo termina in circa al grado dove avrebbe principio l'Italia. La natura
provide però che l'India non fosse estuosa come il suo cielo; poiché, oltre
alle nevi accumulate su li Imalai, i venti settentrionali regnano tutto il
verno, e viceversa l'estate soggiace a venti marini così pertinacemente
piovosi, che anche nelle pianure senza fiumi, ma in quei mesi largamente
inondate, l'agricultore alleva una facile messe di riso. Così un'estate torbida
e aquosa è necessaria sul Gange a quella coltivazione, alla quale sul Po si
richiede il più limpido e vivo sole.1
Nelle vaste
terre e tra i molti popoli dell'India sono antiche le vestigia di varie
religioni, intese ad onorare le potenze della natura. Tali erano le dottrine
dei Cabiri, che annunciavano misticamente un'unica divinità creatrice; e tale
era il culto delli astri, che Colebrooke riputò predominante in
antico fra il Gange e l'Indo, e al quale forse appartenevano quelle famiglie
che regnarono nell'India sotto il nome di figli del sole. In Ceilan vive
ancora la tradizione che su le rive del Gange la prisca gente abitasse nelle
caverne della terra, e si sfamasse d'erbe selvagge; e che un dì allo spuntar
del giorno, si vide uscir a poco a poco dal luminoso disco un uomo bello e
maestoso. - Io sono figlio del sole, egli disse ai popoli che meravigliando
l'adoravano, e vengo a governare il mondo. - E regnò sopra di loro, e
ammaestrolli a edificare le case e seminare i campi. Ma, come osserva
l'illustre Romagnosi, queste dottrine delle potenze naturali, dopo
aver vestito li astri coll'imponente maestà d'esseri intelligenti e dominatori,
dovevano bentosto proscrivere come nociva ogni cognizione che potesse
spogliarli delle qualità e delli onori loro attribuiti; perloché, occultati i
principii e le ulteriori scoperte, le dottrine arcane dei sacerdoti si divisero
sempre più dalle popolari. - Per tal modo le dottrine che avevano dato il primo
impulso alla cultura, divennero ben presto ostacoli ad ogni progredimento.
Come nei primi
tempi si diffuse sui lidi d'Italia la civiltà etrusca, così su le rive
occidentali dell'India approdarono in cerca di perle e d'altre dovizie i
Fenici, o Arabi maritimi: e pare vi fondassero una colonia sotto il nome di
Pandea, la quale venne figurata poi come le altre imprese dei Fenici nella
chiara legenda d'Ercole, che fa regina di quel paese la sua figlia Pandea, e
raccoglie in quei mari le perle per adornarla.2 E parimente, come lungo
il Po diamo discesa in Italia l'indelebile pronuncia dei Celti, così lungo
l'Indo e il Gange corsero fin da remoti tempi le favelle diffuse nella Persia e
nella Media. Quivi aveva sede in Nisa, non lungi dal Caspio, quel sacerdozio
che sotto il nome del Dio di Nisa propagò per opposta parte i suoi riti fino in
Grecia e in Italia, ove fu combattuto dal patriziato romano, ministro
di più civile e austera religione. Ma nelle Indie il suo dominio si stese
largamente; e i suoi pontefici armati, da Spartemba in poi, regnarono per molte
generazioni;3 anzi i riti di Bacco si vogliono superstiti anche oggidì
nell'India sotto il nome del Dio Siva.
Circa sei
secoli prima dell'era nostra si compié col braccio di Ciro una rivoluzione
religiosa simile a quella che Maometto sollevò mille anni più tardi. Il regno
sacerdotale dei Medi fu abbattuto dai loro sudditi Persi, che vollero, contro
quella idolatria ristaurare il culto d'un solo Dio. Essi non lo rappresentavano
sotto forma materiale, ma lo adoravano a cielo aperto su le vette dei monti,
invocando nel suo nome i puri spiriti da lui preposti al governo della visibile
natura. Ciro, nemico d'ogni maniera d'idoli, ebbe naturalmente ad amare e
proteggere li Israeliti, condutti in esilio da popoli idolatri; epperò
ritornolli alla patria, e li rianimò alla riedificazione del tempio. Cambise,
suo figlio, continuò a perseguitare ogni maniera d'imagini fino in
Egitto;4 ma infine rimase vittima delli irritati magi della Media.
Riarsero allora con più furore i puritani della Persia, e fecero esterminio dei
magi; e ai tempi d'Erodoto celebravano solennemente quella memoria di sangue,
che rimane segnata ancora oggidì nel calendario dei Parsi. E per avventura fu
questo zelo di religione che trasse poi Dario e Serse a provocare le fatali
armi della Grecia idolatra.
Codesti
bellicosi sacerdozii, che si contesero in tutti i tempi il dominio dell'Asia,
rigurgitarono o nei giorni della vittoria, o in quelli della sconfitta, entro
il seno ospitale dell'India. Che quivi si ricoverassero i magi fugitivi della
Media, e vi fondassero in uno od altro tempo la setta braminica, era opinione
del viaggiatore Clearco, registrata da Diogene Laerzio.5 Il
P. Paolino per altri argomenti s'indusse a credere che la Media Atropatene
fosse la madre patria dei bramini e dei buddisti;6 il che fosse cagione
che li dèi dell'India vengano tuttora effigiati con le vesti purpuree e le
armille e le collane delli antichi Medi;7 tradizione rituale che si
osserva rigidamente; poiché a pittori e scultori è vietato vendere imagini che
non siano approvate dai sacerdoti ed asperse d'aqua lustrale.8 La
lingua sanscrita si collega per conformazione e per radici a quelle della
Persia, anzi di tutta l'Europa, e l'influenza sua si manifesta maggiore nelle
favelle di quelle parti della penisola indiana che sono più prossime alla
Persia, mentre si dileguando verso mezzodì. Parimente la scrittura di
quell'antica lingua procede per vocali e consonanti come la greca e la latina;
non per sole consonanti, come le lingue arabiche; né per sillabe, come le
chinesi; né molto meno per ieroglifici, come l'egizia; e mostra in ciò i
segnali di men remota origine. Anzi, pare che i bramini ne facessero un'arte
secreta e gelosa, poiché non posero iscrizioni sui publici monumenti; e ancora
ai tempi di Megastene non avevano dato al popolo leggi scritte. E
ancora oggidì professano che i sacri libri di Brama fossero per più generazioni
trasmessi a voce, e solo assai tardi si riducessero a scrittura.
Romagnosi
afferrò quel detto d'Erodoto, che la dottrina dei Cabiri, il culto di Dionisio
e i numi egizi, approdando in Grecia da diverse parti e a lontani
intervalli, si confusero alfine in una sola religione; e suppose che per egual
modo i collegi braminici conducessero mano mano ad unità le svariate credenze
che incontravano già divise nel vasto seno dell'India. E per verità,
chi ben consideri, viene a indurre che con opera profonda e perseverante
strinsero nella robusta loro mano un fascio di più religioni, e le ridussero ad
apparir mere variazioni rituali d'una fede sola.
Sotto tre
aspetti principali rappresentano i bramini l'essere supremo; l'uno astratto e
scientifico, l'altro concreto e vulgare, il terzo spirituale e contemplativo.
Nel primo videro solamente la sustanza, l'ente; lo chiamarono Brama; e
lo tennero indifferente al bene e al male, come incidenze che non tolgono il
principio dell'essere. Questa divinità, non in atto, ma in potenza
indeterminata non eccitava speranze né timori; epperò non ebbe feste segnate al
calendario, né templi, né devoti che al modo indiano s'imprimessero il fronte
coi segnali del suo culto. - Nel secondo aspetto rappresentarono i bramini la
potenza determinata e attiva, che muta indefessamente le forme onde si veste
l'esistenza; e gli posero il nome di Siva e lo fecero Maha Deva,
cioè Magno Dio, animatore della natura; ministro di tutti i beni e di
tutti i mali, dispensatore della vita e della morte, come presso i Romani il
nome di Libitina dinotava in uno la Dea della morte e dell'amore. - È questo il
nume al cui simulacro, più spesso effigiato colle insegne del male, cioè con
molte braccia armate di varii strumenti di dolore e sterminio, si atterra anche
oggi la moltitudine dei popoli indiani. - Nel terzo aspetto della divinità si
volle indicare la benefica sapienza, che inaspettata appare fra le ruine e le
stragi a redimere le genti dal profondo della sventura e della depravazione. La
chiamarono Visnù, e favoleggiarono come nove volte scendesse moltiforme
su la Terra a salvare con pietoso inganno i suoi devoti; e ne aspettano e
invocano la decima apparizione («avatar»); e nel settemplice recinto di
Seringam dipinsero Brama stesso ginocchioni a suoi piedi; che è quanto dire
l'universo invocante un salvatore. - Né i bramini personificarono solamente
questi tre attributi di Dio, - l'essenza, la potenza, la bontà; ma per egual
modo astrassero e personificarono tutte le altre qualità e modificazioni; e poi
le dupilcarono sotto forma virile e feminea; e derivandone altri attributi, li
chiamarono figli dei primi e li rappresentarono parimenti in doppio aspetto di
maschi e di femine; e ne progenerarono una tale caterva di numi, effigiati in
tanto strani e mostruosi sembianti, raccapezzati come sogni d'infermo da tutto
il regno animale, che l'indagatore più sagace e deliberato vi smarrisce ogni
filo di discorso. Che se da principio egli dilettavasi di leggervi quasi una
filosofia figurata e travestita, si trova in fine sommerso in un basso
feticismo, che si fa un Dio d'ogni sasso, d'ogni rivo, d'ogni bestia del campo
e della selva; onde non può non meravigliare della sinistra e scaltra sapienza,
che poté con continua catena collegare le illusioni dei fanciulli e dei
selvaggi alla scolastica astrazione dell'ente, e lasciando quelle a trastullo
delle tradite moltitudini, riservarsi in questa la chiave d'una superba
interpretazione.
L'artificiosa
unità per tal modo sovraposta a più religioni, distrusse l'antica fortuna di
quelle famiglie regnanti, che avevano congiunto all'uso delle armi i sacerdozii
delle credenze primitve. Il sotterraneo lavoro che attraeva a sé le
moltitudini, alienandole sordamente dal principato, scoppiò alfine in una vasta
ruina, nell'eccidio dei figli del sole, che, come si legge nei Purana,
furono in pena dell'indocilità loro conquisi e sterminati da Brama. Questa
guerra delle corporazioni contro il principato sembra cominciasse prima
dei tempi d'Alessandro, come si raccoglie da un passo di Diodoro: «quantunque
per lungo corso di tempo la maggior parte delle città abbracciasse lo stato
repubblicano, vi fiorirono sino ad Alessandro alcuni regni» (II, 11). Ma
poco di poi, al tempo cioè di Seleuco Nicatore, il bramino Chanacya abbatté il
più potente delli antichi principi, Nanda re dei Prasii, ossia del Bengala,
valendosi a ciò del venturiero Ciandragupta della tribù dei Maurya, capitano di
stranieri assoldati, fra i quali erano alcuni Greci; poiché, dopo la fortuna
d'Alessandro, erano essi divenuti maestri di guerra alle genti asiatiche, come
i Ventura e gli Avitabile lo divennero ai nostri giorni presso le medesime
nazioni. La vittoria di Ciandragupta, o, come lo pronunciarono i Greci, di
Sandracoto, segna, sotto il nome del Maha Bali o gran re, un'era principale
della dottrina braminica.
Nell'India
primitiva, come in Egitto e in Persia, erano alcune famiglie che attendevano
esclusivamente alle armi, al commercio, all'agricultura; e forse i militi e i
mercatanti erano di straniera origine e d'altre religioni. Ciò avviene ancora
in molte regioni; a cagione d'esempio, nella Turchia, dove mentre il greco
lavora i campi, il turco e l'albanese hanno il privilegio delle armi, e
l'israelita e l'armeno son trafficanti; la qual divisione facilmente si
perpetua, perché le credenze dissimili tolgono le reciproche nozze e la fusione
delle famiglie. Pare poi che, mentre codeste classi nell'India non avessero commune
connubio, i soli bramini, per cattivarsi dapprincipio tutte le classi,
accettassero indistintamente da tutte i loro allievi. Così attesta quello tra
li antichi ch'ebbe più accurata notizia delle cose indiane.9 Ma oggidì,
al contrario, nessuna casta indiana è più rigidamente chiusa della sacerdotale;
onde converrebbe inferire che nella guisa medesima che poi fecero i patrizii
veneti colle successive serrate di consiglio, e forse in quella guisa a
cui sembrano tendere da qualche tempo li stessi inglesi, serrassero
l'acquistata potenza nelle loro famiglie, interdicendo con sacro divieto ogni
ulterior mescolanza. E a poco a poco insinuarono alla nazione indiana ch'ella
era un'emanazione di Brama Stesso, il quale dal suo capo aveva tratto i
bramini, dalle braccia le tribù militari, dal ventre li artefici e i
trafficanti, dai piedi i sudri o coltivatori. Perlocché chi tentava
approssimare o confondere le discendenze, era un sacrilego che pervertiva le
leggi dell'essere, e snaturava le membra di Brama; e perciò doveva relegarsi
fra le cose eslegi e immonde. S'era di stirpe elevata, perdeva su l'istante la
sua casta, l'eredità de' suoi padri, ogni diritto di parentela, di consorzio,
di soccorso; era reietto e maledetto irrevocabilmente con tutta la sua generazione.
S'era un sudra, e aveva la temerità d'intrudersi nella parentela d'un bramino,
la legge ordinava di mutilarlo, poi di arderlo a lento fuoco, steso sopra ferro
rovente. Era un abominio che un sudra osasse porsi su la sedia sacra d'un
bramino; era una contaminazione che uomo d'altra casta toccasse un bramino, o
un cibo o una bevanda a lui destinata, o si accostasse a raccogliere le
reliquie della sua mensa. Il bramino che avesse accommunato i sacri misteri al
sudra, insegnandogli con quali riti potesse espiar le sue colpe, o leggendogli
i libri sacri, cadeva seco lui nell'eterno abisso. Il supremo dovere di re e di
magistrato era d'onorare i bramini; il re, se anco fosse divorato dalla fame,
non poteva prender loro cosa veruna; e quando li avesse convinti di qualsiasi
più atroce misfatto, non poteva mai punirli altrimenti che con invitarli a
partir dal suo regno, salvi della persona e dei beni. L'ira loro poteva in
virtù d'arcane parole precipitare nel nulla il re, precipitarlo nel nulla co'
suoi cavalli ed elefanti: la loro parola poteva dare al mondo altri re. E ben
lo aveva saputo il re Nanda.
V'è una sola
via, per la quale un uomo d'altro sangue possa elevarsi a pareggiare la sublime
natura d'un bramino; ed è quella del jogeo o penitente, che lasciando
ogni cosa più diletta, si mette in un deserto a vivere di radici, giacendo su
la nuda terra, intonso la barba e i capelli, scendendo tre volte al giorno a
purificarsi nelle acque d'un fiume sacro, compiendo ogni giorno i cinque sacrificii,
e meditando con taciturna assiduità i quattro Veda. I più fervorosi corrono
nudi alla pioggia dirotta, ai turbini delle montagne nevose, alle gelide
rugiade che seguono i torridi giorni; si cimentano alla prova micidiale dei
cinque fochi, ponendosi a capo nudo sotto il sole del meriggio, in mezzo a
quattro cataste accese finché l'esacerbato cerebro si accenda a un delirio che
il popolo prostrato e silenzioso ammira. Altri s'incatena per tutta la vita a
un arbore della foresta, ad una rupe solitaria; altri passa la vita
ginocchione, altri sopra un letto irto di chiodi; altri fissa le pupille nel
sole finché la vista si spenga; altri sta molti anni colle pugna chiuse, finché
le unghie crescenti trafiggano le palme; altri si flagella, si scarna, si svelle
dal seno un viscere, e spira senza dar segno di dolore; altri in via di
sacrificio si annega nelle sante aque del Gange; altri si corica impavido e
placido in mezzo alla via, per esservi stritolato dal carro che porta in giro
l'idolo gigante di Jaggernat, intorno al cui tempio la squallida maremma
biancheggia d'ossa infrante. Quando i due Indiani alzarono un rogo alla vista
dell'esercito d'Alessandro, e si gettarono volontarii tra le fiamme, le menti
greche non seppero attribuirlo ad alcuna più alta ragione che al tedio della
vita. Molti anni dovevano scorrere su la Grecia, prima che le si manifestasse
l'arcano principio di questa guerra dell'uomo colla sua carne.
Siccome nel
panteismo braminico l'universo è una assidua trasfigurazione d'un unico ente,
così la vita succede con perpetua catena alla vita. Il delitto fa discendere lo
spirito a natali infelici e contaminati, e l'espiazione lo solleva mano mano a
più eletti destini. L'anima del malvagio può rinascere in un uomo infame e senza
casta, in un rettile, in una fiera; l'anima del povero virtuoso rivive in un
guerriero, in un sacerdote, in un genio abitatore d'un fiume o d'una stella, e
sempre più s'inalza, e finalmente si congiunge e s'immedesima col puro
principio dell'ente. Quindi alla mente dell'Indo tutte le cose del creato sono
piene di spiriti peregrinanti, trascinati da eterno vortice di dimora in
dimora, ma condannati a non varcare nel corso d'ogni vita il limite fatale
della specie e della casta. Un europeo, dice il sig. de Penhoën, dimandò
ad un bramino ove fosse il suo Dio; il bramino gli additò un fiore; l'europeo
non fu pago, e glielo dimandò un'altra volta. Allora il vecchio additò un altro
fiore, poi un arbusto, poi un altro, poi levando ambe le braccia, le aperse, additando
maestosamente tutto il circuito della terra e del cielo.
Laonde il pio
panteista, che non osa toccare il suo simile d'altra casta per non infrangere
il decreto sotto cui si aperse la sua vita, guarda riverente tutta la natura come
un sacro campo d'espiazione; ucciderebbe piuttosto sé medesimo che una scimia;
perché questa è una delle forme sotto cui si è celato il benefico Visnù; non
osa cibarsi della carne del bove che ara i campi; ha nausea e disprezzo del
carnivoro europeo; beverebbe piuttosto il proprio sangue che una goccia di
brodo, e si appaga di bollire un pugno di riso in aqua salata; e trema d'ogni
insetto che gli scricchioli sotto il piede. E siccome considera sé medesimo
come un'emanazione di Brama, così tutti li atti della sua vita sono esercizi
d'un'esistenza divina, ch'egli compie con rigido ed ansioso raccoglimento,
quasi funzioni d'un sacro rito. «La divozione» dice l'antica legge di Manù,
«comprende tutti i doveri della vita; è la scienza nel sacerdote; è la vigilanza
nel milite; è il commercio nel mercatante; è l'agricultura nel colono». E così
ogni più profana operazione soggiace all'ingerenza del rituale braminico in
modo così minuto e inesorabile, che la libertà morale, la volontà, la ragione
rimangono assorbite e cancellate sotto l'assidua dettatura d'un principio che
nulla tollera di spontaneo, di libero, d'indefinito. E sempre sta sospesa sul
capo di ciascuno la minaccia che un rito negletto non tragga seco la ripulsa
della casta e un'irrevocabile maledizione.
Ogni persona
d'onore porta i segnali della sua stirpe, e prima di deporli soffrirebbe mille
morti; e già solo alle fattezze, al colore, ai modi, le alte caste sacerdotali
e armigere, discese in remota origine dalli altipiani dell'occidente, si
discernono dalle fosche genti indigene, ancora semiselvagge nei monti, o deboli
e snervate nelle maremme del Bengala. Non è lecito gustar cibo preparato da
persona d'altra casta, né seder seco a mensa, né contrar seco parentado; e la
pena inevitabile è d'essere immantinenti ripulso da ogni consorzio di famiglia,
aborrito e fugito come un essere immondo. Ogni soldato porta in campo di che
apprestarsi in disparte il suo cibo; e se può, lo prende non visto nel
nascondiglio della sua tenda, o addossato a una parete, a una siepe. Due
soldati della scorta del vescovo Heber di Calcutta, presi da repentino morbo,
protestarono rispettosamente di voler piuttosto morire che toccare la bevanda
ristoratrice che il buon prelato apprestava loro di sua mano. Per l'uomo
d'altra casta nessuna umana cura, nessuna pietà; potrebbe morire in mezzo alla
folla, senza che una mano si stendesse a soccorrerlo, senza che un occhio si
volgesse a lui. Ogni casta è un mondo a sé; non cura e non sa che si operi o si
pensi dalli altri viventi; né tiene altra regola della vita che le millennarie
tradizioni de' suoi padri; né alcun'altra nozione del bene e del male. Quindi
ogni discendenza ha le sue virtù e i suoi vizi, li esagerati suoi rigori, e le
inemendabili sue turpitudini. In alcune tribù militari è approvata la pluralità
delle mogli; in quella dei Nairi una donna è sposa a tutti i fratelli; in
quella dei Tulti appartiene a tutto il parentado. In generale la legge
braminica tiene la donna in perpetua minorità. Il padre è il suo signore
nell'infanzia, il marito nella gioventù, il figlio nella vecchiezza: ella non
può leggere i libri sacri; non ha parte nella paterna eredità; non può sedere a
mensa col marito; è soggetta al divorzio, soggetta alla poligamia; e nelle
tribù militari talvolta moriva abbruciata sul rogo del marito. - Alcuni, per
avvicinare alla nostra comprensione questa strana perpetuità delle caste, le
volle assimigliare a quella legale disparità, in cui vivono tuttora fra noi li
israeliti e i cristiani. Ma non è così; dacché alcune legislazioni concedono
fra questi il diritto delle nozze, e quasi tutte lasciano communi li altri
godimenti civili; e infine l'israelita può da un istante all'altro farsi
cristiano, aspirar, se vuole, al sacerdozio. Ma il sudra venuto dai piedi di
Brama, non può disciogliere tutta la catena del creato per uscir dal suo capo;
né il più nobile bramino può trasformarsi in un legitimo sudra; il loro destino
è irrevocabilmente fisso dal principio dei secoli nel seno onniparo dell'ente;
e la prole promiscua non sarà tollerata mai né fra i bramini, né fra i sudri;
ma nuda d'ogni bene e d'ogni onore crescerà confusa colle impure genie da cui
si traggono i sepoltori e i carnefici, raccogliendo il lurido suo pasto nel
fango delle vie.
Il corso del
tempo rese sempre più saldo l'edificio delle caste, sempre più fra loro
allontanandole ad ogni nuova generazione, e dileguando ogni memoria di
primitiva convivenza. E quando si furono intimamente imbevute del principio
della separazione, inclinarono per natura a suddividersi in sottocaste,
assegnando loro diseguali gradi di dignità e d'orgoglio. Anche le famiglie
miste, che rimanendo fuori dell'ordine consacrato avrebbero potuto riempire
alquanto li intervalli e scemare le distanze, rientrarono a poco a poco nel
generale ordinamento, appropriandosi come nuove caste le novelle funzioni che
lo sviluppo dell'industria suggeriva. Allora il mondo braminico fu assicurato
sovra perpetue fondamenta. Si vuole che le odierne caste non sieno meno di
quaranta; ma quanto più l'osservatore s'interna nelle famiglie, tanto più ne
discopre; e tutte hanno un circolo fatale di officii, entro cui si rinchiudono
inesorabilmente. Il facchino «cooli», che porta il carico sul capo, non
potrebbe indursi mai a porselo su le spalle; il colono non falcia una messe che
di sua mano non abbia seminata; il cavalliere non falcia l'erba da pascere il
suo cavallo; il soldato di alta casta non porrà mano a fortificare il campo; e
quindi ogni combattente a piedi ha un servo, ogni combattente a cavallo ne ha
due; e un campo indiano si trae dietro nelle tarde sue mosse una vasta e
confusa città di servi e trafficanti. E quando si sia compiuto il novero di
tutte le caste onorate, rimane ancora al di sotto tutta la colluvie dei paria,
dei «callatrù», e delle altre generazioni reiette e impure, che o nacquero
dalli espulsi delle caste legitime, o da genti anticamente ribelli e
perpetuamente perseguitate, o da famiglie che si degradarono per esercizio
d'arti infami, o per uso di cibi immondi, o dai figli delle baiadere, ospitate
dai bramini intorno alle loro pagode,10 o da reliquie di tribù
straniere, o selvagge e indomite alla nuova legge, o finalmente da orde
accozzate in secrete leghe di rapina e di sangue. La tribù dei Lambadi, data al
commercio dei cereali, offre ancora sacrificii umani, e conduce oscene danze
intorno alla fossa ove ha sepolta la vittima viva. Verso la fine dello scorso
secolo, il celebre Tippoo Saeb incontrò nel Malabar una tribù
affatto nuda, che viveva nelle selve arrampicata su li arbori; l'immodestia di
quella gente fece ribrezzo al musulmano avvezzo a tener le donne velate anche
in viso; egli comandò loro di vestirsi, e fece dar loro la tela; ma essi
vollero piuttosto mutar paese; e il vecchio della tribù venne a deporre
umilmente la tela a' piedi di Tippoo, dicendogli: «Sultano, tu vivi come i tuoi
padri; lasciaci vivere come i nostri». - Una delle tribù eslegi ed estorri
sembra quella dei Zingari, che nel secolo XIV si trascinò dalle rive dell'Indo
sino in Europa, e nella sua dispersione conserva qualche memoria della favella
nativa; ma l'assoluta mancanza di nozioni religiose sembra indicare una stirpe
rimasa pertinacemente straniera all'educazione braminica. La più orribile di
tutte è la lega delli strangolatori («phansigar», «thug»), scoperti
autenticamente solo nel 1830, e fieramente perseguitati dal capestro
britannico, come quelli che per onorare la nefanda Dea Bhowanie, odiatrice del
genere umano, professano l'arte dell'omicidio. Il magistrato stesso che li
scoperse, non aveva mai saputo che, pochi passi fuori della sua casa, vi era un
principale convegno di codesti scellerati. «Centinaia di viandanti venivano
sotterrati ogni anno nel boschetto di Mundasoor. Tutta una tribù d'omicidi
viveva alla mia porta nel casale di Kundelie, mentre io era magistrato della
provincia.» Il loro atroce capo Faringhea dissotterrò sotto la tenda del suo
giudice tredici cadaveri; e s'offerse a trarne fuori quanti altri ne voleva. Un
solo di questi perversi aveva trucidato o strangolato 719 vittime, e gemeva di
non poter compiere il numero di mille.11 - Forse la prima origine di
questi orrori fu nella diuturna lutta che le antiche genti opposero
all'artificioso predominio d'una setta straniera. Nessuno può narrare tutti i
secreti d'un popolo immenso, in cui da migliaia d'anni ogni cosa divenne
tradizione secreta di famiglie disgiunte e chiuse.
La setta
braminica scese dagli altipiani fra settentrione e occidente, portando seco la
lingua, la scrittura e la legge della sua patria, il codice di Manù. Ma il
testo di questa legge da un lato ammette l'ordine delli schiavi,
dall'altro dichiara che la «terra coltivata appartiene a colui che primo
estirpò la foresta, come la belva è del cacciatore che la ferì a morte»; e
attribuisce al re soltanto il dominio supremo: «del tesoro celato in terra il
re ha diritto alla metà, come signore supremo del suolo». Questi tre
cardini, che stabiliscono la relativa condizione dello schiavo, del libero e
del re, sono, come si vede, poco alieni dai principii che prevalevano
nell'antica Europa. Ma essi rimasero lettera morta nei libri dei Bramini, e in
fatto vero non furono applicati all'India; poiché non vi era ordine di schiavi,12 al tempo stesso che non era segnato il limite europeo tra la possidenza e
la sovranità. Perloché, o principi conquistatori avevano già prima d'allora
usurpato il diretto possesso della terra; o bisogna supporre che i bramini, per
ricompensare il Maha Bali e li altri loro soldati e satelliti, spossessassero i
primitivi abitanti, come fece Guglielmo in Inghilterra. E in fatti in un libro
di più tarda età si trova scritto: «Per la vittoria la terra divenne del savio
il quale l'affidò alle mani dei militi («chatrya»), che la difendessero;
e così nel corso dei tempi divenne cosa loro, affinché appartenesse a
conquistatori poderosi e non a sottomessi agricultori!».13 La usurpazione braminica però non
divise il possessore dalla sua terra ponendo un altro al suo luogo, come fece
la conquista normanna, e come era l'antico principio della confisca europea.
Essa più scaltramente si limitò ad attribuire al conquistatore una parte del
produtto, ma tale e tanta, che all'antico possessore rimase solo ciò ch'era
necessario a campar sottilmente la vita, e riporre le sementi e le altre scorte
per l'anno successivo. Strabone già scriveva a' suoi tempi: «Sin tanto che
l'agricultore paga questo tributo, la terra trapassa a' suoi posteri di
generazione in generazione». Quella proprietà era dunque un diritto di coltivare,
non di godere. Inoltre le successioni erano vincolate; e la legitima da
ripartirsi tra i figli, escluse le femine, assorbiva tutta l'eredità; onde si
sopprimeva un altro costitutivo della proprietà, ch'è diritto di disporre.
Eppure tanto lusinghiera è per li uomini questa illusione della possidenza, che
ancora oggidì il contadino indiano dice con orgoglio: «La rendita è del re, ma
la terra è mia».
Tolto così il
godimento dei frutti e la libera disposizione della sustanza, i conquistatori
vincolarono anche il modo di coltivarla. Suddivisero la terra e il popolo in
tanti communi non minori di cento anime né maggiori di duemila. Vollero che il
commune rispondesse solidariamente dell'imposta prediale, ossia del reddito
nitido; e che i magistrati communali suddividessero di volta in volta il carico
fra li agricultori. E perciò diedero facoltà al magistrato di costringere i
possessori a coltivare, e anche determinarne il modo e il tempo, affinché per
inerzia d'un privato non ricadesse su li altri più gravoso il carico. Si ebbe
così una proprietà vincolata al commune, e una coltivazione per conto comunale
(«bagwar»); il frutto della quale, prelevato prima il reddito fisso del re, poi
li stipendii dei magistrati e inservienti communali, poi le spese e scorte per
l'anno seguente, viene ripartito fra i possessori delle tenute («bag»), in
proporzione dei numeri di mappa, o particelle («ana»), che ciascuno possiede. È
questo un modo affatto singolare d'amministrazione agraria; e forse non v'è istituzione
nostra che gli simigli, se non forse la proprietà delle miniere di ferro nei
nostri monti. Il numero delle funzioni communali è assai grande; oltre al
capo-villa («gram-adikar», «potail»),
vi è un esattore, un custode dei confini, delle vie e dei viandanti, e varii
ministri del culto, come il sacrificatore, il canzoniere, il tamburino, il
flautista, la baiadera, e finalmente l'astrologo, che coordina alle stagioni e
ai riti l'ordine delle operazioni rurali. Inoltre si vincolò al commune l'opera
dei varii artefici e trafficanti, che in ogni altro paese sono lasciati al
libero corso della concorrenza, come il fabro, il falegname, il vasaio, il
lavandaio, i venditori d'olio, di cuoio, di funi. E non solo i magistrati
cessarono d'essere elettivi, ma tutti questi officii a poco a poco trapassarono
in eredità e si legarono a certe discendenze. L'uomo adunque, in qualunque
remoto casale dell'India la sorte il facesse nascere, si trovò rinchiuso e
confitto al suo luogo, e per così dire ordito e tessuto nella casta e nel
commune; e trovò irrevocabilmente determinato tutto il tenore della sua vita e
de' suoi pensieri per sé e per i più remoti suoi posteri, con iniqua e stolta
infrazione di quelle leggi di natura che impressero in ogni essere umano sì
varie attitudini e sì libere inclinazioni. Sotto quell'universale impiombatura,
il più generoso cuore doveva battere senza speranza, il più sublime ingegno
doveva languire e spegnersi, senza aver dato una scintilla della divina sua
luce. Eppure dotti metafisici dissero ai nostri giorni, e i non dotti
interminabilmente ripeteranno, che l'Asia è la patria del libero e
dell'indefinito.14
Ogni
capo-villa trasmetteva il reddito al capo-distretto;
questi, secondoché il suo territorio contava dieci communi o venti, riteneva
per sé il frutto di due poderi o di cinque; il prefetto di cento communi
riteneva il reddito d'un commune intero; e il prefetto di mille aveva in godimento
una città, e inviava le altre dovizie della provincia al re. Questi doveva
giudicare i popoli, proteggerli contro le indebite esazioni, difenderli colle
armi, e sopratutto onorare i bramini, i quali pur facendolo di lunga mano loro
inferiore in dignità, lo annunciavano deputato dal creatore alla conservazione
dell'ordine divino, cioè della potenza braminica; e quindi lo acclamavano Dio
sotto umano sembiante. Il godimento universale della terra, in una delle più
vaste e ubertose regioni del globo, era una bastevole mercede per assicurare ai
bramini la fedeltà di quelle tribù di montanari, che avevano trascelte al
privilegio delle armi fra una colluvie disarmata e avvilita dalla ferrea
disciplina della casta e del «bagwar». «Costoro» diceva sin da' suoi tempi
Arriano «attendono solo alle cose militari, poiché altri ha cura dei loro
cavalli, delle armi, delli elefanti e dei carri. Quando è da combattere
combattono; ma tornata la pace, fanno gioconda vita, provvisti di sì generoso
stipendio publico da sopperir largamente anche ai loro seguaci.»15
Esterminati i
figli del sole, cacciati fuori della penisola o nella sua meridionale estremità
li austeri oppositori Buddisti e Giaini, che richiamavano le cose all'antica
purità, spogliati e legati alla gleba i possessori, relegati nel commune li
artefici, i trafficanti, e persino i cultori della musica e della poesia,
interdette colli scrupoli d'un'impura convivenza le lunghe navigazioni, chiusi
colle castella delle tribù militari i pochi accessi che non erano cinti d'alpi
e di mari, mancava solo per rendere perpetuo quel dominio che si cancellasse
nei popoli ogni notizia d'uno stato anteriore, e ogni idea d'una diversa
esistenza. Laonde si proscrisse ogni studio del passato, e per sommergere ogni
data istorica si divisò un'imaginaria tessitura di più millioni d'anni, divisi
in quattro età; delle quali l'età presente, o «cali yuga», deve durare per 4320
secoli; quella che decorse innanzi a questa, o «dwapar yuga», ebbe un numero duplo
di secoli (8640); e prima ancora era spirato il «treta yuga» con un numero triplo
di secoli (12960); e il «satya yuga» con un numero quadruplo (17280); e prima
di queste si erano volte altre età divine, nel cui novero la mente si
smarrisce. Per mezzo dei poeti officiali imposti ad ogni commune s'intruse
nella memoria dei popoli una congerie di legende confuse, che narravano
apparizioni e figliazioni d'innumerevoli divinità, e combattimenti contro i
selvaggi e li empii, figurati come orride belve. Un immenso apparato poetico
divenne l'allettevole involucro di perverse e insocievoli dottrine, le quali
ammorzarono in cento millioni d'uomini il senso del vero e del falso,
l'intendimento dei communi interessi, il lume della ragione e della coscienza.
Ma questo dominio dell'imaginazione su le altre più severe facoltà produsse
quello splendido edificio di poesia, i cui frammenti con dotte con fatiche
estorti al geloso bramino, e tradutti nelle nostre lingue, empirono
d'ammirazione li studiosi. Al tempo medesimo, entro il recinto dei collegi
braminici, la dottrina poté esercitare per secoli tutte quelle meditazioni che,
non toccando il vietato tereno dei publici interessi, contemplavano l'essere
umano al di fuori dell'esperienza naturale e civile, e sopratutto nella potenza
astratta del pensiero; e poté compiere quell'immensa elaborazione di filosofie,
che ad alcuni parvero ripetere, tutto ciò che le altre nazioni pensanti vennero
poi divisando. Ma noi crediamo semplicemente che l'identità dei produtti
metafisici nasca dall'identità della forza contemplativa e dall'identità delli
argumenti e dei dati, che vengono a raccogliersi entro la camera oscura
dell'interna riflessione e della scienza a priori.
Un altro campo
in cui la società braminica diede largo corso all'umana attività si fu quello
dell'arte; poiché un suolo fecondo, coltivato da un popolo frugale e devoto,
tributò nel corso del tempo prodigiosi tesori, con cui ella poté istoriar di
sculture vasti sotterranei, trasformare in labirinto di santuarii più d'una
rupe di basalto, inalzare in giro di più milia i sette chiostri di Seringham,
elevare sopra legioni di colonne le sette pagode di Mavalipura. Il popolo
indiano scolpì ne' suoi templi tutto ciò che aveva contemplato nelle sue
astrazioni filosofiche, e personificato e verseggiato nei grandi suoi poemi.
L'industriose plebi intanto, trattando con mirabile agilità e gentilezza di
mano li imperfetti arnesi d'un'arte primitiva, seppero fornire al
barbarico fasto delle caste dominatrici una tale squisitezza di tessuti, di
colori, di profumi, di ricami, di gioie, che i tesori dell'India divennero il
sogno delle altre genti della terra. E intanto il povero viveva, come ancor
vive, in angusti tugurii coperti di paglia, fra pareti d'argilla che le assidue
piogge stemprano in fango, dove fra l'ardore del cielo e il lezzo della
povertà, male abbeverato coll'aque fangose dei sacri suoi fiumi, divide colla
seminuda prole un pugno di riso sottratto sovente alla messe immatura. L'unico
suo conforto è nella magnificenza delle sacre sue pompe, nel clangore dei sacri
strumenti, nelle notturne illuminazioni, nelle sacre danze delle baiadere,
nelle peregrinazioni ai lontani santuarii, e nella coscienza d'aver compiuto in
ogni ora del giorno e in ogni giorno dell'anno quelle prescrizioni rituali, che
gli conservano l'onore della casta, e che sollevandolo sopra l'impuro paria, e
mettendo sotto a' suoi piedi un'esistenza più misera della sua, gli rendono
cara quella catena che da tanti secoli lo stringe.
Un ordine di
cose che aveva troppo ingiustamente distribuiti i beni e i mali, e aveva
abusato la sapienza dei pochi e la potenza medesima delle arti e della poesia
per eternare l'ignoranza dei più, era destinato a succumbere al primo assalto
che una mano deliberata avesse portato alle sue fondamenta. Ma perché l'impero
braminico era posto in un angolo del mondo, fra mari non navigati e impervie
alpi, tenuto in gelosa oscurità d'ogni cosa straniera se non aveva fatto
sentire la sua potenza alle altre genti, non aveva neppure sofferto alcuna
poderosa irruzione. Le armi dei Persi, poi quelle dei Greci e dei Parti erano
bensì penetrate nella valle dell'Indo; ma le tribù bellicose delli aridi
altipiani fra l'Indo e il Gange, le ignote vie, le sterminate distanze avevano
in breve scemato le forze e l'animo alli invasori. Anche li Arabi, che in pochi
anni avevano fatto un solo imperio di tutte le regioni d'Asia, d'Africa e
d'Europa dalla foce della Loira a quelle dell'Indo, quivi giunte languivano. E
già l'imperio dei Califfi si scioglieva in provincie ribelli; l'Europa desta a
nuova vita cominciava col braccio dei contadini spagnoli e dei marinai italiani
la reazione delle crociate, e il terrore delle armi musulmane pareva
dissiparsi.
Ma i pastori
turchi delle lande a levante del Caspio, venuti tardi alla fede musulmana, e
fattisi mercenarii dei Califfi solo due secoli dopo Maometto, si erano inalzati
dalla custodia del palazzo al primato della milizia e alla rapina delle provincie,
rinovando quel corso di cose che aveva fatto grandi in altri tempi e in altri
luoghi i Caldei, i Persi, i Goti, i Franchi, li Angli. Uno di quei fortunati
guerrieri aveva sede verso l'anno 1000 in Afgania, nella città di Ghazna, su
l'altipiano che sovrasta alla valle dell'Indo. Egli in ventotto anni discese
dodici volte nell'India, sempre vittorioso, abbattendo i templi dei bramini, e
dilettandosi a spezzar di sua mano li idoli e spargerne a terra li ori e le
gemme.
La fede
maomettana è l'opposto estremo della braminica. Non idoli, non caste, non
trasmigrazioni delle anime, non panteistica confusione dell'universo con Dio.
Dio, l'uomo e la natura sono tre termini distinti, inconfondibili. Li uomini si
dividono solo in fedeli ed infedeli; e tra loro né pace né tregua. - «Ogni
anno, spirati i mesi sacri, uscite e trucidate li infedeli; vivete delle loro
spoglie; fate schiave le donne e li infanti. La guerra duri finché siavi uomo
su la terra che neghi il vostro Dio; tutta la terra è promessa a voi. Tutti li
uomini sono combattenti; tutti sono eguali, tranne il profeta che parlò in nome
di Dio, e il califfo che parla in nome del profeta; lo stato è un esercito.» La
mazza ferrata del guerriero di Ghazna, che sfracella l'idolo di Somnaut e sparge
a terra le sue gemme, rappresenta l'urto della bellicosa democrazia musulmana
contro l'universale patriziato dell'imbelle società braminica.
Il musulmano
aveva da lungo tempo appreso a risparmiare il sangue degli infedeli, e ad
accettare dalla loro mano il riscatto del sangue. I commentatori del Corano
avevano temperato le atroci parole del profeta: «Entrando in terra straniera,
intimate alli abitatori di sottomettersi alla vostra fede; se assentono, siano
con voi; se ricusano, paghino il tributo («khiraj»); e allora abbiategli come
se fossero figli della vostra fede». - Tutti i figli d'Adamo sono adunque
chiamati dal profeta; tutta la terra è patrimonio de' suoi seguaci; tutti li
infedeli armati sono suoi nemici; disarmati, sono suoi servi. Ottenuta la pace,
il musulmano doveva dunque aver caro d'essere circondato da infedeli che
potesse spogliare, piuttostoché di fedeli che dividessero seco le spoglie. La
legge maomettana portava dunque seco un principio di salvamento per l'India
conquistata. Il capo d'ogni commune, in luogo di pagare il suo tributo alle
caste dei bramini e dei cetrii, pagò all'esattore dell'esercito maomettano;
nulla si cangiò nell'ordinamento del commune, nulla si tolse alle caste e ai
loro antichi riti; l'esattore indiano prese nome di «zemindar»; il musulmano
non volle conoscere altro magistrato, e lo fornì d'autorità e d'armi per
riscuotere il tributo delle terre. Nell'estremità della penisola e nelle
regioni montuose e armigere, li stessi regoli indiani si patteggiarono
zemindari dello straniero, e così conservarono le reliquie dell'antica potenza;
ma la maggior parte delle due caste dominatrici cadde in improvisa povertà. I
tributi che facevano gioconda la vita dei militi e dei loro poeti, e
avevano nella quiete dei collegi nutrite le meditazioni metafisiche dei
bramini, e stipendiato li artefici che scolpivano nel basalto i santuarii,
trapassarono ai nuovi dominatori. Dall'estremità del mondo maomettano vennero
orde di venturieri turchi, afgani, persiani, circassi, curdi, arabi, cabaili,
malesi, a dividere i preziosi scialli di Casmira, i veli di Dacca, i profumi
del Malabar; trassero seco turbe di schiavi bianchi e neri. La nuova gente
contò ben sedici milioni d'anime addensati per la maggior parte nelle città; la
sua ricchezza rappresentò tutto ciò che le alte caste indigene avevano perduto.
Eccelsi minareti e tumide cupole segnarono da lungi i nuovi santuarii del culto
maomettano e i sepolcri dei nuovi regnatori. I magistrati, le milizie, il
commercio assunsero nomi arabi; e il persiano, ch'era però già affine al
sanscrito, divenne il linguaggio consueto delle corti e dei viandanti. Alla
corte del conquistatore di Ghazna fioriva il poeta Firduzi, l'autore del Shah
Nameh; e molti dei principi musulmani e dei loro ministri furono scrittori
illustri nelle loro lingue, portarono nelle Indie l'ignota scienza della
geografia, l'ignota scienza dell'istoria. Ma la società indiana non imparò
quelle dottrine; si tenne rigidamente chiusa nelli antichi suoi pensieri; e
nell'intime sue condizioni rimase qual era prima. Una terza stirpe dominatrice
si era sovraposta alle altre due più antiche; e la nuova classe delli schiavi
si era aggiunta al novero delle stirpi disprezzate e infelici. E inoltre,
all'arrivo dei musulmani erano precorse le fugitive reliquie dell'antica
nazione persiana, e avevano salvato nell'isoletta di Bombay e nei monti vicini
i libri di Zoroastro; alcune famiglie cristiane della fede di Nestorio si erano
rifugite dalla Siria nel Malabar; e dietro i passi del conquistatore il
commercio traeva alcuni Armeni ed Ebrei. La conquista che altrove confonde e
assimila le stirpi, in India non le assimilò, anzi accrebbe il numero delle
primitive divisioni.
Tutta quella
potenza dopo due secoli era trapassata nelli Afgani, che dilatarono il dominio
musulmano sino alla foce del Gange (1210); e dopo non lungo intervallo (1293),
varcarono la Nerbudda, penetrarono nella penisola meridionale (Deccan),
desolando i templi delii idoli, traendo serve le popolazioni, e accumulando
tanta preda, che i soldati nel ritorno gettarono l'argento, come peso soverchio
e vile. Fra i venturieri che la conquista musulmana balzò su li antichi troni
dell'India, vi fu un Zaffar-Khan, ch'era già schiavo d'un
bramino, e divenuto sultano del Deccan fece ministro il vecchio suo padrone
(1357). Sotto quel regime adunque la fortuna delli individui non era più
avvinta alla casta. Eppure il mondo interno dell'opinione, anche dopo essersi
dissociato dall'ordine esterno delle ricchezze, si conservò inconcusso su le
antiche fondamenta; tanta è la forza delle tradizioni.
Su la fine del
secolo XIV irruppero di nuovo, sotto il nome di Mogoli, i pastori dell'Asia
interna, guidati dal feroce Timur o Tamerlano (1397), che, poste a fil di spada
intere città, trucidati un giorno centomila prigionieri, onusto di preda e di
maledizioni, tornò al di là dei monti a compiere la furibonda sua missione di
rapina e di sangue su tutto quell'immenso spazio che giace tra la muraglia
della China e i nostri mari. Egli diceva: «In cielo un Dio solo; e un sol
padrone in terra». Se il panteismo braminico annullava l'individuo,
l'eguaglianza militare di Maometto annullava in faccia a un individuo tutto il
genere umano. Timur lasciò il terribil nome dei Mogoli a un imperio che tornò
tosto a smembrarsi fra le tribù afgane; ma la sua stirpe ricomparve con
migliori auspicii in India nel secolo XVI. Il suo pronipote Baber (1525),
espulso dalle squallide lande del Turchestan, discese su l'Indo con diecimila
veterani, superstiti da vent'anni di guerre intestine; e con sì poca gente osò
affrontare tutta la potenza afgana. Egli medesimo lasciò scritto nelle sue
memorie: «Li Afgani potevano condurre sul campo cinquecentomila combattenti. Il
dì della battaglia di Paniput l'esercito di Ibrahim Lodi non contava meno di
centomila uomini e mille elefanti. Nulladimeno, e quantunque i nemici Usbechi
mi minacciassero a tergo, osai combattere con un tanto nemico. Ebbi il premio
de' miei sudori; e l'India è mia. Non però ne do gloria a me; bensì
all'Onnipotente, che si degnò soccorrere alla mia debolezza».
I vinti Afgani
rialzarono il capo, mossero con altri centomila combattenti sul campo di Byana;
ma il mogolo sfondò coll'artiglieria il centro nemico, vi si precipitò colla
sua guardia; vincitore innalzò una piramide di teschi delli uccisi. I popoli
dell'India, spaventati e memori di Timur, difesero come loro propria la causa
delli Afgani. I Rageputi, assediati in Chundery, compierono il tremendo rito
dell'«ioar», uccidendosi tutti, insieme colle donne e coi figli. Ma Baber fece
obliare la sanguinosa vittoria. Era bello della persona, affabile, giusto,
facile al perdono; scrisse le sue memorie con rara semplicità d'animo e di
stile; era di costumi lieti, e sopra una fontana de' suoi giardini aveva
scritto in versi suoi: «A me il generoso vino e le donne belle; a voi le altre
cose; godi, Baber, sinché il puoi; gioventù passa e non torna». Suo figlio
Humayun fu cacciato dall'afgano Sheer-Khan; ma dopo una
vita errante e infelice, tornò coi soccorsi della Persia; e vittorioso poeta
come suo padre, cantò le funeste delizie che appresta alli Asiatici l'uso
dell'opio; fu studioso di geografia e d'astronomia; aveva dedicato i sette suoi
palazzi ai sette pianeti, ornandoli di fregi allusivi. - Il suo successore
Akbar, che gli era nato nel deserto al tempo amaro dell'esilio, e ch'era stato
due volte prigioniero, vinse di nuovo li Afgani su la fatale pianura di
Paniput. Il vecchio suo tutore Beiram gli trasse avanti in catene il
conduttiero nemico, ed esortollo a trucidarlo di sua mano. Akbar, non appena
l'ebbe tocco colla sciabola, la rattenne, e proruppe in pianto; ma Beiram,
datogli un torvo sguardo, decapitò d'un colpo il prigioniero. Akbar, benché
umano, fu bellicoso; fu vigile e indefesso nel governo delle cose; fece
comporre dal suo ministro Abulfazil la celebre descrizione dell'India detta Ayeen
Akbar. Li orientali lo rammentano ancora come l'ideale dei regnanti. - I
successivi sultani dilatarono l'impero nella penisola, nel Tibeto, nel
Turchestan, luttarono colla Persia e colli Afgani; ma colla ragion di stato
delli orientali furono carcerieri e carnefici delle loro famiglie. Infine
Aurengzeb, che aveva imprigionato suo padre e soppiantati i fratelli (1658),
condusse l'imperio mogolo al massimo limite della sua vastità, che fu di
ventidue regni, con un reddito di ottocento millioni di franchi. Ma dopo la sua
morte, l'infedeltà dei governanti, le continue congiure del serraglio, li assalti
dello straniero e le ribellioni delle tribù indiane condussero tutto a
irreparabile decadenza. L'ultimo delli imperatori morì poetando nella sua
sventura, con ben altro metro che i vittoriosi suoi padri.
Il sommo della
calamità fu l'invasione persiana. Nadir nato pastore del Chorassan, aveva
venduto la greggia paterna per assoldare uno stuolo di venturieri, coi quali
assalì le orde afgane che desolavano la Persia; corse di vittoria in vittoria;
prese Ispahan (1720), respinse li Ottomani, s'incoronò re di Persia, perseguitò
li Afgani nella loro patria, li perseguitò fugitivi nell'India. Dopo aver preso
facile possesso di Delhi (1739), egli, per reprimere un fortuito tumulto dei
cittadini, ne fece trucidare più di centomila, sottopose li altri a orribili
estorsioni, deformò d'incendii la città; trasse dal tesoro imperiale in denaro,
in ori, in gioie per mille millioni, fece dell'imperio mogolo un vano nome. I
governatori rapaci, i ribelli Maratti, Seichi, Ragiputi e Pindarri, li implacabili
invasori Afgani, e finalmente li Europei approdati oramai da più parti alle
marine del Malabar, del Coromandel e del Bengala, ridussero l'India a una
lacrimevole confusione, e l'apersero per ogni parte alla conquista.
Il 22 maggio del
1498, il sesto anno dacché Colombo aveva scoperto l'America, erano approdate ai
lidi dell'India per la novella via del Capo tre navi capitanate da Vasco di
Gama. Egli trovò nel porto di Calicut tutti i tesori che l'Oriente destinava al
commercio dell'Occidente, gemme, perle, avorio, seta, indigo, ebano, zucchero,
aromi. L'antica catena mercantile che i Fenici avevano tesa, fin dai primi
tempi del mondo, lungo le marine dell'Arabia, e che con un estremo si collegava
alle isole Malesi e alla China, dall'altro alli Italiani dominatori del
Mediterraneo, era spezzata. Verso i tempi medesimi le irruzioni dei Turchi
avevano interrotte le vie terrestri della Siria, della Georgia, della Moscovia.
L'anno seguente
Cabral condusse nei mari dell'India trenta navi; sperperò colle artiglierie i
fragili legni dell'Oriente; sterminò quei naviganti, i cui principi riconobbero
tosto l'alto dominio del Portogallo e cacciarono dai loro porti i mercanti
musulmani. Venezia, anziché seguir tosto i Portoghesi su la nuova via maritima,
anziché afferrare i frutti d'una scoperta per cui le temute sue navi potevano
raggiungere d'una sola corsa il capofonte del suo commercio, sacrificò sé
stessa al tristo sogno di rattenere il mondo mercantile sui cardini antichi. Essa
volle tentare una guerra maritima attraverso all'istmo di Suez; trasportò a
dorso di cameli i legnami, le ferramenta, li operai; gettò con folle dispendio
sul Mar Rosso un pugno di navi; le congiunse a quelle del re indiano di
Camboge. Ma il prode Albuquerque le distrusse, e con una trionfale scarica di
artiglieria festeggiò il suo ingresso nel Mar Rosso; presa Ormuz, troncò la via
del Golfo Persico e dell'Eufrate; a Malacca s'incontrò coi navigatori chinesi.
Andrade approdò alla China; scoperse per mare quelle città di favolosa
grandezza, quelle pianure percorse da larghi canali, quelle dilicate industrie,
quella vetusta civiltà, che il veneto Marco Polo aveva infruttuosamente
scoperto per terra. Il pontefice aveva già diviso il globo fra i Portoghesi e li
Spagnoli, con una linea segnata da polo a polo, presso le isole Azore. L'Europa
settentrionale era ancora nelle tenebre. Lisbona divenne dunque l'emporio
dell'Oriente e dell'Occidente.
Ma la fortuna
dei Portoghesi durò poco. Albuquerque, espugnata Goa, aveva diviso fra suoi
seguaci le case e le donne dei nemici uccisi. La violenza cavalleresca, unita
alla mercantile avarizia, il commercio delli schiavi, la licenza del vivere,
l'ostentazione delli stranieri costumi, fecero che il circospetto e austero
indiano li riguardasse come una gente empia, che satolla di cibi immondi gioiva
nel consorzio delle caste impure; il nome di «Pranghi» o Europei divenne
un'ingiuria. Sui lidi del Malabar avevano essi trovato una tribù di cristiani
che sembravano profugi dalla Siria, poiché, dissimili anche nel sembiante dai
vicini popoli, celebravano li officii sacri in lingua siriaca, obedivano al
patriarca nestoriano d'Antiochia, anzi, per antica tradizione, riferivano
l'origine loro ai discepoli dell'apostolo Tomaso. Le caste indiane, nella
pacifica loro indifferenza per tutto ciò che fanno li uomini d'altra stirpe, li
avevano lasciati reggere da proprio principe, forse per un migliaio d'anni;
anzi veneravano la memoria d'un pio straniero ch'era perito nei primi tempi di
quella colonia; e in onor suo deponevano alcune offerte su un colle vicino a
Madras, che perciò si chiamò il monte di San Tomaso. All'arrivo inaspettato dei
Portoghesi il popolo nestoriano venne con giubilo da' suoi monti a salutarli
nel nome di Cristo, e offerse all'ammiraglio un bastone vermiglio, adorno di
campanelle d'argento. Due di essi vennero in Europa con Cabral; e uno scrisse
il suo viaggio, sotto il nome di Giuseppe Indiano, e morì a Venezia. Ma i
Portoghesi dissero che il bastone vermiglio era scettro di re, e che l'offrirlo
era stata professione d'irrevocabile sudditanza; l'arcivescovo Menezes di Goa,
che fu poi vicerè di Filippo II in Portogallo, impose loro d'adottare il rito
latino; ma quando amministrò loro la confermazione, essi con orientale ritrosia
si offesero ch'egli toccasse in viso le loro figlie; sospettarono che
quell'atto le costituisse per avventura sue schiave; si levarono a tumulto; e
quando poi un antistite nestoriano, giunto loro nuovamente dalla Siria, fu
messo a morte dal Santo Officio di Goa, si ritrassero nei loro monti, e ruppero
ogni commercio coi Portoghesi. Pochi anni sono, il residente inglese Munro udì
parlare di quell'ignota tribù, ne chiese contezza, riaperse le sue
communicazioni con Antiochia, e instituì per essa una scuola a Travancore. -
Era il solo ramo dell'arbore cristiano che avesse germinato su la popolosa
terra di Brama.16
Il missionario
Roberto de' Nobili, vedendo qual funesto effetto quei modi dei
Portoghesi avessero avuto sui popoli, e quale odio pesasse sul nome dei
«Pranghi», pensò che convenisse ai missionarii dissimulare quell'aborrita
origine, e assumere le apparenze di pii bramini venuti dal settentrione
indiano. «Ma fu forza allora uniformarsi a tutti i loro costumi, sedere con
gambe rannicchiate, mangiare sul suolo sopra foglie di palma, nulla toccare
colla sinistra, fare un solo e parco pasto di frutti, legumi e riso bollito in
aqua, astenersi da carni, ova, pesce, vino e perfino dal pane, per non farsi
danno nel severo giudicio dei popoli; parlare le lingue dei luoghi, dimorare in
capanne d'argilla cruda, riarsa dal sole, penetrata dalle piogge, colla sola
supellettile di tre o quattro vasi, nell'uno dei quali celare i sacri arnesi;
vestirsi di tela anche sotto il soffio dei venti della montagna o dei piovosi
monsoni. «Vedendomi camminare a disagio su la terra infocata» dice un
missionario «un signore indiano dimandò ad uno de' miei che avessi; gli rispose
ch'ero un novello penitente («sanga»), e non reggevo a calcare con piè nudo
quelle cocenti arene. Egli n'ebbe pietà; e accostandosi mi disse: 'Signore,
concedi ch'io ti sollevi dalla pena che hai'. E mi diede il cavallo del suo
servo.» - Quando si aveva a varcare un fiume, la guida accozzava alcuni pezzi
di legno, sui quali mi traeva a nuoto su l'altra riva: altre volte io dovevo
tenermi abbracciato a un vaso grande di terra, nel quale introducevo un poco
d'acqua per zavorra. Ma il più grave pericolo era sempre quello di esser
riconosciuto per Pranghi.»
Se non che,
tutte queste pie fatiche oramai da tre secoli si spendono indarno; i cristiani
non sono pure la centesima parte del popolo indiano; e l'autore che seguiamo,
conchiude con dolore: «Non solo il cristianesimo non acquistò terreno, ché anzi
perde ogni giorno i primi acquisti; né il futuro promette più felici eventi; e
i missionarii stessi che sacrificano a questa impresa la vita, sono quelli che
ne mostrano meno speranza.17 La società indiana» egli
prosegue «è più profondamente pia che non fu la romana e la greca, presso le
quali li atti del culto si racchiudevano nel recinto del tempio; e il pensiero
viveva ben altrove che a piè dell'altare. Ma per il popolo indo non v'ha
istante che non sia consacrato da qualche prece o qualche santa pratica; non
atto della vita che non sia atto di culto e non sia contrassegnato dalli usi
della casta, e si possa compiere senza confessare la casta, cioè la dottrina
fondamentale di Brama; non v'è punto del tempo o dello spazio in cui la società
non sia premunita contro ogni influsso straniero. La casta è irrevocabilmente
perduta per chi lasci intravvedere ch'egli segue un'altra fede. E quella è una
pena tremenda, più tremenda che non sia nelle nostre leggi il bollo
dell'infamia e la morte civile; ella lo rende immantinente un oggetto
d'abominio e di schifo a coloro che pur dianzi gli erano fratelli. - Li
apostoli» egli prosegue «apparvero all'occidente come esseri sovrumani, che non
curando l'oro riducevano con assidue mortificazioni la vita a un lungo
supplicio, impavidi al cospetto dei popoli e dei loro tiranni, sigillando col
sangue la parola. Ma l'India, per le abnegazioni, è una Tebaide; i missionarii
non possono colpire quelle imaginazioni gia troppo logore; è lo stesso martirio
senza la stessa corona. - In Europa la mortificazione si ferma a quel punto in
cui si fa evidente il trionfo dello spirito. Ma nell'India ella è una vera
passione, che si pasce di sé medesima, senz'altro fine, senz'altro oggetto, a
guisa di solingo delirio. Presso di noi il meraviglioso si circoscrive a
provare la divinità della missione; ma quei popoli non conoscono proporzione né
limite, onde ebbe a dire il missionario Dubois: «S'io parlava loro di miracoli,
essi vi vedevano solamente un fatto ordinario». - Il missionario cristiano
troverà a prima giunta benigna accoglienza; il bramino gli paleserà d'avere le
più sublimi idee su l'unità e l'eternità dell'ente creatore, conservatore,
rinnovatore; su la caduta dell'uomo e la sua salvazione; sul merito della
penitenza, su la virtù purificatrice delle aque che cancellano i peccati, sul
sacro riso che si distribuisce alla mensa del «prajadam», sul sacrificio
dell'«ekiam» in cui s'invoca un salvatore. Egli senza ritrosia potrà prestarsi
all'abluzione del battesimo, ma purché uomo d'altra non abbia toccato quelle
aque; egli potrà promettere d'accostarsi alla sacra mensa; ma purché uomo di
altra casta non mangi seco. Egli è dunque ancora in fondo all'anima un membro
di Brama; la sua conversione è un sogno. - Il solo paria non teme il contatto
altrui, egli solo può contaminare senz'essere contaminato.»18
E qui pare a
noi che venga a scoprirsi uno dei più profondi e riposti aspetti di questo
grave argomento: l'intimo contatto fra l'Europa e l'India non può cominciare
dalle alte caste. È forza che quelle antichissime e nobilissime fra le
umane famiglie, sotto il peso della conquista e fra le brutture della povertà,
si confondano colle misere plebi di cui per tanti secoli hanno superbamente
disdegnato il consorzio, e nel contatto quotidiano disimparino il vicendevole
aborrimento, e nel seno dell'umiliazione apprendano il principio fraterno
dell'umanità. - L'uomo isolato è una cera atta ad assumere ogni forma; il
principio determinante è la società; le condizioni della società sono le fonti
del bene e del male. Quando i vincoli sono tali che ne può venire solo il male,
solo ignoranza, debolezza, iniquità, primo principio del bene è la dissoluzione
dei vincoli antichi, comunque misero sia lo stato d'una società nell'atto che
si va disciogliendo in una moltitudine confusa.
Nel secolo XVI
varii Inglesi si spinsero con navi armate sino ai lontani mari delle Molucche e
delle Filippine, piuttosto corseggiando che trafficando, chiamati perciò mercanti
venturieri. Altri meno facultosi o meno audaci si unirono in Compagnia
(1595), svolgendo senza avvedersi il nuovo e poderoso principio
dell'associazione. Avendo soscritto per due millioni di franchi divisi in cento
azioni ineguali, ottennero un privilegio esclusivo di navigare al di là dello
Stretto Magellanico e del Capo. Fatta principale loro stazione a Surate,
aiutarono i Persiani a cacciare i Portoghesi da Ormuz (1623); e in onta alla
fiera opposizione delli Olandesi, in pochi anni posero varie stazioni mercantili
sul basso Gange, su le riviere del Coromandel, su le isole della Sunda. Il
chirurgo Hamilton si valse del sommo favore in cui era salito alla corte del
Mogol per impetrare a que' suoi nazionali il riscatto da ogni gabella, pel
tenue tributo annuo di tremila rupie (fiorini). Il re Carlo I concesse poi loro
i diritti veramente sovrani di far guerra e pace con tutte le genti non
cristiane, e d'arrestare e ricondurre in Europa ogni suddito britannico che
ponesse piede in India senza loro licenza; e donò loro inoltre l'isoletta di
Bombay, che una infante di Portogallo avevagli recata in dote. Per tal guisa
erano poste le fondamenta dei tre governi di Calcutta, Madras e Bombay.
Se non che,
poco di poi avendo essi preso a cozzare col «Nabob» o viceré del Bengala, non
solo furono cacciati dalle rive del Gange; ma il sultano Aurengzeb comandò di
cacciarli da tutti i suoi dominii. Due loro inviati, Wildon e Navar, vennero
tosto a prostrarsi appiè del suo trono, con una fune intorno alle mani e alla
cintura, confessando d'aver peccato e implorando perdono. - Certo
l'irresistibile Mogolo, nell'atto che compartiva loro la sua clemenza, non
pensava che fra cento anni i supplichevoli stranieri avrebbero signoreggiato
con vittoriose armi tutti i suoi regni.
Fin da quel
tempo i direttori della Compagnia mostrarono qualche ambizione di trapassare
dal commercio ai conquisti di terre. - «L'incremento della nostra rendita
territoriale» essi scrivevano «deve essere oggetto delle nostre cure al pari
del commercio. Senza di essa non saremmo più che un numero più o meno grande di
mercanti.» Colsero essi l'occasione che li abitanti si levarono a tumulto
contro il «nabob», e affettando di parteggiare per lui, gli chiesero tosto
licenza di premunirsi contro la vendetta dei ribelli. E inalzarono una fortezza
a Calcutta sul basso Gange; e intorno a quel povero villaggio impetrarono poi
dal figlio d'Aurengzeb una lista di terra, lunga un miglio e larga tre, primo
loro dominio, sul quale fondarono una città che ora annovera seicento mila
abitanti.
Intanto la
Camera dei Communi, che aveva già trasferito a Guglielmo d'Orange l'antica
corona delli Stuardi, e temeva che le ricchezze della Compagnia divenissero
strumento di regali influenze, cominciò a mormorare contro quel privilegio
d'esclusivo commercio, richiamandosi al naturale diritto d'ogni uomo di
comprare e vendere non meno in India che in Europa. All'ombra di quella
opposizione venne formandosi un'altra Compagnia, che tentò soppiantare e
diffamare la primogenita; ma il vicendevole interesse le riunì poco stante in
una sola, sotto nuovo privilegio (1708). Tutta quella prima età della
Compagnia, benché tratto tratto ella gettasse qualche scintilla bellicosa, fu
d'indole mercantile. Le tre presidenze erano veramente tre case di traffico; i
suoi agenti si dividevano in allievi o scrivani («writers»), che cominciando la
carriera a sedici anni incirca, dopo cinque anni di servigio divenivano fattori
(«factors»), e dopo tre anni mercanti («merchants»); fra i mercanti anziani si
sceglievano i tre presidenti e i loro consiglieri. Le milizie, che scortavano
in terra e in mare i convogli e i depositi, erano in parte d'Europei, in parte
di «topassi» ossia misticci portoghesi, in parte di «sepoi» nativi, che
portando dapprima sciabola e scudo, e seguendo capitani di loro nazione, a poco
a poco si avvezzarono alla disciplina e alle armi delli Europei. Ma tutta la
forza dell'istituzione era nel rigido legame con cui fin da principio tutti li
impiegati furono avvinti alla Compagnia, sottoponendosi con giuramento e grossa
sicurtà e gravi multe a compiere fedelmente ogni comando, a non tollerar cosa
che pregiudicasse alla società, a recarsi dovunque fosse ingiunto. Ai soli
giurati era permesso metter piedi in India, esclusi perfino i missionarii della
religione anglicana. Era poca gente, e sparsa a smisurate distanze, ma retta da
una sola mente e da una sola volontà; principio inestimabile di potenza fra una
popolazione tutta smembrata da insanabili avversioni.
Il francese
Labourdonnais aveva tolto alli Inglesi Madras; e sembrava insultare al sovrano
mogolo, che aveva concesso quel porto alli Inglesi, come aveva concesso ai
Francesi Pondichéry. Venne adunque il figlio del «nabob» del Carnatico con
diecimila uomini a scacciare da Madras li indocili stranieri; ma quattrocento
Francesi lo sorpresero nel suo campo, lo incalzarono, lo disfecero. - La pace
d'Aquisgrana rese bensì Madras alli Inglesi (1749); ma la debolezza delle armi
mogole era svelata; le milizie europee, trapassate colla pace al soldo dei
principi indigeni, divennero formidabile strumento delle loro discordie, e
sotto le loro insegne continuarono a contendersi il dominio delle imbelli
provincie. Il francese Dupleix, governatore di Pondichéry, fu il primo ad
avvedersi ch'era quella una rapida via di conquista. Una mano francese sul
campo d'Amboor, rovesciò morto dal suo elefante il vicerè del Deccan; il suo
rivale vittorioso creò lo stesso Dupleix «nabob» del Carnatico, regione eguale
in ampiezza alla Francia, e gli conferì il diritto di riscuotervi tutti i
tributi. Il francese Bussy divenne arbitro alla corte del Nizam; viaggiava
sopra un elefante fastosamente addobbato; accoglieva i principi indiani sotto
ampia tenda accerchiata di guardie come una dimora di sultano; alimentava le
sue milizie col reddito di quattro provincie. Ma sotto il governo del vanitoso
Lally tutto quell'improviso edificio si sfasciò. Lally richiamò Bussy dal
Deccan; perdette in pochi mesi tutti i porti e le fortezze; e finalmente
tornato in Francia, espiò li errori suoi sotto la scure del carnefice (1761).
Restarono però ancora sparsi per la penisola varii conduttieri francesi, fra i
quali Boigne presso i Maratti, Raymond presso il Nizam; e Perron potentissimo
presso lo stesso Gran Mogolo, che gli diede in feudale assegno tutta la regione
fra il Gange e la Jumna. Ma quei venturieri non erano collegati fra loro da una
mano di ferro, come i satelliti della Compagnia inglese.
Tutta la conquista
britannica fu l'opera di soli ottantotto anni.19 Essa cominciò il 20
dicembre 1757 colla cessione del circondario di Calcutta (i 24 «pergunnahs»).
Il primo conquistatore fu Clive, fattosi soldato volontario da scrivano ch'egli
era alla sua venuta. Colla vittoria di Plassey egli procacciò alla Compagnia
nei tre vasti regni di Bengala, Orissa e Behar la «divania», cioè il diritto di
riscuotere il tributo dalli agricultori; il che involgeva tutto l'esercizio di
quella barbarica sovranità sopra 40 millioni di popolo (1765).
Warren-Hastings, altro figlio della fortuna, vi aggiunse il
regno di Benares, prisca sede della sapienza braminica; e diede forma stabile
al governo. Ma in Inghilterra quelle repentine ed ampie conquiste parvero
odiose violenze, minaccevoli alle patrie libertà per le corruttrici influenze
che introducevano, per il repentino disequilibrio nei poteri dello Stato, per
quell'innaturale innesto d'una autorità più che regia in una ditta mercantile;
laonde Clive e Warren-Hastings furono tratti
vituperosamente in giudicio, bersagli alle invettive d'ardenti accusatori. Pitt
e Fox, in tutto discordi, consentirono solo in questo, d'interdire ai
governatori dell'India ogni ostilità non solo, ma perfino ogni novella
alleanza. Il governo venne affidato a lord Cornwallis, che il signorile suo
stato e i mansueti costumi rendevano alieno da ogni avaro pensamento.
Ma egli pure, trovatosi a fronte di Tippoo, successore del valoroso Hyder sul
trono di Mysore, fu travolto nel vortice della conquista, finì col togliergli
gran parte del vasto suo regno (1792). Sotto lord Wellesley si riaccese la
guerra con Tippoo, nuovo Annibale che indarno cercava nemici all'Inghilterra in
Asia e in Europa. Egli sollecitava i soccorsi del conduttore delli Afgani,
Zemaoun, scrivendogli: «Piaccia a Dio che la nostra sciabola sgombri l'India da
codeste immonde tribù»; e nel tempo stesso chiamava sorella la republica
francese nemica dell'Inghilterra; s'intitolava il cittadino sultano Tippoo;
inarborava inanzi alla sua regia il tricolore e il berretto; invocava le armi
di Bonaparte, che gli scrisse dall'Egitto: «Io vengo sul Mar Rosso con un
esercito innumerevole, invincibile; accorro impaziente di liberarti dalla
ferrea mano dell'Inghilterra». Ma la promessa fu indarno; la Francia assorta in
una lutta mortale obliò quella remota penisola, dove un pugno d'uomini avrebbe
bastato a farsi centro di formidabili resistenze, e dove il suo nome sonava
ancora nella memoria dei popoli. Wellesley fece espugnare Seringapatam; il
sultano lasciò la vita su la breccia della sua città; Wellesley sgominò la
federazione dei Maratti (1803), che spargeva le rapaci sue cavallerie per tutta
la penisola, e che nella decadenza dei Maomettani pareva promettere all'India
un nuovo regno dei prischi suoi figli. Sotto Wellesley prevalse il principio
primamente additato da Dupleix di collocar milizie europee al soldo dei
principi indigeni, i quali divisi da odii funesti, accerchiati di ribellioni,
speravano abbagliare i popoli col fulgore di quelle armi straniere, e
prodigavano ai loro conduttieri in via di stipendio i tributi e i governi delle
provincie, paghi d'assicurarsi una vita impune, fra le atrocità dei patiboli e
le lascivie dei serragli. I popoli, oppressi in nome della legge, depredati
dalle orde predabonde dei Maratti, dei Pindarri, dei Gurchi, dei Seichi, dei
Birmani, delli Afgani, invocavano una mano forte che difendesse dalle fiamme le
paglie dei loro tugurii, e concedesse loro di languire in famelica pace. Sotto
lord Minto i bellicosi Rageputi, la più nobile delle stirpi indiane, erano a
tale estremo di disperazione, che protestavano «esservi sempre stato nell'India
un potere supremo, al quale si sottomettevano volontariamente i minori Stati
per avere un patrocinio; e la Gran-Bretagna, come quella
ch'erasi posta in luogo e stato dell'antica potenza tutelare, esser tenuta a
proteggere il debole e il pacifico». - «Li Inglesi sbarcando in India» dice il
barone di Penhoën «vedevano un solo interesse, il commercio; un sol fine, la
pace. Ma guerra nasce da guerra, conquista s'aggiunge a conquista. Appena
varcato il circondario di Calcutta e di Madras, la suprema cura loro fu quella
di non abbracciare troppo vasto dominio; eppure una irresistibil forza li
spinse, li trasse, li rapì oltre il prefisso confine . . . i principi
dell'Oriente coll'indole loro improvida e puerile, non potevano senza
infrangersi cozzare col duro e pertinace Britanno. Erano come cristallo che
urta nel bronzo.»20
Istrumenti alla
conquista furono li stessi «sepoi», o soldati indiani di qualunque culto,
bramisti, buddisti, parsi, seichi, maomettani, israeliti, ma sempre condutti e
disciplinati da ufficiali britanni. Primo ordinatore di quelle milizie fu
l'impiegato civile Haliburton, nel tempo che Labourdonnais assediava Madras. I
sepoi sono uomini obedienti, fedeli, rare volte disertori, infaticabili in
cammino, mirabilmente sobrii, taciturni; robusti della persona in alcune caste,
ma più spesso esili per effetto del vivere troppo parco e del frequente
digiuno; rassegnati sotto la grandine delle artiglierie, ma poco atti alle
battaglie di mano; valorosi, se i capitani sanno cattivare la loro fiducia;
caparbii e indomiti, se il comando militare infrange e insulta le tradizioni
della casta; e ciò che torna a lode loro e di tutta la nazione, in mezzo ai
reggimenti inglesi intemperanti e violenti e disciplinati a forza di battiture,
essi sono per solenne legge (1833) affatto esenti d'ogni simil pena. Sono
arrolati per volontario patto; e hanno così largo stipendio che ogni fante
tiene un valletto, ogni cavaliere due; e tale è in quelli eserciti la
moltitudine dei cavalli, de' buoi da carico, dei cameli, delli elefanti, delle
lettighe, delli uomini, delle donne e dei fanciulli, che rammenta li antichi
eserciti di Serse. Presso ogni accampamento si aduna un operoso «bazar», città
vagante ove il soldato trova ogni sorta d'artefici e di venditori. Dapprima
ebbero proprii conduttieri, addestrati e diretti da qualche officiale che
avesse più inclinazione per loro e maggior pratica della loro lingua e dei loro
usi. Nella prima riforma (1766) ogni migliaio d'uomini ebbe tre officiali
europei; e l'indigeno, fosse anche di stirpe regia, non poté più oltrepassare
il grado di capitano. Nella seconda riforma (1782) si posero tre europei per
ogni compagnia; e il capitano indigeno («subahdar») discese quasi alla
condizione di sottofficiale. Nella terza riforma (1796) ogni compagnia di sepoi
ebbe tanti officiali europei, quanti ne ha un reggimento inglese; e li
officiali indigeni, ridutti al solo avanzamento d'anzianità, divennero meri
veterani, e si divisero sempre più da ogni domestichezza coi loro comandanti.
Nella stessa proporzione si ammorzarono in essi li spiriti avventurosi e
cavallereschi; e si resero più rari fra loro i giovani delle caste più
generose. Le fanterie sono per massimo numero di bramisti; la cavalleria
regolare è piuttosto di culto maomettano, ma di sangue indiano. I musulmani di
vera stirpe turca, araba o afgana hanno più caro di servire i principi di loro
fede.
Frattanto in
questo esercito indo-britannico duecento mila uomini vanno
acquistando l'uso delle armi europee; e in mezzo al sovvertimento delle antiche
fortune e delle famiglie bellicose, stendono sopra tutta la superficie
dell'India il primo tessuto d'una nuova società e d'una futura potenza. Se le
plebi, come men timorose di rinegare la casta, sono men lontane dalle credenze
europee, esse per la minore loro alterezza sono anche più vicine ad
appropriarsi l'arte della nostra milizia. Certo, i beni dell'opinione e i
frutti della forza possono svolgersi solo nel corso delle generazioni; ma
intanto è un aspetto sotto il quale ci fa meraviglia che li scrittori non
abbiano peranco considerata codesta istituzione. Tuttavia pare che né per lungo
tempo al soldato indigeno basterà l'animo d'affrontare sul campo i temuti
Europei, né per lungo tempo gliene potrà venire il pensiero; poiché quei
frammenti di caste avverse e di nemiche religioni non possono così presto
fondersi in qualsiasi unità di fini e di speranze.
Il conte Warren
nell'interessante racconto che fa d'una spedizione, in cui prese parte contro
un piccolo principe del Malabar, così si esprime: «Tutti gli officiali miei
commilitoni erano adunati sotto la suntuosa tenda della mensa commune; una
mezza dozzina di servi poneva, attorno al tronco che sosteneva il padiglione,
le tavole di mogano per quattordici convitati. Una tovaglia damascata ne velò
la lucida superficie, che si coperse di bellissime argenterie, di coltelli di
Londra, di porcellane di Birmingham, di preziosi cristalli, di tutti i vini
europei, di candelabri di massiccio argento. Sopra altre tavole, nell'altra
parte della tenda che era disposta a sala, erano sparsi come in gabinetto di
lettura i giornali di Londra, le riviste, una carta dell'India, una carta del
Mysore. A poca distanza, due tende brune vampeggiavano come due fucine; i
cucinieri andavano, venivano, affaccendati, grondanti sudore.Alle sette della
sera la tenda era splendidamente illuminata, e sedevamo a un pranzo di tre
portate, di poche vivande, ma degne d'un Lucullo. Un elefante era destinato a
portare la tenda commune, quattro cameli trasportavano la cucina, l'apparato e
i vini». - Erano allora in un'orrida foresta, alla vigilia d'un combattimento.
Alla mensa stessa si lesse l'ordine del giorno per il dimani, e il nome delli
officiali che dovevano guidare l'avanguardia all'assalto d'una disastrosa gola.
- «Ci scambiammo attraverso alla mensa affettuose strette di mano, con quel
voto d'amicizia, Dio vi salvi. Poi ciascuno si accostò al più diletto
amico, e i discorsi si volsero in sommesso sussurro. - Verso le nove, un
brindisi all'onore della bandiera; e dopo brevi parole del colonnello, che si
rallegrava della fausta occasione offerta al nostro valore, tutti ci
ritirammo.»
Ben diversa è
la scena che offrono nel loro campo i «sepoi». Quivi si vedono talora tre o
quattro mila capanne fatte di stuoie sostenute con pali e schierate in bella
ordinanza. Ogni soldato ha la sua capanna, ha per letto una rete tesa sopra un
telaio, un vaso di rame per le abluzioni, una cesta per le vestimenta e due o
tre piattelli di terra. La milizia è il solo stato ove tutte le caste possano
convivere senza sacrilegio; il paria può stare a lato del più vanitoso bramino;
epperò l'arrolamento è un favore, e il congedo una pena; e sotto le armi,
musulmani e bramisti vivono senz'odii. Ma non hanno socievolezza; non vanno
insieme a diporto come i soldati europei; nessuna amicizia tra quelli pure
della medesima casta; nessun sollazzo che abbrevii tra compagni la noia del
giorno. Ogni uomo sta nel suo tugurio; mangia e fuma solitario; esce soltanto
la mattina e la sera per fare le sue devozioni. Passate le ore d'esercizio,
cioè le sette della matina, nessuno s'avvedrebbe d'essere in un campo di
soldati; ognuno sveste l'uniforme, e va, come l'altra plebe, nudo le gambe e il
busto, colla callotta indiana in capo. - Se l'unione è la forza, e l'arte della
potenza è l'arte della concordia, ben si potrebbe ad insegna della nazione
indiana e della sua debolezza additare l'appartato tugurio e il piattello di
terra; e ad insegna dell'unità e potenza britannica, il fraterno e vasto
padiglione, e l'elefante che porta sul dorso la ponderosa e lucida mensa.
L'esercito
indo-britannico nel 1830 contava solo 224 mila uomini,
numero che in Europa appena parrebbe proporzionato ad un regno dieci volte
minore,21 non ad un imperio di 158 millioni, come l'indostanico, pari
in popolazione all'Inghilterra, alla Francia, all'Austria, alla Russia insieme
unite. Fra questi soldati, li Europei non erano più di trentamila; e nel 1842
la disastrosa guerra delli Afgani ve ne chiamò altri diecisettemila!
La spesa tocca
240 millioni, ch'è poco men della metà del reddito territoriale. Ciò
avviene perché le paghe sono assai maggiori che in Europa, e in tal misura, che
dopo pochi anni di milizia sotto quel cielo insalubre, ognuno possa mettere in
serbo quanto basti a rendere tranquillo e agiato il resto della vita.22
La superficie
dell'India oltrepassa un millione di miglia inglesi (2,814,000 chil. q.);
sarebbe più di cinque volte la Francia, più di dieci volte l'Italia,
centotrenta volte la Lombardia.23 Amministrata come la
Francia e come la Lombardia, le sue finanze dovrebbero pertanto versare cinque
mila millioni di franchi. Ora, l'amministrazione britannica colle più faticose
esazioni appena ne ritrae la decima parte. Nel triennio 1840-42 n'ebbe 531
millioni di franchi, compresi i tributi dei principi vassalli. È vero bensì che
questi ne ricavano altre imposte per sé medesimi; ma posseggono solo un terzo
della popolazione, e le terre più montuose e meno feconde.
Eppure non solo
in India le famiglie opulente sono assai rare, ma non ostante il cielo mite e i
minori bisogni e la sobrietà naturale dei popoli e le religiose astinenze, il
povero in India è poverissimo. Egli vive seminudo in un tugurio, e ogni estate
rapisce al suo campo il riso immaturo per cavarsi la fame, appunto come
l'Irlandese, che vive parimenti in un tugurio, e rapisce allo squallido suo
campo le immature patate. Essendo i due paesi alli opposti estremi d'oriente e
occidente, di mezzodì e settentrione, con nessuna particolare communanza di
stirpe o di religione, e solamente amministrati dalla stessa mano, bisogna pure
inferirne che la nazione britannica, la prima di tutte in molte cose, non sia
per certo la prima nell'arte della pubblica amministrazione.
È questo un
effetto naturale al principio del governo britannico, il quale si risolve in
una continua transazione d'interessi. Il legislatore vi è sempre
chiamato a parlare come uomo di parte; il possidente propone la legge
del pane caro, e il manifattore propone quella del buon mercato; se quegli non
si crede in debito di provedere allo sconcerto delle manifatture, questi non ha
incarico di riparare alla ruina delli agricultori. I deliberanti non
accondiscendono alla ragione, ma cedono alla necessità, quando l'avversa
potenza si è fatta imperiosa e irresistibile. Il punto di transazione si
determina a forza di voti; tutti li interessi che non hanno voto, che non hanno
rappresentante, rimangono fuori della legge. Quindi un'estrema ineguaglianza di
sorti, poiché non v'è mano conciliatrice e paterna chiamata a contemperarle.
L'agricultura
indiana non ha capitali; tutte le sue scorte consistono - nelle sementi, - in
pochi buoi destinati all'aratro e ai trasporti, ed esclusi dal popolare
alimento, - e in alcuni canali d'irrigazione e stagni artificiali, costruiti
questi in gran parte sotto il dominio musulmano, e ora negletti e ruinosi. Il
contadino non può avvicendare le coltivazioni; e un'agricultura che potrebbe
abbracciare centinaia di preziose produzioni, e barattarle colle grosse derrate
delli altri climi, è costretta a sopperire alla diretta sussistenza del
contadino, e perciò a sfruttare il suolo colla perpetua risaia. La coltivazione
delli aromi, delle tinture, dei coloniali, è ristretta a scarsa misura; quella
dell'indigo è sostenuta da capitali stranieri, che ne hanno tutto il rischio e
il vantaggio; quelle dell'opio e del tabacco sono privative della Compagnia. E
più d'un terzo della terra è ancora ingombro di palustri boscaglie («jungles»),
ricovero di tigri e serpenti.
Abbiamo veduto
come sotto il regime braminico il contadino dovesse contribuire un quarto
del produtto lordo, ossia quasi tutto ciò che gli rimaneva, detratte le spese
di coltivazione e quelle d'un povero alimento. La conquista musulmana conservò
il funesto principio ed esagerò la misura fino alla metà; e quindi
emunse ogni avanzo che potesse prender forma di capitale, e aiutare la feracità
del terreno. L'amministrazione britannica cominciò sotto Clive coll'esercizio
dell'esattoria musulmana del Bengala. La riscossione dei tributi costituì
dunque il primo impianto di quel governo; e tutto il successivo sviluppo prese
forma da quell'infausto germe. Nessuna providenza fu presa per fomentare la
produzione, e dare aumento al capitale e forza all'agricultore; tutto mirò a
semplificare e sollecitare l'esazione. E per rimovere ogni ostacolo, l'esattore
rimase anche il giudice e il protettore di quelli stessi che doveva escutere e
spesso espropriare. È il principio medesimo che divorò l'imperio romano e
l'antica civiltà italica.24 Il numero dei magistrati è sproporzionato
alla vastità del paese e alla moltitudine dei popoli; un solo straniero, per lo
più inesperto per età, ignaro per lingua, deve sedere amministratore e giudice
d'un millione di uomini, sopra una superficie di tre o quattro mila miglia. La
legge mirò piuttosto a procacciare al magistrato l'occasione di raccogliere un
patrimonio che non a fornire d'un magistrato il paese. Questa misera ansietà di
pronto lucro privato è il principio che isterilisce in sì ricco paese le
publiche finanze; e fa sì che si estorcano a stento cinquecento millioni da una
moltitudine miserabile, quando si potrebbe mieterne cinque mila da una
prosperevol nazione. Un altro principio più pernicioso, e commune a tutta
l'Asia, è quello di commisurare l'imposta al produtto, dimodoché ogni sforzo
d'industria trae con sé la sua multa. Il riparo a questo male sta nel principio
dello stabile censimento lombardo, che assicura una comparativa esenzione ad
ogni ulterior fatto della privata attività.25 Ma ogni più sottile e
saggio avvedimento tornerà sempre inutile là dove manca all'agricultura il
primo suo fondamento, cioè il diritto di piena e libera proprietà, e dove una
finanza impaziente assorbe il capitale mano mano che si va formando, e non ne
attende con savia pazienza l'indiretto riflusso.
Nell'angusto
confine, che omai ci avvediamo d'aver superato, non si può tessere tutta la
dolorosa istoria della ruina dei «zemindari» e delle altre più doviziose
famiglie dell'India. - In ottant'anni tuttociò ch'era al disopra del povero
contadino andò in continuo decadimento. I gradi della milizia si limitarono a
quello di capitano o ben piuttosto di sergente; le più splendide corti, quella
fra tutte splendidissima del Gran Mogol, si ridussero alle tenebre e al
silenzio; le caste sacerdotali e armigere giaciono nella polve della povertà,
come pietre d'un edificio atterrato. Dietro alle famiglie principesche vennero
meno tutte le arti che sopperivano al fasto della famiglie e alla magnificenza
delle città, allo splendore dei templi e dei sacrificii. Il rozzo telaio,
ch'era passato da padre in figlio per centinaia d'anni, non poté resistere alla
rivale industria d'un popolo nuovo, che con improvida avidità dettò le tariffe
a diretto vantaggio d'un'isola remota. Dove l'agricultura langue, e l'industria
muore, e le famiglie doviziose discendono nella voragine della miseria, il
commercio si estingue; le popolazioni non conoscono altre derrate che quelle
del più vicino campo. E infatti tutta l'esportazione di cento millioni di
popolo nel 1835 fu di soli 56 millioni di franchi. Trent'anni addietro, quando
lo Stato indo-britannico contava appena 37 millioni di
popolo, l'esporatzione era stata di 62 millioni. E questo decremento è più
grave nelle manifatture, le quali allora si esportarono pel valsente di 30
millioni, mentre ora una popolazione tre volte maggiore ne esporta solo per 11
millioni.26 Né con ciò l'industria britannica si assicurò un verace
lucro; poiché il suddito indiano nella sua povertà non compra merci inglesi se
non per 60 millioni, ossia nell'esigua ragione di 60 centesimi per capo, mentre
il colono delle Antille è avventore del mercato inglese in ragione di cento e
più franchi per capo.
Quali sono i
prossimi destini dell'imperio indo-britannico? - A noi pare
che intorno a ciò li scrittori si divaghino troppo in vane congetture. Al tempo
di Warren-Hastings, quando l'imperio nasceva, già parlavasi
della sua caduta; e oggidì eziandio se ne parla; eppur si move; e sotto
i nostri occhi invase tutta la valle dell'Indo, come sotto li occhi dei nostri
padri invase tutta la valle del Gange. In questo medesimo istante, sta per
avviluppare quel valoroso e giovine popolo dei Seichi, che fu addestrato
all'arme dai veterani di Napoleone, come i Maratti lo erano dalli officiali
delli antichi Borboni; e quel popolo fu pur dianzi commilitone alli Inglesi
nella guerra delli Afgani, e nella semplice e bellicosa sua fede poteva
annunciarsi rinovatore dell'incadaverita nazione.27
Qual potenza
succederà nel dominio dell'India all'inglese? Cent'anni or sono, quando il
sagace Dupleix diveniva «nabob» del Carnatico, e il fastoso Bussy abbagliava la
corte di Hyderabad e diroccava le avite fortezze dei Poligari, e tutta la
penisola era piena d'armi francesi, e l'Inghilterra, per nulla presaga delli
imminenti suoi destini, lasciava l'impresa di darle un esercito e un imperio
allo scrivano Haliburton e allo scrivano Clive; nessuno avrebbe potuto
imaginare ciò che vediamo oggidì. - Li scrittori sciolgono il quesito sul
mappamondo, calcolando quale sia la nazione europea materialmente più vicina
all'India. Ma la nazione che frattanto regna nell'India è l'inglese, ch'è pur
di tutte la più lontana. Non è dunque una dimanda questa che si scioglie sul
mappamondo e a forza di compasso. Prima dell'Inghilterra il regno dell'India
pareva destinato alla Francia, e prima d'essa all'Olanda, e prima ancora al
Portogallo. E così la fortuna cieca andò cercando i suoi favoriti di lido in
lido, e sempre ben lontano dall'Asia; e forse un giorno potrebbe cercarli al di
là dell'Atlantico. Il dominio dell'India seguirà il dominio dei mari.
Tutti li
scrittori ripetono che i due colossi europei, il britannico e lo slavo, si
vanno sempre più avvicinando, che debbono un dì cozzare su l'altipiano
dell'Asia, e che già le produzioni delle due industrie si contendono li
appartati bazari di Chiva e Samarcanda. - Per ciò che riguarda un combattimento
fra le due industrie, esso sarebbe ancora troppo ineguale, e non è cosa da
ragionarsene per tutto questo secolo XIX. E per ciò che riguarda i continui
passi verso l'Oriente, noteremo solo che nel 1717 Bekewitch entrava con un
esercito in Chiva, mentre nel 1839 Perowski con dieci mila cameli, e coi
soldati in pelliccia e maschera di panno e occhiali di crine, rimase a mezza
via. Nel 1722 la Russia aveva un piede a mezzodì del Caspio, mentre oggidì
combatte ancora sul Caucaso. Al contrario li Inglesi in meno di cento anni
tramutarono tre piccole fattorie in un vastissimo imperio.
Pare che li
Inglesi debbano la prodigiosa loro conquista al semplice fatto, che, durante il
regno di Luigi XVI e nelle agitazioni che poi seguirono, essi rimasero
nell'India soli. La vittoria apparteneva sempre a un pugno d'Europei,
mentre un altro pugno d'Europei nelli opposti eserciti avrebbe ristabilito
l'equilibrio. Un più efficace strumento di conquiste fu la destrezza dei
residenti e l'arte di tessere alleanze colle corrotte e perverse corti indigene;
ed essa pure avrebbe potuto facilmente contrariarsi ed elidersi dall'arte
eguale d'altra qualsiasi potenza. Ora, questa pugna dell'arte coll'arte, se
mancò in India, non mancherà in Turchia, in Persia, in Afgania, in Bocaria.
Codeste regioni profondamente musulmane rappresentano in Asia ciò che sono la
Germania e la Francia in Europa, cioè nazioni stabilmente armate che frapposte
ai due colossi, nel conservare l'equilibrio della pace e della guerra,
difendono la propria libertà.
Le grandi
nazioni musulmane non sono una flessibile materia di conquista. Li Inglesi
sudano in Afgania e in Arabia, come i Francesi in Algeria, come i Russi in
Circassia e Chirghizia. Li Stati, dove l'islamismo è fede di popolo, sono ben
diversi da quelli dove esso tiranneggia popoli cristiani o bramisti, noncuranti
di mutazione e forse desiderosi. Attraverso a quella zona di genti bellicose e
sprezzatrici d'ogni cosa straniera, il passaggio, quando pure fosse facile ad
aprirsi, non sarebbe facile a tenersi con sicurezza aperto. Nessuno potrà
consigliare a un esercito russo di sprofondarsi nel mezzodì, lasciandosi alle
spalle quella colluvie di genti inospite, rette da incerti dominii, volubili
nelle alleanze, necessariamente nemiche di chi vince, inette forse a sostenere
un'ordinata battaglia, ma sempre redivive nella dispersione della sconfitta.
L'ardua impresa non è tanto quella di sorprendere una volta la via dell'India
con un veloce esercito, quanto di fondare una stabile base d'armi su le barbare
e alpestri sue frontiere, e una via larga e libera per tornarvi ogni anno, e
rinovellarvi gli eserciti esausti dal clima, e alimentarvi coll'oro e col ferro
un lungo combattimento, il combattimento delli Scipioni in Ispagna. Altro è
turbare il dominio dell'India all'Inghilterra, altro è collocarsi in suo luogo.
Ma il campo
della politica non può essere il nostro. Noi più che a questa fugace fortuna
delle conquiste, dobbiamo rivolgere i nostri pensieri all'interna istoria delle
umane stirpi, alle tenaci loro tradizioni, al lento cammino della civiltà, che nello
svolgersi serba sempre vestigio in ogni nazione della primitiva sua forma.
Il principio dell'intelligenza nazionale delli Indiani è nella dottrina dell'ente,
ossia nel panteismo; il suo principio religioso è la santificazione per mezzo
dei riti e delle penitenze; il suo principio sociale è la casta; il suo
principio amministrativo è un'agricultura per conto communale; l'individuo è
sempre assorbito nel vasto vortice di un'esistenza che non gli appartiene; egli
non è conscio a sé della sua libertà, quasi appena della sua volontà; nessun
moto spontaneo d'emancipazioni, nemmeno sotto l'urto della convivenza
straniera.
Qual è
l'effetto che la dominazione britannica apporterà in questo antico fondamento
della civiltà indiana? La Compagnia fin dal suo nascere represse l'immigrazione
del popolo britannico, contrariò perfino le imprese dei missionarii; essa vi fa
passare successivamente le sue generazioni di magistrati e di militari, che,
raccolta la concessa misura di peculio, ritornano pallidi ed esausti a
ruminarlo in seno alla fredda patria. La loro progenie non regge al clima; i
figli dei reggimenti cadono sul limitare della gioventù; le discendenze miste
si smarriscono nel mare della popolazione e nella prevalenza dei costumi
nativi. Poche migliaia d'Inglesi sempre rinovellate governano centocinquanta
millioni d'uomini quasi con mano invisibile; un uomo è il giudice d'un millione
di uomini. Se domani codesta mano misteriosa si contraesse, s'inaridisse,
ricadrebbero di nuovo i popoli sotto quelle vetustissime influenze che li
tennero servi per tante generazioni? oppure dal fondo delli animi si
svolgerebbe quel senso di libera volontà che noi crediamo ingenito ad ogni
umana natura? Ora tutto il giudicio sul merito del governo britannico
nell'India si risolve in questo: in quale stato lascerebbe egli il popolo
indiano? Lo tornerebbe nelle mani stesse che lo abbandonarono all'Inghilterra?
Lo tornerebbe in balia delle caste antiche? o d'una famiglia mogola o afgana? o
d'una potenza maritima? o d'una federazione di Maratti, o d'un'orda di ladroni
Pindarri? V'è uomo in Europa che possa far voto che risurga l'antico Stato
nell'isola di Ceilan? Sono pochi anni (1800) che l'ambasciatore inglese vide i
nobili di quella infelice terra baciar la polve, prosternati a piè del trono;
vide un vecchio ministro dalla bianca barba recare i comandi del re, camminando
lungo la parete, carpone come un cane; e nel 1814, quando le armi britanniche
atterrarono quel mostruoso potere, la sposa d'un ministro ribelle, madre di
cinque figli, fu condannata a vederseli decapitare inanzi, e a pestarne di sua
mano in un mortaio le recise teste. - Se sotto il dominio britannico il
panteismo e la casta e la schiavitù del serraglio e della communità dovessero
cedere alla libera convivenza, alla libera proprietà, alla scienza
esperimentale, se tanti millioni d'intelligenze dovessero aggregarsi finalmente
alla nobile federazione dell'umana dignità e spontaneità, chi potrebbe mai
dimandar conto all'Inghilterra d'un po' di stipendio lucrato da' suoi cadetti
nel decorso d'una sì benefica trasformazione? Ma l'Inghilterra, se da una parte
spegne i roghi delle vedove, ed estermina le scellerate bande dei Pindarri e
dei Fansigari, dall'altra essa rattiene i suoi missionarii, e protegge nei
collegi di Benares la trasmissione d'una scienza mendace, d'un'illimitata
rassegnazione, d'una morale avvelenata.
Tuttavia la
forza cieca delli avvenimenti può, contro il voto delli stessi dominatori,
preparare un altro corso d'opinioni e di fatti. Il germe dell'emancipazione
nell'India allignò da quel giorno che lo schiavo del bramino poté divenir
principe, e concedere al suo padrone d'essergli servo. Holkar e Scindiah,
valorosi capitani dei Maratti, erano di stirpe sudra, nati contadini e pastori,
e pare che ponessero diletto a umiliare le superbe discendenze dei Rageputi e
dei Poligari. La principessa Ahalia, che fu loro erede, annunciò per la prima
volta nell'India l'emancipazione del suo sesso; e regnò più colle mansuete sue
virtù che colle crudeli armi della sua gente. La divisione delle caste sarà
dunque perpetua, ora che l'opulenza e la povertà ne confondono in tante maniere
i destini? Perché mai da quella fonte stessa da cui li antichi Buddisti e
Giaini e i moderni Seichi trassero quelle ardenti opinioni con cui combattere
l'interdetto delle caste, non potranno scaturire altre più vittoriose dottrine,
le quali traggano i popoli dal reclusi ovili delle communi, e li colleghino in
una nazione fraterna, e infondano loro la coscienza della libera volontà e
della libera ragione? - Allora solamente la conquista britannica potrà essere
giudicata dal genere umano.
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