Dell'insurrezione
di Milano nel 1848 e della successiva guerra
AL
LETTORE ITALIANO
Italia
e Roma !
Tasso
Inviato dalli
amici, qualche giorno dopo la presa di Milano, a verificare in Parigi quali
speranze mai colà rimanessero alla tradita nostra causa, trovai quelli uomini
di Stato profondamente ignari delle cose nostre, e per la gravità delle
circostanze scusabilmente immemori d'ogni cosa lontana. E per li indefessi
maneggi delle corti di Torino e Vienna, li rinvenni imbevuti d'opinioni
insoffribilmente vituperose a' miei cittadini, e a tutta l'Italia.
D'altro non mi
rispondevano che delli eroici sforzi del re Carlo Alberto, stoltamente sventati
dalla discordia, viltà e perfidia nostra. Non aveva, a creder loro, la libertà
fra noi fondamento alcuno di popolo; la moltitudine era fra noi d'animo tanto
austriaco, che a stento l'esercito regio aveva potuto ridursi in salvamento, e
proteggere nell'ardua sua ritirata quei pochi gentiluomini, i quali nella
squisita educazione e nei lunghi viaggi avevano attinto qualche svogliata e
fioca aspirazione di libertà e nazionalità. Il restante popolo, affatto
lazzarone, attendeva solo il ritorno delli stranieri, per dare di piglio nelli
averi e nel sangue delli amici dell'indipendenza e di Carlo Alberto; aveva
incendiato i sobborghi di Milano; e se non era la saviezza e prontezza dei
generali austriaci a occupare la città immantinente dopo la partenza del re,
l'avrebbe arsa e saccheggiata, anche per suggestione dei republicani. Si
citavano li articoli della Allgemeine Zeitung , che parimenti
attestavano essere tutto il moto d'Italia raggiro di pochi nobili, di
pochi individui della razza bianca, la quale opprimeva e spolpava la razza
bruna, indigena delle campagne d'Italia, e costantemente e vanamente difesa
dalli amministratori austriaci!
Molti mi
predicavano, come avrebbero potuto fare a un Egiziano, che a conseguir
l'indipendenza era mestieri preparare lontanamente le cose; introdurre in
Italia li asili dell'infanzia, le casse di risparmio e le strade ferrate;
distogliere i contadini dal dolce far niente. In due o tre generazioni il
popolo poteva farsi maturo. E mi dissero parecchie cose che veramente
aveva già lette nei libri del conte Cesare Balbo, e del marchese Azelio e del
Dalpozzo.
Ragionamenti
di questa fatta mi si facevano da uomini d'ogni opinione, Cavaignac, Bastide,
Cintrat, Mignet, Thierry, Larochejacquelein, Drouin de Lhuys e cento altri di
cui non mi ricorda il nome. Chi mi palesò animo più propenso e ospitale, si fu
Lamartine; e meglio intendere le cose d'Italia mi parve Quinet. Ma il vero
senso di nazionale amistà, lucida coscienza dei principii universali della
prima rivoluzione francese, mi parve viver solo nei capi del popolo, nelli
uomini senza cariche e senza dovizie. E ad essi pure manca la notizia dei
fatti.
V'è nelle
menti delli stranieri un'Italia immaginaria, della quale i nostri oppressori si
giovarono sempre a distogliere dalle cose nostre i governi che più interesse
avrebbero alla nostra libertà. Noi scriviamo poco per noi; nulla per li altri.
I discorsi che
mi facevano, erano tanto strani, e alludevano a circostanze cotanto sfigurate e
capovolte, ch'era forza tacermi; poichè non poteva io rifar da capo, ogni
volta, e con ogni persona, tutta la tela delle emende, rettificazioni e
giustificazioni. E mi era molesto, e mi pareva indegno.
Mi fu detto di
scrivere una relazione delli ultimi fatti. Pensando che sarebbe riescita troppo
lunga a leggersi in manoscritto, e sarebbe tosto sommersa nell'archivio, la
feci a stampa. La scrissi in settembre; la publicai in ottobre; ma era lontano
dalli amici e dai testimonii; non aveva i documenti coi quali render precise
molte asserzioni, che la malafede delli avversarii avrebbe impugnate. Dei fatti
della guerra non poteva dire quasi nulla; poichè le notizie giornaliere date
dal governo provisorio e dallo stato-maggiore sì dell'uno che dell'altro
esercito, erano affatto mendaci e insulse; sicchè dal paragone non si poteva
ritrarre costrutto; erano d'ambo li opposti lati continue vittorie. Reduce in
Italia, ebbi diversi documenti a stampa e a penna, tutti li atti del governo
provisorio, varie confessioni fatte dai generali del re in parlamento, scritti
di lunga lena publicati da altri militari Ho potuto compiere parecchie lacune
intorno alla finanza, alla polizia, alla guerra, e sopratutto alla consegna
della città di Milano. Nel rifare il mio libro in italiano, molto aggiunsi,
nulla tolsi. E mi resi assai lunga e ingrata la fatica, perchè mi proposi
d'inserire per quanto poteva il testo letterale delle testimonianze, facendo
quasi un musaico, poco ameno certamente a scriversi e a leggersi. Ma pensai che
non fosse tempo ancora di scrivere l'istoria, ma sì di predisporre quasi un
processo. Poichè molti fatti giacciono ancora in profonda oscurità.
Se mi verranno
altri documenti e riempimenti, farò successive appendici. Sappiano coloro i
quali pongono mano alle cose d'Italia che il giudicio della nazione li aspetta.
Intanto il
ministerio democratico di Piemonte fa sequestrare il mio libro francese;
e per mia colpa non possono sperare che nemanco l'italiano abbia la sua
perdonanza. Infelici li eroi che temono l'istoria!
L'istoria non
è più proibita nemmeno in Austria!
Per mia parte,
io temo sì poco al mio libro il raffronto con quelli che si scrivono in Torino,
che li cerco avidamente; e li cito a lunghe pagine; e ben vorrei che il popolo
tutto li leggesse insieme col mio.
Italia,
31 gennaio 1849
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