I
Antecedenti fino al 1847
All'uopo di
chiarire da quali sentimenti movesse la nostra insurrezione, conviene adombrare
alcuni fatti, dei quali fu naturale e semplice conseguenza.
Nel 1814 la Francia era solamente vinta; l'Italia rimase conquistata. L'occupazione straniera in Francia
era un caso fortuito e transitorio; in Italia venne perpetuata dal congresso di
Vienna; ed oggidì ancora si decanta come un diritto dell'Austria e come una
condizione alla pace d'Europa. Una fazione retrograda sopravissuta a tutte le
glorie di Napoleone, accolse come una buona ventura l'invasione austriaca; vide
nelle armi straniere la salvezza d'ogni vieto pregiudicio; vi sperò perfino uno
strumento di dominio. Ignara delle alte ragioni di Stato, immemore della
dignità nazionale, ella sognò di tenersi gli Austriaci a modo d'una guardia di
svizzeri. Vedendo i loro battaglioni invadere le sue città, plaudiva dicendo:
ecco i nostri soldati; essi ci salveranno dalla rivoluzione.
Codesta
fazione pagò prodigamente d'essere protetta dall'esercito imperiale. Abbandono
senza riserva all'Austria il publico patrimonio; non patteggiò misura alcuna
all'esorbitanza delle imposte. Il denaro nostro fu trasportato con annua rapina
a Vienna; il tesoro imperiale potè ingoiarci a quest'ora due mila milioni. Così
lasciavasi svenare la patria dallo straniero, purchè difendesse la causa
dell'ignoranza.
A conservarsi
il regno, l'Austria doveva solo lasciare ai retrogradi l'illusione che i soldati
suoi non altro erano per loro che servi armati. Ma buon per noi che, al
contrario, si fece ella medesima sovvertitrice de' suoi popoli italiani.
Dimenticando che il nome imperiale discende da un'antica autorità
cosmopolitica, la quale permetteva ad ogni popolo di vivere nelle costumanze
de' suoi maggiori; e non risparmiando ne' sudditi suoi quei sensi d'onor
nazionale che lo spirito di parte non estingue del tutto mai, l'Austria non
volle esser altro in Italia che una potenza tedesca. Prese modi aspri e superbi;
vessò e umiliò gli stessi suoi seguaci. E ne venne il fatto mirabile ch'essi
finalmente intesero per la prima volta d'essere italiani. Nel 1814 avevano
demolita con giubilo quella nuova istituzione del regno d'Italia, il quale non
altro era agli intelletti loro che un edificio di ribellione e di empietà.
Avevano sperato di spegnere per sempre quel germe di nazionalità pensante e
armigera. E un governo ingrato e villano li conduceva in breve a farsi seguaci
e martiri d'una fede già da loro aborrita.
Ma se questo
nuovo principio entrava negli animi e se ne impadroniva, pur troppo a dargli
pronto effetto non vi era più l'esercito italiano.
Prima cura
degli Austriaci nel 1814 era stata quella d'isolare e disarmare la nostra milizia,
già oppressa dalla sventura di Napoleone, dal tradimento di Murat, dalla
debolezza di Beauharnais. L'esercito del regno d'Italia erasi fatto compagno di
gloria dell'esercito francese; ma l'assidua asprezza delle guerre vi aveva reso
ben rari i veterani; trentamila valorosi erano caduti in Catalogna e Valenza;
trentamila in Russia; trentamila in Sassonia. E tuttavia le sue reliquie,
raccolte in Mantova nel 1814, nulla avevano dimesso dell'usato valore. Ad onta
dei segreti accordi colla fazione retrograda, l'esercito degli alleati non potè
entrare in Milano se non quattro settimane dopo la presa di Parigi. Il che
torna a somma lode della milizia italiana, immolata pur sempre agli
avvolgimenti della politica. Se non che, quei soldati vennero tratti poco
stante in una falsa congiura, nella quale si era fatta loro sperare la
cooperazione dei Borboni, come bramosi di ristaurare la fortuna francese in
Italia. Quantunque il congresso di Vienna sedesse ancora, e le sorti nostre non
fossero ancora stabilite, epperò i nostri soldati non avessero giuramento
alcuno o dovere verso alcun principe, furono sottoposti a giudicio e a condanna
di ribelli. L'esercito fu disciolto; le sue reliquie disperse nei presidii
d'oltralpe; gli officiali per la maggior parte mandati in congedo; anzi molti,
per non prestare un giuramento a cui l'animo loro italiano ripugnava,
prefersero di rimanersi privi del grado e della pensione. L'Austria disfece il
nostro ministerio della guerra, lo stato-maggiore, l'artiglieria, il genio, i
collegii militari, le fonderie di cannoni, le fabbriche d'armi e di panni, e da
ultimo l'istituto topografico, tutti insomma gli elementi della milizia,
usurpandosi senza compenso un valsente di cento milioni in apparati di guerra e
marina.
Ma la ferita
più funesta fu per noi l'essersi tolto ai nostri soldati l'abito nazionale;
poichè l'uniforme austriaca rese odioso il tirocinio militare ad ogni giovine
che avesse senso di dignità. Epperò ad acquistarsi la perizia d'officiale
poterono d'allora in poi pervenire quasi solo quegli infelici che le famiglie
loro non potevano o non volevano riscattare dalla milizia. Nel che appare la
differenza che è tra l'indole francese e la tedesca; perocchè l'Austria ne
tolse l'esercito che la Francia ne aveva dato. Come questa ci aveva voluti e ci
vuole armati e forti così quella ci voleva e ci vorrebbe inermi e imbelli; e si
compiaceva di farci ad ogni volta riputar tali a tutta l'Europa.
E qui giova
additare una delle arti colle quali l'Austria ridusse all'ossequio e all'impotenza
le bellicose genti del suo dominio. Riserva ella ai soldati dell'arciducato
d'Austria e di quelle vicinanze l'esclusivo esercizio dell'artiglieria e di
tutte le più alte parti della pratica militare, rattenendo ciascuna nazione
nell'uso di qualche arme particolare, sicchè non mai possa avere in sè medesima
un tessuto intero d'esercito. Così li Ungari non hanno altra cavalleria che
d'ussari; i Polacchi, di lancieri; solo i paesi della lega germanica danno la
cavalleria greve. Il Tirolo non tiene cavalli, anzi non ha altro che fanti
leggeri; e le terre italiane, che hanno cinque milioni di popolo e
somministrano cinquantamila soldati, hanno un unico reggimento di cavalli.
Perchè mai la Casa d'Austria, obliate le vetuste tradizioni cesaree, s'era messa a seguir solo le esigenze
dell'unità militare? Perchè si era così ciecamente fatta serva alli interessi
della minorità germanica de' suoi popoli?
Finchè i suoi
possedimenti d'Italia si ristringevano alli Stati di Milano e di Mantova,
separati da suoi possedimenti di Germania pei principati vescovili del Tirolo e
per le republiche dei Grigioni e dei Veneti, l'Austria aveva dovuto corteggiare
li interessi e i sentimenti di popoli in tal modo appartati, e padroni per ciò
delle sorti loro. Fu quello il secreto della pace e della prosperità ch'ebbe il
regno di Maria Teresa fra noi. Ma l'Austria erasi arricchita colle spoglie
degli sciagurati amici e collegati, ch'ella aveva tratti seco nelle guerre
francesi. Da Chiavenna a Ragusa, dai confini dell'Elvezia a quelli
dell'Albania, una delle più belle e più civili regioni del mondo era adesso
immediata e attigua parte dell'imperio. Spinta l'Austria da sfrenate ambizioni
a pertinace rivalità con due potenze naturalmente e vastamente unitarie, aveva
provato grande il bisogno d'unità. Ma centone informe, quale essa era, di otto
o dieci nazioni, non seppe cercare l'unità se non in una fattizia compagine
ministeriale, che soggiogasse tutti i suoi popoli al primato della minorità
germanica. L'affezione avita dei sudditi di Maria Teresa fu dunque immolata a
una centralità senza fondamento, a una unità senza nazionalità. L'Italiano,
l'Ungaro, il Polacco ebbero a riconoscersi vassalli ai Tedeschi dell'Austria,
derisi allora e quasi rifiutati dalla patria germanica. Tutte quelle valorose
nazioni o dovevano dunque lasciarsi cassare e confondere con una gente alla
quale non avevano affetto nè stima, o dovevano anelare a frangere un nodo
ch'era pegno di avvilimento. Codesta smania di materiale unità è la perdizione
dell'Austria. Non poteva essa, per natura delle cose, essere altro che una
federazione di regni.
Dacchè non si
può tenere eserciti senza rendite, l'unità militare trasse dietro l'unità
finanziaria. Popoli di matura civiltà furono messi a fascio con tribù giacenti
ancora nella servitù dei bassi tempi, rimase anzi alcune nella barbarie
primitiva. Una stirpe da tanti secoli gentile dovè supplire colle sue dovizie
allo squallore di razze inculte ed ispide; i sudditi italiani della Casa
d'Austria ebbero a pagare un terzo delle gravezze dell'imperio, benchè
facessero solo un ottavo della popolazione. E oltreciò le communi
italiane dovettero con altre spontanee sovrimposte provedere a quelle opere di
publico servigio che un governo tanto avido quanto spilorcio negava di compiere
a spese dello Stato; in sole strade vicinali le communi lombarde spesero più di
quaranta milioni.
Tutta
l'amministrazione assunse codesta indole di colonia. Il sistema continentale fu
ristabilito a sussidio delle tardigrade industrie della Boemia e della Moravia.
Spinto il prezzo delle ferraccie al doppio di quello a cui le fornisce
l'Inghilterra, ci fu resa quasi impossibile la costruzione delle vie ferrate.
Una prima
ingiustizia è fonte a ingiustizie infinite. Divenne necessità avvilire la
stampa, interdire le discussioni politiche e amministrative, angustiare
l'insegnamento. Milano, città di duecentomila abitanti o poco meno, e sede
principale allora delle lettere in Italia, ebbe a starsi contenta ad una unica Gazzetta
Privilegiata; in cui traducevasi rue per ruota e huissier
per ussaro. L'Austria si onorò di qualificarci come un popolo infante,
ch'ella durava gran fatica a educare alla sapienza germanica. Uomini di nome
ignoto vennero d'oltremonti con molta insolenza a rigovernare da capo le
università nostre e le academie, quando Volta e Oriani, l'inventore della pila
elettrica e l'inventore della trigonometria sferica, vivevano ancora fra noi!
Siffatti
comportamenti inimicarono li animi prima della cittadinanza e poscia anco dei
patrizii; alcuni dei quali venivano già mostrandosi vaghi d'una libera
costituzione, giusta la moda che per ogni cosa veniva allora d'Inghilterra. E
la letteratura eziandío, a quei giorni innovatrice, operava a rompere le
ereditarie tenebre, accennando a conciliare la religione colli studii e il
cristianesimo colla libertà.
Ma per
conquistare una costituzione, volevasi un esercito, che quei signori non
avevano; poichè nè forse essi volevano darsi in mano ai soldati di Napoleone;
nè conveniva aver lusinga che nel 1821 i veterani del regno d'Italia si
lasciassero maneggiare da chi nel 1814 li aveva messi in potere del nemico; e
che animi militari e netti potessero capacitarsi di cotali andirivieni di
parte. Quei gentiluomini si volsero dunque alla casa di Savoia. Perchè non l'avevano
dunque già fatto nel 1814?
La piccola
potenza savoiarda era rimasa, fino a quel dì, straniera alla rimanente Italia
più assai della casa imperiale. Reliquia della feudalità francese, si era
salvata dagli esterminii di Richelieu, col dimostrarsi intesa ormai solo a
farsi italiana. Essa aveva bensì un buon esercito; ma non poteva
accondiscendere a imprestarlo ad una causa di libertà e di novità. La casa di
Savoia, anzichè costituzionale, era assoluta anche più della casa d'Austria; e
in fatto di religione professava una inquisitoria ignoranza. Assorta nel
gesuitismo, essa rifiutò gli acquisti che potevano venirle dalla libertà. Fu
dunque necessario torle l'esercito per mezzo d'una congiura militare. I nostri
cospiratori di corte si misero in secrete pratiche con un principe della
medesima casa. Era Carlo Alberto di Carignano, ora re. - Il disegno volgeva al
falso; poichè si doveva sovvertire da capo a fondo l'esercito, nell'atto stesso
che volevasi averlo saldo in ordinanza, per avventarlo contro un gran nemico.
L'impresa essendo adunque fallita, Carlo Alberto, che aveva cominciato col
tradire i parenti, compì col tradire gli amici; dopo di che, se ne andò a fare
un primo atto di penitenza al Trocadero. L'Austria sepellì nello Spielberg
tutti coloro tra i congiurati che non si salvarono in terra straniera; e
perseguitò molti altri dei migliori cittadini. Ma nell'infierire con tutta la
barbarie del suo carcere contro quelle si poco dannose colpe o quella manifesta
innocenza, ella si fece aborrita al mondo, e cattivò a quelli infelici la
universale pietà.
I tardi e
inutili rigori ferirono acerbamente quella parte eziandío dei patrizii che non
era nella congiura, e che riputavasi degna d'essere mallevadrice all'imperatore
dell'obbedienza d'un regno, ch'essa infine gli aveva volontariamente donato.
Allora per la prima volta l'ira le fece fare viso acerbo alla corte e starsene
alquanto in disparte; e gli officiali austriaci, ch'erano di casa anche presso
le famiglie più superbe e più selvatiche ai cittadini cominciavano a trovarvi
meno sviscerate accoglienze.
Queste cose
abbagliarono l'Europa; e le diedero a credere che il moto rivoluzionario in
Italia movesse dai signori, per calare passo passo ad una cittadinanza ignara e
servile. Nessun maggior errore. Nell'ordine cittadino era l'anima della
nazione; quivi erano più larghi gli studii, e più generose le volontà; quivi
era inoltre la maggior mole dei beni; perocchè i patrizii nelle nostre province
sono di gran lunga in minor numero, e hanno minori possedimenti che in tutti li
altri Stati imperiali; stanno infatti alla popolazione solamente come tre a
mille; e non tengono più d'una sesta parte delle terre. Ma un'opulenza
accumulata in grandi porzioni sembra maggiore del vero.
Dopo i giorni
di luglio del 1830, i nostri patrizii poco si mossero, essendochè quella
rivoluzione era fatta contro i loro intendimenti. Ma i giovani dell'ordine
cittadino risentirono maggiormente la scossa; e si arrolarono poscia in buon
numero nella Giovine Italia. Così mentre i patrizii tenevano rivolto
l'animo verso il solo Piemonte, li altri abbracciavano nei voti loro l'universa
nazione. Questo divario di sentimenti dura sempre; ed ha molta parte in ogni
nostra cosa.
Nel 1838,
avendo l'imperator Ferdinando assunta la corona ferrea del regno
lombardo-veneto, una incorreggibile nobiltà accettò come piena satisfazione
quella vana comparsa; tornò alla folle e vile speranza d'acconciare i suoi
particolari interessi colla servitù straniera; e obliata la casa di Savoia, si
strinse di bel nuovo intorno alla famiglia imperiale, in sequela al gran
dignitario Borromeo e al podestà Casati. Compose una guardia nobile : fece
caricare d'una nuova imposta i beni di tutti i cittadini, per allevare in
Vienna una brigata di nobili poveri, destinati a servir poi nell'esercito e
nelle legazioni. Si videro d'ogni parte spuntar nuovamente le armi gentilizie e
le livree gallonate; si videro i cocchieri incipriati, e percorsi i cocchi dai
lacchè; nello sfarzoso rammobigliamento delle case signorili si affondarono molti
milioni; e si ebbe l'effetto d'umiliare la modestia cittadina, e d'accaparrare
l'ammirazione e la reverenza della plebe. All'incoronazione seguitò il perdono
dei prigioni e degli esuli; ma non appena la corona ferrea fu riposta nel
sacrario di Monza, il governo austriaco ritornò com'era prima.
Delusi
pertanto una seconda volta, si rivolsero i patrizii una seconda volta al
Carignano. Tutta la loro sapienza di stato si ristette finora in codesto
oscillamento dalla casa d'Austria alla casa Savoia. - Ma l'antico loro complice
era da lungo tempo re. E questa volta l'esercito era suo; nè doveva egli prima
guastarlo, per farselo strumento di grandezza.
Il ritorno
degli esuli aveva tolto ogni intrinsichezza che rimaneva fra i patrizii e gli
officiali austriaci. V'erano tuttavìa molte famiglie antiquate, che imaginando
ancora di vivere ai tempi del Sacro Romano Imperio, non si riputavano
disonorate dalla presenza dei soldati stranieri. Ma i reduci, valendosi
dell'autorità d'eleganti dettatori che dava loro la lunga dimora fatta in
Londra e in Parigi, ammaestrarono quella stolta gente a serbare al cospetto
delli stranieri i doveri della nazionale dignità. Non vi furono più danze di
frivole spose con ussari damerini, nè cicalecci di nonne insensate con
decrepiti marescialli. Il governo parlamentare, propagatosi in molte regioni
d'Europa, riverberava d'ogni parte la sua luce sull'Italia, condannata da uno
strano e iniquo privilegio alle tenebre e al silenzio; anche in seno alla
fazione retrograda l'avanzamento delli intelletti era grande. Ma l'opera non
era compiuta; perocchè al principio dell'indipendenza nazionale mancava
tuttavia la sanzione religiosa.
Dopo la loro
ristaurazione, i pontefici si erano dati con tutto l'animo a rendere odiose ai
popoli le idee di nazionalità e di libertà, come quelle che mettessero in forse
il loro governo temporale, improvido e perverso com'era divenuto. Epperò, non
paghi di mandare al patibolo i forti cittadini, insultavano con vili calunnie
ai loro sepolcri. Pio IX ruppe le catene ai prigionieri; riaperse la patria
alli esiliati; pose mano per un momento all'opera santa della nazionalità. Il
catolicismo parve far divorzio dal gesuitismo; riabbracciarsi per sempre la
religione e la libertà. Abbandoni ora, s'ei vuole, Pio IX la causa dell'Italia.
- Far tacere la parola che ha proferito, separare ciò che ha congiunto,
inimicare la religione alla nazionalità, non è più in sua mano.
Insieme col
sacerdozio trassero alla causa della libertà i contadini e la parte più stupida
del partiziato e della cittadinanza. L'Austria rimase solitaria. Dopo
trentaquattro anni di dominio, non restò vestigio in Italia di fazione
austriaca. Per verità nessuno aveva mai voluto lo straniero come straniero;
sarebbe stato contro natura.
Per la prima
volta in Italia, tutti gli animi erano dunque congiunti in un voto solo. Ma
codesta unanimità celava una fonte di mali. Si doveva fare una rivoluzione, si
doveva romper guerra al passato; e a capo dell'impresa stava una nobiltà
adoratrice d'ogni passata cosa, con un re assoluto e un papa. Adunque le mani
medesime che poco stante ci avevano consegnati al dominio barbaro, ora dovevano
liberarci ! - Non era questo un controsenso aperto? - Non era assurdo lo
sperare da siffatte condizioni un ragionevole effetto?
Ma perchè mai
l'ordine cittadino, il quale aveva il senso e l'interesse vero alla
rivoluzione, non aveva egli impugnato le redini del movimento? - E' ciò che ci
resta da dire.
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