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Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

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  • II Le dimostrazioni
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II

Le dimostrazioni

 

L'impresa dei cittadini era molteplice, abbracciando ella ad un tempo l'acquisto dell'indipendenza e quello della libertà.

Per conseguire l'indipendenza era mestieri combattere, e pertanto avere un esercito; e si è già mentovato come la parte retrograda, nel delirio della vittoria, avesse immolato all'Austria sua protettrice i nostri soldati. Da quel giorno non v'era più esercito. Le nostre leve componevano bensì parecchi buoni reggimenti; ma erano disperse nei lontani presidii della Galizia, dell'Ungaria, del Voralberg, di Praga, di Vienna; e i loro ufficiali; per ciò che abbiamo detto, erano in gran parte Germani o Slavi.

Un insurgimento di popolo non pareva dunque la prima cosa a cui pensare. La Lombardia è piccola parte d'un imperio più vasto della Francia. Sommoverla a tumulto, era esporla senz'esercito alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le speranze stesse della libertà. Chi amava la patria, doveva arretrarsi a quel pensiero, e rivolgere la mente a meno incerti e men disastrosi disegni. Era fatto palese che le finanze imperiali stavano in mali termini, e che le diverse nazioni, fatte conscie di , tendevano a smembrare l'imperio. A poco a poco l'esercito imperiale sarebbe caduto nell'impotenza e nella dissoluzione; poichè ogni popolo avrebbe cominciato a tenere a i suoi denari e li uomini, e ad armarsi in casa propria. In mezzo a codesto disfacimento, i doviziosi sussidii che dalla Lombardia sola si potevano sperare, avrebbero adescato il ministerio medesimo delle finanze a farsi nostro sostenitore contro li arbitrii della polizia, e a venderci a ritagli la libertà; e infatti i banchieri viennesi, nel dissesto imminente delle finanze, avevano già sollecitato più volte il Consiglio di venire a qualche temperamento con noi. Ci saremmo dunque avviati alla libertà per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove; il che sarebbe però avvenuto con quella velocità colla quale ogni principio politico ai nostri giorni si svolge. Ciò posto, bastava tenere i nostri nemici nel duro e spinoso campo della legalità; poichè la violenza e la guerra ci avrebbero in quella vece consegnati alla prepotenza militare, porgendo al nemico un altro modo di vivere a nostre spese. Ed è ciò appunto che ora vediamo; poichè l'esercito di Radetzki è un corpo franco che acquistò pretesto a vivere di rapina nel più bel paese d'Europa.

Il governo già si avvedeva d'aver battuto una falsa via con noi e con tutti gli altri popoli, e si sentiva già trascinare entro il vortice delle concessioni. I suoi magistrati talvolta lo confessavano. Quando Cobden passò per Milano nella primavera del 1847, lo si accolse a convito, come si era fatto in tutte le grandi città del continente. La polizia, avendo imaginato ch'io avessi a presiedere a quella adunanza, mi aveva chiamato due volte, per la tema che ella aveva dei discorsi che vi si sarebbero potuti tenere ; il secretario Lindenau intendeva che i discorsi si mettessero in iscritto e si rassegnassero alla censura. Avendogli io risposto molto risentitamente, quel magistrato con mio stupore ad un tratto mutò modi e parole ; e confessò che il governo riconosceva la materiale impossibilità di continuare quel suo sistema ; ma ch'era ben malagevole il dire per qual via si potesse escirne fuori. Per me, sono persuaso che stava in noi di trovargliela, e di fargliene precetto, atteggiandoci ad un'esigenza ragionata, misurata, inesorabile. Ma era ben difficile il tenere siffatto modo, fra il caldo degli animi, e in popolo tanto inesperto.

Al contrario, la fazione retrograda, volendo solo vendicarsi dell'ingratitudine austriaca, volendo solo l'indipendenza esterna e non la libertà, aveva più semplice impresa. Ella doveva solo figurarsi tornata al 1814: e questa volta, invece dell'esercito austriaco, doveva chiamar quello del re Carlo Alberto. La questione ch'essa doveva sciogliere, non era quella d'una rivoluzione, ma d'una guerra. Della libertà e del progresso ella non si curava punto ; il nostro popolo era anzi per lei già tracorso soverchiamente ; e avrebbe voluto ritrarlo agli ordini antichi, facendo communela colla nobiltà savoiarda. Non si trattava d'altro adunque che di sospingere il Piemonte a romper guerra all'Austria. Al che faceva mestieri dimostrare quanto agevol opera fosse divenuto il conquisto di Lombardia, e quanto propizio il tempo; bastava mettere in palese l'avversione concepita dai popoli al governo; insomma bastava fare dimostrazioni. Il fare ordinamenti efficaci, il predisporre armi, munizioni e capi, erano cose nei disegni di quella fazione affatto superflue, anzi pericolose; poichè le armi in mano di popoli agitati sarebbero state agli intendimenti suoi novello inciampo.

 

Codesto principio delle dimostrazioni si affaceva anche alle mire dei generali austriaci, porgendo loro un titolo a chiamar da Vienna straordinarie facoltà; perocchè a raffrenare un popolo tumultuante, il governo avrebbe posto ogni cosa in mano all'autorità militare. La polizia, poco dianzi così sospettosa, cominciò dunque a non turbarsi più che tanto; vedeva e lasciava fare; si frammetteva nelle dimostrazioni solo quando si voleva perchè non prendessero aspetto sedizioso, mirando essa a screditare i magistrati civili, e a palesare l'insufficienza dei provedimenti ordinarii dei tempi di pace. Pertanto, da due parti opposte, si spingeva a sproporzionato cimento questo popolo senza esercito e senz'armi; da due parti gli aveva posto assedio lo spirito del male.

Deliberati di precorrere li eventi e di contrastare ad ogni costo al risurgimento dell'italica nazionalità, gli Austriaci, in luglio 1847, avevano machinato in Roma una congiura di sicarii; e per darle ansa, avevano improvisamente occupato la città di Ferrara. Ma il colpo in Roma era fallito; e le mosse militari avevano messo in armi la Romagna, e scossa la Lombardia. Li Austriaci fecero venir tosto in Italia altri soldati, volendo combattere, come hanno sempre fatto, prima che l'Italia avesse tempo di ordinare la sua milizia, eziandío affinchè li effetti del disordine militare apparissero atti di codardia.

Nello stesso tempo il contegno dell'esercito imperiale si mutò stranamente. Servo della disciplina, vuoto d'ogni pensiero e d'ogni volontà, non aveva partecipato mai alle insolenze dei satelliti della polizia; le città si avvedevano appena della presenza di quelli stupidi soldati. Ma dal momento che cominciarono per noi le dimostrazioni, l'esercito si affratellò alli sgherri, e adeguolli d'acerbità, non ricordandosi che solo la servile sua disciplina lo aveva fatto tolerare in paese per tanti anni. Da tutta la rimanente Germania, la fazione retrograda spronava contro di noi i comandanti austriaci; sopratutto l'Allgemeine Zeitung abusava malignamente del costume ch'era in Italia d'appellare tuttavia gli Austriaci col nome generale di Tedeschi; e li sollecitava a insultare all'Italia per la gloria teutonica, tramutando quasi in campioni del prisco Arminio i caporali che a bastonate menavano attorno quel bastardo esercito di dieci favelle.

 

Mentre così da un lato si fomentava nelli Austriaci l'odio contro di noi a nome della Germania, li scrittori del Piemonte, i Balbo, i Durando, i Gioberti, infiammavano a nome dell'Italia la nostra gioventù a surgere in armi. Avrebbero essi avuto ben materia di scrivere a casa loro, vendicando al loro popolo le troppe tardate riforme, il rinovamento, la costituzione. Ogni passo fatto in Piemonte avrebbe costretto l'Austria a fare un passo avanti con noi, a slegarci ognora più la bocca e le mani. Era questo il consiglio che apertamente dava loro nella Revue des Deux-Mondes e nella Revue Indépendante Giuseppe Ferrari1; ma essi lo accoglievano col dispetto di chi ad altro mira. Essi non vedevano cosa da farsi in Italia se non la conquista della Lombardia; ma nella angustia dei loro propositi non abbracciavano la più sicura via di compiere l'ambita impresa. Tacevano essi che l'Austria potè aver pacifico dominio delle terre d'Italia, solo perchè li altri governi erano quivi tutti peggiori del suo. Tacevano che l'Italia non era serva dell'Austria, non era serva di quelle fragili armi straniere, ma delle storte idee de' suoi reggitori. Involti ancora in vecchie brighe coi gesuiti, e curvi sempre al cospetto della corte romana, non si avvedevano costoro d'esser rimasi al dissotto dell'ignoranza austriaca. Il barbaro si poteva cacciare solo in nome della libertà; ed essi avevano più paura della libertà che del barbaro. Non avevano dunque i Piemontesi sofferto nel 1821 la costui presenza piuttosto che subire una costituzione? Balbo, uomo dell'altro secolo, andava in collera quando si diceva che il popolo avesse a metter mano nelle cose dello Stato; non piacevagli la publicità del sistema rappresentativo; non amava veder calare il governo in piazza. Codesti servitori di corte non intendevano ad altro che a movere una guerra per dare una provincia di più al loro padrone. Unum porro est necessarium, dicevano essi, parlando dell'indipendenza italiana; ma ciò ch'era veramente necessario nelle menti loro era che il Piemonte si avesse la Lombardia. Vociferavano, fuori i barbari; e pensavano solo a prendere in Italia il posto dei barbari. Nella medaglia che la mano medesima di Carlo Alberto regalava di soppiatto a' suoi fidi, l'aquila birostre non figuravasi conculcata dall'Italia, ma spennacchiata dal lione di Savoia. La costituzione di cui Carlo Alberto non graziò finalmente i suoi popoli, se non dopo che il trionfo di Palermo ebbe fatta concedere la costituzione anche a Napoli, fu solo una necessità; o al più un manifesto di guerra, per cacciare sotto i primi colpi delli Austriaci la nostra gioventù.

 

A Milano, dopo la morte dell'arcivescovo Gaisruck, l'Austria trovossi costretta a dare quella grassa prebenda a un Italiano; e il popolo volle onorarlo come un vessillo della nazione. Il 1 settembre, passando io per caso avanti ad una caserma, aveva visto che le guardie di polizia facevano arrotare le sciabole; e ripassando tre ore dopo, aveva visto continuarsi quel sinistro preparativo. Essendomi avvenuto in uno delli impiegati della municipalità, il sig. Galliani, lo aveva pregato di volerla ragguagliare del fatto; e ne feci anco parola a parecchi amici. Ma contro l'aspettativa mia, invece di prendere qualche provedimento a premunire i cittadini da quelle scelerate insidie, i municipali misero tutto l'animo a fomentare l'effervescenza dell'inerme e animoso popolo. Avevano parato a festa le vie colle insegne gloriose della lega di Pontida; avevano posto a fregio delli archi trionfali le vittorie di Milano contro Federico imperatore, e la fondazione d'Alessandria. Quattro volte una moltitudine innumerevole, venuta da ogni parte della vastissima diocesi, venne congregata; alla sera del sabbato, per accogliere l'arcivescovo fuori le porte; al mattino della domenica, per fargli accompagnamento al Duomo; alla sera, per mirare avanti al suo palazzo una vaga illuminazione a gas, spettacolo nuovo ai cittadini; e la sera del mercoledì, per mirarla nuovamente; il che poi finì col sangue. Dal lato suo la polizia incalzava i suoi disegni; poichè invece di metter fine a quelle inusate festività, come avrebbe fatto in altro tempo: invece d'imporre rispetto al popolo, dispiegandogli inanzi le numerose soldatesche del presidio : gliene tolse perfino la vista, racchiudendole tutte nelle caserme; nascose quasi la propria presenza. Poi d'un tratto le sue guardie, simulandosi inermi, ma celando le sciabole nude sotto ai cappotti, si avventarono dalli agguati loro in mezzo alla moltitudine che cantava inni a Pio IX; e ad un segnale del famoso conte Bolza, si misero a far sangue. E' manifesto che la polizia non aveva voluto disperdere la folla, ma bensì ricavar vantaggio dall'occasione, e farsi merito d'aver raffrenato un popolo ribelle. E da quel momento, si riputò in diritto di dimandare lo stato d'assedio, il giudizio statario, e tutti li altri supremi rigori; la legge doveva tacere, regnare onnipotente la polizia.

 

Ma il sangue non fece quello spavento che si era forse sperato; e l'indegno inganno accese anzi li animi del popolo. Le dimostrazioni continuarono più che mai; per più mesi, dai primi di settembre a mezzo marzo, non si cessò di mostrare al governo sotto le più varie forme il più aperto disprezzo. Quando giunse la novella della vittoria dei Palermitani, una folla, quale non erasi mai veduta, empiè il Duomo e le vie circostanti, a renderne grazie solenni a Dio, al cospetto del vicerè che stava a consiglio con Radetzki nell'attiguo palazzo. Si sarebbe detto che il popolo fosse arrolato tutto in una vasta congiura; e il popolo nulla sapeva; eppure ad ogni più nuova proposta improvisamente si moveva tutto come una sola persona; strana guerra fra un paese intero e un governo, che tanto sottili provedimenti aveva speso per tanti anni, a farlo ignaro d'ogni cosa di Stato e ciecamente ossequioso. Fu manifesta allora tutta la vanità di quell'arte metternichiana, che l'Europa aveva troppo lungamente venerata e temuta. Tutti vedevano con esultanza giganteggiare di repente la potenza sin allora spregiata della publica opinione. Ma pur troppo non badavano che la polizia mandava sempre inanzi il suo proposito di lasciar che il popolo apertamente si chiarisse, per poterlo sottomettere all'arbitrio dei militari, che volevano dar di piglio nelli averi e nel sangue. E' superfluo venire annoverando i particolari di tutte le dimostrazioni. Valga il dire che ve n'ebbe d'ogni fatta; per la chiesa e per il teatro: per il gioco del lotto e per il privilegio dei tabacchi: ve n'ebbe perfino dei consiglieri municipali provinciali e centrali, uomini scelti accuratamente dal governo fra i più devoti ad ogni autorità; ve n'ebbe perfino del nuovo procurator fiscale, il Guicciardi al cui padre doveva la casa d'Austria l'acquisto della Valtellina.

Fra le dimostrazioni spesso frivole o inutilmente pericolose, se ne introducevano alcune d'altra natura, e di molto momento per l'avvenire, come gravami per li abusi, rappresentanze intorno alle male leggi, proposte sempre più larghe d'innovazioni. Le camere di commercio e le congregazioni, ordinate nel reggimento austriaco a mera parata e a delusione dei popoli, ora comprese di vita novella, e sorrette dal publico voto, compievano per la prima volta i veri officii loro, a meraviglia universale. Questa opposizione legale stringeva il governo alla vita, e lo avrebbe disferrato da quella sua tardità, e smentita in modo solenne la lode di paterno ch'ei soleva darsi beatamente da medesimo. Anche senza la speranza di conseguire le desiderate innovazioni, era già un vantaggio e un avvedimento il venirle publicamente additando e dichiarando. Era omai troppo fastidioso l'udire li Austriaci vantarsi delle nostre pratiche intorno alle communità, al censo, alle strade, alle irrigazioni, alli argini, alle espropriazioni, e alle providenze di salubrità e carità, appunto come se fossero cose apportate fra noi da quei loro paesi, ove sono e lungamente saranno lontani desiderii. - Codeste savie istituzioni sono cosa nostra, essendoci tramandate alcuni dai nostri antichi, e fondate altre da quei liberi nostri pensatori ai quali Maria Teresa aveva lasciato governare i suoi ducati di Mantova e Milano. L'opposizione illuminava il paese, mostrando che il bene era di casa nostra, e omne malum a septentrione.

 

Ma mentre questa lutta legale introduceva fra noi certa disciplina, accostumandoci ad assecondare un impulso commune, ella ci piegava altresì a seguir coloro i quali il governo austriaco aveva potuto incaricare d'esser capi del paese. Si radunavano essi intorno a Casati e Borromeo. Il conte Gabrio Casati, podestà di Milano, non aveva la dignitosa indolenza delli altri patrizii; ma irrequieto e avido di titoli e decorazioni, non si vergognava di farne incetta. Erasi meritato dall'Austria l'ordine della corona ferrea, e la reiterata nomina di podestà. Ma quando gli parve intravedere che la casa Savoia potrebbe avere occasione d'allargarsi in Italia, egli, per tenersi presto ad ogni evento, erasi procacciato anche l'ordine savoiardo di S. Maurizio. Equilibratosi così fra i due governi, attestava ad ambedue la sua devozione. Quando una delle arciduchesse d'Austria andò sposa ad uno dei duchi di Savoia, egli fece pagar le spese della duplice fedeltà ai Milanesi, sciupando il valsente di sessantamila franchi in un inusitato dono nuziale alla coppia austro-sarda. Il conte Casati si sarebbe fatto in due per servire ad ambedue le corti. Non potendo spartir medesimo, spartì la sua famiglia, mettendo un figlio nell'artiglieria di Carlo Alberto e un altro nell'università tedesca di Innspruck. - Il conte Vitaliano Borromeo seguitava, alquanto più signorilmente, li esempli del podestà; mendicava alla corte austriaca il toson d'oro, scudo inviolabile contro li arresti; costringeva un figlio a entrare nella prelatura romana ai più tristi giorni di Gregorio XVI; e un altro figlio a vestire l'uniforme austriaco. S'ingegnava così d'essere ad un tempo cesareo e pontificio, guelfo e ghibellino. - Codesti ciambellani, che si erano messi ora a capo delle dimostrazioni del popolo, del quale in tutta la privata loro vita si dimostravano pur troppo non amanti e schivi, non potevano uscire dal cerchio magico delle idee d'anticamera; aspirare a maggior cosa che a mutar padrone.





1 In uno scritto dell’amico mio Giuseppe Ferrari, inserto nella Revue Indépendante del 10 gennaio 1848, fra li altri i seguenti passi, nei quali s’adombravano molte delle cose che in fatto di poscia avvennero:

« Il nous serait facile de remanier la carte géographique de la peninsule et les droits dynastiques, de manière à aboutir immédiatement à l'unité italienne; mais cette facilité insidieuse de l'hypothèse n'aurait d'autre résultat dans l'action politique que de substituer l'erreur à la réalité et l'intrigue au droit. L'hypothèse de l'unité s'attacherait nécessairement à un prince, à une famille royale. Elle inspirerait à tous les princes menacés l'aliance de l'Autriche; elle envelopperait l'oeuvre de l'indépendance dans le mystère d'une cour; la discorde serait dans le camp avant le combat. La liberté ne doit se fier qu'aux dictatures octroyées et surtout aux dictature revolutionnaires (pag. 3).

Au lieu d'organiser la libérté!, on prechera l'union, la concorde; et l’absolutisme debout, organisé, exploitera le mouvement. Pour le vaincre, il n'aura qu'à le tourner tout entier et sur le champ contre l’Autriche, en substituant à la liberté! le mot sacre d'indipendance. - On accusera les patriotes de semer la division. Les hommes du parti liberal seront regardés comme des démolisseurs, des communistes, et en même temps comme des émissaires de l'Autriche! (pag. 14, 15).

L'organisation matérielle et l'armée du Piémont trompent les yeux; la liberté peut les rendre toutes puissantes. L'absolutisme tue l'ambiticn, et rend inutiles les ressources du Piémont. La liberté, par Robespierre, par Bonaparte, épuisait tous ses efforts pour donner des conquêtes au Piémont; l'absolutisme s'obstina à réduire le royaume à la Sardaigne; la cour de Turin faisait fusiller les Italiens qui voulaient sa grandeur. Les cours absolutistes ne pourrent jamais regarder en face les insurrections; les parlements seuls pourront manoeuvrer au milieu des éventualités révolutionnaires.

On le conçoit, l'indipendance c’est la conquête de la Lombardie. Cependant la Lombardie ne sera prise quau nom de la liberté; elle est plus avancée que le Piémont par les idées; elle n'a pas de culte pour les rois; elle n'a jamais écouté les rêves de l'ultra-catholicisme piemontais.

Le Lombard est loyal; il comprend les principes. Sans doute la Lombardie est faible, conquise, disorganisée, mais elle s'est organisée tout à coup, comme par enchantement, au nom de la liberté; elle a combattu vaillamment à côté de Napoléon; elle est resuscitée soudainement, tandis que le Piemont disparaissait sans résistance politique. Le duché de Milan, le centre de la renaissance italienne, a gardé sa fierté, même dans les fers; et jamais un roi absolu ne pourra le contenir (pag. 29).

Impuissante à la cour, l'idée prématurée de l'indépendance égare les patriotes du Piémont; attachés à leur roi, ils le présentent comme le libérateur militaire de l'Italie; ils veulent conquérir l'indépendance italienne, pour vider ensuite la question intérieure. comme une querelle domestique. - IIs ne sont pas les maitres de leur indépendance personnelle, comment pouvent ils conquérir l'indépendance d'une nation? Quils conquièrent donc leur propre liberté. La maison de Savoie s'est ruinée en combattant la liberté religieuse de la réformation, la liberté politique de la révolution; en 1814 elle a été mille fois pire que l'Autriche; en 1821 elle a trahi; en 1834 elle a été plus cruelle que l'empereur. La cour de Turin a toujours flotté entre les jésuites et lei carbonari, entre la France et l'Autriche, entre l'ambition et la peur. Le libérateur militaire de l'Italie sera toujours, même involontairement, l'homme de 1821. Au moment de la guerre, lei patriotes sans chambres, sana ministres responsables, sans lois inviolables, douteront des généraux, des officiers, de la cour. On recevra l’ordre de s’arrêter au moment de l'attaque, de se retirer au moment de la marce, et la possibilité d'une volteface pourra provoquer ou produire les effets de la trahison (pag. 30).

S'obstinetion à chercher une vaine indipendance en ajournant la liberté? On manquera l'une et l'autre (pag. 30).

Dans ce moment l'Italie adore encore sei idoles; elle est paienne et matérialiste; elle attend un Messie, des libérateurs; elle demande la justice à des baionnettes. C'est d'elle que la révolution pourrait dire comme Samuel: donnons lui un roi pour la punir (pag. 48)".

 






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