II
Le dimostrazioni
L'impresa dei cittadini
era molteplice, abbracciando ella ad un tempo l'acquisto dell'indipendenza e
quello della libertà.
Per conseguire
l'indipendenza era mestieri combattere, e pertanto avere un esercito; e si è
già mentovato come la parte retrograda, nel delirio della vittoria, avesse
immolato all'Austria sua protettrice i nostri soldati. Da quel giorno non v'era
più esercito. Le nostre leve componevano bensì parecchi buoni reggimenti; ma
erano disperse nei lontani presidii della Galizia, dell'Ungaria, del Voralberg,
di Praga, di Vienna; e i loro ufficiali; per ciò che abbiamo detto, erano in
gran parte Germani o Slavi.
Un
insurgimento di popolo non pareva dunque la prima cosa a cui pensare. La Lombardia è piccola parte d'un imperio più vasto della Francia. Sommoverla a tumulto, era
esporla senz'esercito alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città
nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le
speranze stesse della libertà. Chi amava la patria, doveva arretrarsi a quel
pensiero, e rivolgere la mente a meno incerti e men disastrosi disegni. Era
fatto palese che le finanze imperiali stavano in mali termini, e che le diverse
nazioni, fatte conscie di sè, tendevano a smembrare l'imperio. A poco a poco
l'esercito imperiale sarebbe caduto nell'impotenza e nella dissoluzione; poichè
ogni popolo avrebbe cominciato a tenere a sè i suoi denari e li uomini, e ad
armarsi in casa propria. In mezzo a codesto disfacimento, i doviziosi sussidii
che dalla Lombardia sola si potevano sperare, avrebbero adescato il ministerio
medesimo delle finanze a farsi nostro sostenitore contro li arbitrii della
polizia, e a venderci a ritagli la libertà; e infatti i banchieri viennesi, nel
dissesto imminente delle finanze, avevano già sollecitato più volte il
Consiglio di venire a qualche temperamento con noi. Ci saremmo dunque avviati
alla libertà per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e
altrove; il che sarebbe però avvenuto con quella velocità colla quale ogni
principio politico ai nostri giorni si svolge. Ciò posto, bastava tenere i
nostri nemici nel duro e spinoso campo della legalità; poichè la violenza e la
guerra ci avrebbero in quella vece consegnati alla prepotenza militare,
porgendo al nemico un altro modo di vivere a nostre spese. Ed è ciò appunto che
ora vediamo; poichè l'esercito di Radetzki è un corpo franco che acquistò
pretesto a vivere di rapina nel più bel paese d'Europa.
Il governo già
si avvedeva d'aver battuto una falsa via con noi e con tutti gli altri popoli,
e si sentiva già trascinare entro il vortice delle concessioni. I suoi
magistrati talvolta lo confessavano. Quando Cobden passò per Milano nella
primavera del 1847, lo si accolse a convito, come si era fatto in tutte le
grandi città del continente. La polizia, avendo imaginato ch'io avessi a
presiedere a quella adunanza, mi aveva chiamato due volte, per la tema che ella
aveva dei discorsi che vi si sarebbero potuti tenere ; il secretario Lindenau
intendeva che i discorsi si mettessero in iscritto e si rassegnassero alla
censura. Avendogli io risposto molto risentitamente, quel magistrato con mio
stupore ad un tratto mutò modi e parole ; e confessò che il governo riconosceva
la materiale impossibilità di continuare quel suo sistema ; ma ch'era ben
malagevole il dire per qual via si potesse escirne fuori. Per me, sono persuaso
che stava in noi di trovargliela, e di fargliene precetto, atteggiandoci ad
un'esigenza ragionata, misurata, inesorabile. Ma era ben difficile il tenere
siffatto modo, fra il caldo degli animi, e in popolo tanto inesperto.
Al contrario,
la fazione retrograda, volendo solo vendicarsi dell'ingratitudine austriaca,
volendo solo l'indipendenza esterna e non la libertà, aveva più semplice
impresa. Ella doveva solo figurarsi tornata al 1814: e questa volta, invece
dell'esercito austriaco, doveva chiamar quello del re Carlo Alberto. La
questione ch'essa doveva sciogliere, non era quella d'una rivoluzione, ma d'una
guerra. Della libertà e del progresso ella non si curava punto ; il nostro
popolo era anzi per lei già tracorso soverchiamente ; e avrebbe voluto ritrarlo
agli ordini antichi, facendo communela colla nobiltà savoiarda. Non si trattava
d'altro adunque che di sospingere il Piemonte a romper guerra all'Austria. Al
che faceva mestieri dimostrare quanto agevol opera fosse divenuto il conquisto
di Lombardia, e quanto propizio il tempo; bastava mettere in palese
l'avversione concepita dai popoli al governo; insomma bastava fare dimostrazioni.
Il fare ordinamenti efficaci, il predisporre armi, munizioni e capi, erano cose
nei disegni di quella fazione affatto superflue, anzi pericolose; poichè le
armi in mano di popoli agitati sarebbero state agli intendimenti suoi novello
inciampo.
Codesto
principio delle dimostrazioni si affaceva anche alle mire dei generali
austriaci, porgendo loro un titolo a chiamar da Vienna straordinarie facoltà;
perocchè a raffrenare un popolo tumultuante, il governo avrebbe posto ogni cosa
in mano all'autorità militare. La polizia, poco dianzi così sospettosa,
cominciò dunque a non turbarsi più che tanto; vedeva e lasciava fare; si
frammetteva nelle dimostrazioni solo quando si voleva perchè non prendessero
aspetto sedizioso, mirando essa a screditare i magistrati civili, e a palesare
l'insufficienza dei provedimenti ordinarii dei tempi di pace. Pertanto, da due
parti opposte, si spingeva a sproporzionato cimento questo popolo senza
esercito e senz'armi; da due parti gli aveva posto assedio lo spirito del male.
Deliberati di
precorrere li eventi e di contrastare ad ogni costo al risurgimento
dell'italica nazionalità, gli Austriaci, in luglio 1847, avevano machinato in
Roma una congiura di sicarii; e per darle ansa, avevano improvisamente occupato
la città di Ferrara. Ma il colpo in Roma era fallito; e le mosse militari
avevano messo in armi la Romagna, e scossa la Lombardia. Li Austriaci fecero venir tosto in Italia altri soldati, volendo combattere, come
hanno sempre fatto, prima che l'Italia avesse tempo di ordinare la sua milizia,
eziandío affinchè li effetti del disordine militare apparissero atti di
codardia.
Nello stesso
tempo il contegno dell'esercito imperiale si mutò stranamente. Servo della
disciplina, vuoto d'ogni pensiero e d'ogni volontà, non aveva partecipato mai
alle insolenze dei satelliti della polizia; le città si avvedevano appena della
presenza di quelli stupidi soldati. Ma dal momento che cominciarono per noi le
dimostrazioni, l'esercito si affratellò alli sgherri, e adeguolli d'acerbità,
non ricordandosi che solo la servile sua disciplina lo aveva fatto tolerare in paese
per tanti anni. Da tutta la rimanente Germania, la fazione retrograda spronava
contro di noi i comandanti austriaci; sopratutto l'Allgemeine Zeitung
abusava malignamente del costume ch'era in Italia d'appellare tuttavia gli
Austriaci col nome generale di Tedeschi; e li sollecitava a insultare
all'Italia per la gloria teutonica, tramutando quasi in campioni del prisco
Arminio i caporali che a bastonate menavano attorno quel bastardo esercito di
dieci favelle.
Mentre così da
un lato si fomentava nelli Austriaci l'odio contro di noi a nome della
Germania, li scrittori del Piemonte, i Balbo, i Durando, i Gioberti,
infiammavano a nome dell'Italia la nostra gioventù a surgere in armi. Avrebbero
essi avuto ben materia di scrivere a casa loro, vendicando al loro popolo le
troppe tardate riforme, il rinovamento, la costituzione. Ogni passo fatto in
Piemonte avrebbe costretto l'Austria a fare un passo avanti con noi, a slegarci
ognora più la bocca e le mani. Era questo il consiglio che apertamente dava
loro nella Revue des Deux-Mondes e nella Revue Indépendante
Giuseppe Ferrari1; ma essi lo accoglievano col dispetto di chi ad altro
mira. Essi non vedevano cosa da farsi in Italia se non la conquista della
Lombardia; ma nella angustia dei loro propositi non abbracciavano la più sicura
via di compiere l'ambita impresa. Tacevano essi che l'Austria potè aver
pacifico dominio delle terre d'Italia, solo perchè li altri governi erano quivi
tutti peggiori del suo. Tacevano che l'Italia non era serva dell'Austria, non
era serva di quelle fragili armi straniere, ma delle storte idee de' suoi
reggitori. Involti ancora in vecchie brighe coi gesuiti, e curvi sempre al
cospetto della corte romana, non si avvedevano costoro d'esser rimasi al
dissotto dell'ignoranza austriaca. Il barbaro si poteva cacciare solo in nome
della libertà; ed essi avevano più paura della libertà che del barbaro. Non
avevano dunque i Piemontesi sofferto nel 1821 la costui presenza piuttosto che
subire una costituzione? Balbo, uomo dell'altro secolo, andava in collera
quando si diceva che il popolo avesse a metter mano nelle cose dello Stato;
non piacevagli la publicità del sistema rappresentativo; non amava veder calare
il governo in piazza. Codesti servitori di corte non intendevano ad altro
che a movere una guerra per dare una provincia di più al loro padrone. Unum
porro est necessarium, dicevano essi, parlando dell'indipendenza italiana;
ma ciò ch'era veramente necessario nelle menti loro era che il Piemonte si
avesse la Lombardia. Vociferavano, fuori i barbari; e pensavano solo a
prendere in Italia il posto dei barbari. Nella medaglia che la mano medesima di
Carlo Alberto regalava di soppiatto a' suoi fidi, l'aquila birostre non
figuravasi conculcata dall'Italia, ma spennacchiata dal lione di Savoia. La
costituzione di cui Carlo Alberto non graziò finalmente i suoi popoli, se non
dopo che il trionfo di Palermo ebbe fatta concedere la costituzione anche a
Napoli, fu solo una necessità; o al più un manifesto di guerra, per cacciare
sotto i primi colpi delli Austriaci la nostra gioventù.
A Milano, dopo
la morte dell'arcivescovo Gaisruck, l'Austria trovossi costretta a dare quella
grassa prebenda a un Italiano; e il popolo volle onorarlo come un vessillo
della nazione. Il 1 settembre, passando io per caso avanti ad una caserma,
aveva visto che le guardie di polizia facevano arrotare le sciabole; e
ripassando tre ore dopo, aveva visto continuarsi quel sinistro preparativo.
Essendomi avvenuto in uno delli impiegati della municipalità, il sig. Galliani,
lo aveva pregato di volerla ragguagliare del fatto; e ne feci anco parola a
parecchi amici. Ma contro l'aspettativa mia, invece di prendere qualche
provedimento a premunire i cittadini da quelle scelerate insidie, i municipali
misero tutto l'animo a fomentare l'effervescenza dell'inerme e animoso popolo.
Avevano parato a festa le vie colle insegne gloriose della lega di Pontida;
avevano posto a fregio delli archi trionfali le vittorie di Milano contro
Federico imperatore, e la fondazione d'Alessandria. Quattro volte una
moltitudine innumerevole, venuta da ogni parte della vastissima diocesi, venne
congregata; alla sera del sabbato, per accogliere l'arcivescovo fuori le porte;
al mattino della domenica, per fargli accompagnamento al Duomo; alla sera, per
mirare avanti al suo palazzo una vaga illuminazione a gas, spettacolo nuovo ai
cittadini; e la sera del mercoledì, per mirarla nuovamente; il che poi finì col
sangue. Dal lato suo la polizia incalzava i suoi disegni; poichè invece di
metter fine a quelle inusate festività, come avrebbe fatto in altro tempo:
invece d'imporre rispetto al popolo, dispiegandogli inanzi le numerose
soldatesche del presidio : gliene tolse perfino la vista, racchiudendole tutte
nelle caserme; nascose quasi la propria presenza. Poi d'un tratto le sue
guardie, simulandosi inermi, ma celando le sciabole nude sotto ai cappotti, si
avventarono dalli agguati loro in mezzo alla moltitudine che cantava inni a Pio
IX; e ad un segnale del famoso conte Bolza, si misero a far sangue. E'
manifesto che la polizia non aveva voluto disperdere la folla, ma bensì ricavar
vantaggio dall'occasione, e farsi merito d'aver raffrenato un popolo ribelle. E
da quel momento, si riputò in diritto di dimandare lo stato d'assedio, il
giudizio statario, e tutti li altri supremi rigori; la legge doveva tacere,
regnare onnipotente la polizia.
Ma il sangue
non fece quello spavento che si era forse sperato; e l'indegno inganno accese
anzi li animi del popolo. Le dimostrazioni continuarono più che mai; per più
mesi, dai primi di settembre a mezzo marzo, non si cessò di mostrare al governo
sotto le più varie forme il più aperto disprezzo. Quando giunse la novella
della vittoria dei Palermitani, una folla, quale non erasi mai veduta, empiè il
Duomo e le vie circostanti, a renderne grazie solenni a Dio, al cospetto del
vicerè che stava a consiglio con Radetzki nell'attiguo palazzo. Si sarebbe
detto che il popolo fosse arrolato tutto in una vasta congiura; e il popolo
nulla sapeva; eppure ad ogni più nuova proposta improvisamente si moveva tutto
come una sola persona; strana guerra fra un paese intero e un governo, che
tanto sottili provedimenti aveva speso per tanti anni, a farlo ignaro d'ogni
cosa di Stato e ciecamente ossequioso. Fu manifesta allora tutta la vanità di
quell'arte metternichiana, che l'Europa aveva troppo lungamente venerata e
temuta. Tutti vedevano con esultanza giganteggiare di repente la potenza sin
allora spregiata della publica opinione. Ma pur troppo non badavano che la
polizia mandava sempre inanzi il suo proposito di lasciar che il popolo
apertamente si chiarisse, per poterlo sottomettere all'arbitrio dei militari,
che volevano dar di piglio nelli averi e nel sangue. E' superfluo venire
annoverando i particolari di tutte le dimostrazioni. Valga il dire che ve
n'ebbe d'ogni fatta; per la chiesa e per il teatro: per il gioco del lotto e
per il privilegio dei tabacchi: ve n'ebbe perfino dei consiglieri municipali
provinciali e centrali, uomini scelti accuratamente dal governo fra i più
devoti ad ogni autorità; ve n'ebbe perfino del nuovo procurator fiscale, il
Guicciardi al cui padre doveva la casa d'Austria l'acquisto della Valtellina.
Fra le
dimostrazioni spesso frivole o inutilmente pericolose, se ne introducevano
alcune d'altra natura, e di molto momento per l'avvenire, come gravami per li
abusi, rappresentanze intorno alle male leggi, proposte sempre più larghe
d'innovazioni. Le camere di commercio e le congregazioni, ordinate nel
reggimento austriaco a mera parata e a delusione dei popoli, ora comprese di vita
novella, e sorrette dal publico voto, compievano per la prima volta i veri
officii loro, a meraviglia universale. Questa opposizione legale stringeva il
governo alla vita, e lo avrebbe disferrato da quella sua tardità, e smentita in
modo solenne la lode di paterno ch'ei soleva darsi beatamente da sè medesimo.
Anche senza la speranza di conseguire le desiderate innovazioni, era già un
vantaggio e un avvedimento il venirle publicamente additando e dichiarando. Era
omai troppo fastidioso l'udire li Austriaci vantarsi delle nostre pratiche
intorno alle communità, al censo, alle strade, alle irrigazioni, alli argini,
alle espropriazioni, e alle providenze di salubrità e carità, appunto come se
fossero cose apportate fra noi da quei loro paesi, ove sono e lungamente
saranno lontani desiderii. - Codeste savie istituzioni sono cosa nostra,
essendoci tramandate alcuni dai nostri antichi, e fondate altre da quei liberi
nostri pensatori ai quali Maria Teresa aveva lasciato governare i suoi ducati
di Mantova e Milano. L'opposizione illuminava il paese, mostrando che il bene
era di casa nostra, e omne malum a septentrione.
Ma mentre
questa lutta legale introduceva fra noi certa disciplina, accostumandoci ad
assecondare un impulso commune, ella ci piegava altresì a seguir coloro i quali
il governo austriaco aveva potuto incaricare d'esser capi del paese. Si
radunavano essi intorno a Casati e Borromeo. Il conte Gabrio Casati, podestà di
Milano, non aveva la dignitosa indolenza delli altri patrizii; ma irrequieto e
avido di titoli e decorazioni, non si vergognava di farne incetta. Erasi
meritato dall'Austria l'ordine della corona ferrea, e la reiterata nomina di
podestà. Ma quando gli parve intravedere che la casa Savoia potrebbe avere
occasione d'allargarsi in Italia, egli, per tenersi presto ad ogni evento,
erasi procacciato anche l'ordine savoiardo di S. Maurizio. Equilibratosi così
fra i due governi, attestava ad ambedue la sua devozione. Quando una delle
arciduchesse d'Austria andò sposa ad uno dei duchi di Savoia, egli fece pagar
le spese della duplice fedeltà ai Milanesi, sciupando il valsente di
sessantamila franchi in un inusitato dono nuziale alla coppia austro-sarda. Il
conte Casati si sarebbe fatto in due per servire ad ambedue le corti. Non
potendo spartir sè medesimo, spartì la sua famiglia, mettendo un figlio
nell'artiglieria di Carlo Alberto e un altro nell'università tedesca di
Innspruck. - Il conte Vitaliano Borromeo seguitava, alquanto più signorilmente,
li esempli del podestà; mendicava alla corte austriaca il toson d'oro, scudo
inviolabile contro li arresti; costringeva un figlio a entrare nella prelatura
romana ai più tristi giorni di Gregorio XVI; e un altro figlio a vestire
l'uniforme austriaco. S'ingegnava così d'essere ad un tempo cesareo e
pontificio, guelfo e ghibellino. - Codesti ciambellani, che si erano messi ora
a capo delle dimostrazioni del popolo, del quale in tutta la privata loro vita
si dimostravano pur troppo non amanti e schivi, non potevano uscire dal cerchio
magico delle idee d'anticamera; nè aspirare a maggior cosa che a mutar padrone.
|