IV
La sollevazione
La sera del 17
marzo uno degli amici miei, che veniva all'istante dalla casa del conte O'Donnel
vicepresidente del governo, avendomi annunciato che una nuova sedizione in
Vienna ci apportava l'abolizione della censura, io deliberai tosto di por mano
pel dì seguente alla publicazione d'un giornale. Parevami propizio il momento
d'indirizzare i cittadini a estorcere immantinente all'attonito governo quanto
più si potesse d'armamenti e di libertà ; e recarci sopratutto in poter nostro
i nostri soldati. Conveniva metterci in grado di dar principio alla lega
italica con mani guernite, sicchè il vicino regnante, fattosi costituzionale da
troppo pochi dì e solo per nostro amore, ci fosse alleato se voleva, ma non
padrone. Ricordo nuovamente, che l'impresa dei cittadini comprendeva il
conquisto dell'indipendenza insieme e della libertà. Una indipendenza servile,
una indipendenza all'austriaca o alla russa, non mi pareva cosa da farsi se non
per disfarla da capo. Per siffatte mezze imprese non mi pareva lecito
insanguinare la patria.
Aveva appena
finito di scrivere in fretta il mio primo foglio, quando poco dopo l'alba due
amici vollero entrare da me, ragguagliandomi che il podestà Casati, dopo
mezzodì, doveva recarsi dal Municipio al governo, per dimandare a nome del
popolo alcune concessioni; volevano essi avere l'avviso mio su ciò ch'era per
loro a farsi, nel quasi inevitabile evento d'un conflitto. Questa smania di
correre immantinente alla forza, quando nulla si era fatto per possederla e
ordinarla, mi pareva troppo favorevole al nemico, che sapevamo presto e
bramoso. - "Il podestà farà mitragliare i cittadini, io dissi; egli va da
cieco dove spingono; ma voi con che forze volete assalire una massa di
ventimila uomini, che si è preparata di lunga mano a fare un macello, e lo
desidera? Quanti combattenti avete?" - Quei giovani non avevano a mano che
qualche dozzina d'altri cacciatori. - "Non vedete, risposi, che vi
vogliono parecchie migliaia d'uomini bene armati e ben comandati?" - Mi
dissero che tutta la città si sarebbe mossa, e che si avevano pronti
quarantamila fucili. - "Questi quarantamila fucili li avete visti?" -
"Non li abbiamo visti, ma sappiamo che il comitato-direttore li aspettava
di Piemonte." - "Andate dunque prima a vedere se sono arrivati ;
andate al comitato-direttore. E siete poi certi che codesto comitato vi sia?"
- "Senza dubbio; tutti ne parlano." - "Ebbene, vedrete che
infine non avremo nè comitato nè fucili. Io conosco da un pezzo codesti
ciambellani; hanno una fede cieca in Carlo Alberto; e saranno corrisposti come
al solito. Carlo Alberto non ama la libertà; e non può amarla. Bisogna pigliar
tempo per armarci, e perchè tutta l'Italia si metta in grado d'ajutarci; non ci
vuol di meno che tutta l'Italia. Andiamo adagio; non cacciamo in bocca al
cannone un popolo disarmato, finchè almeno non ci mettano alla assoluta
necessità della difesa." - Li amici se ne andarono poco di me contenti. Ne
vennero altri; e si fecero li stessi discorsi; altri m'invitarono a non so
quale adunanza, a due ore, nella Galleria; io intanto portava a uno stampatore
il mio manoscritto.
Il podestà
andò veramente a fare la sua visita al governo. Credeva d'aver fatto solamente
un'altra delle sue dimostrazioni. E la ribellione scoppiava; e contro ogni suo
intento, vedevasi correre a volo per la città il tricolore cisalpino. - A
quella vista, le guardie austriache restavano immote e stupefatte! - Se un uomo
metteva capo a una finestra, il popolo gridava che il posto degli uomini era
nella strada; i giovani uscivano d'ogni parte con pistole, sciabole, e bastoni.
Ma dei quarantamila fucili da truppa, di cui ci era fatta bugiarda
promessa, io per quanto avidamente cercassi, non ne vedeva un solo. Non mi
riescì di penetrare al governo; erano già barricate le vie, disarmate le
guardie, e alcune uccise. Esce dalla turba un giovine d'animo deliberato,
Enrico Cernuschi, e detta al conte O' Donnel tre decreti : licenza d'armarsi
alla guardia civica : abolita la polizia : consegnate le armi della sua
guardia, e ogni suo potere, al municipio. Poi condusse seco il conte
prigioniero; e s'avvia, col podestà e col regio delegato della provincia, in
mezzo alla folla armata, verso il palazzo municipale. Giunta la comitiva nella
via del Monte, è accolta dal fuoco d'un centinaio di soldati. Il podestà col
prigioniero si rifugia nella casa Vidiserti. Ed è per questo fortuito incontro,
che l'autorità municipale, ricapito dei cittadini e quartier generale dei
combattenti, si trovò in luogo sì remoto dalla sua sede. Il che Radetzki
ignorando, circondò alla sera da due parti il palazzo municipale; fece sfondare
le porte a cannonate, sperando di trovarvi a concilio tutto quel
comitato-direttore, intorno a cui volgeva con pari illusione il cieco odio del
nemico e l'incauta fiducia dei cittadini; e trascinò prigionieri in castello
quanti vi si trovavano a cercare ordini o novelle. La risolutezza e l'audacia
che fin dal primo istante mostrarono i combattenti, fecero credere al nemico
che una mano forte e sapiente governasse ogni loro moto; il che appare dalla
relazione che Radetzki stesso inserì nella Gazzetta Universale.
Impauriti dal suono a martello che sommoveva tutta la città, preoccupati dal
pensiero d'assicurare le communicazioni fra i tanti posti quà e là sparsi, e di
salvare i loro officiali e impiegati, li Austriaci si turbarono la mente,
obliarono ogni più opportuno provedimento, e fino a due milioni di denaro
sonante, deposti nelle varie casse della città. Il vecchio Radetzki medesimo,
dopo avere affaticato sei mesi a scavare il sanguinoso abisso in cui sperava
precipitare il popolo, si salvò con vil fuga in castello, dimenticando nel suo
palazzo perfino il suo farsetto e quella sua spada, ch'egli nei grotteschi suoi
proclami millantava da sessantacinque anni irresistibilmente vittoriosa.
Alle otto
della sera, Radetzki scrisse ai municipali, intimando loro di disarmare la
guardia civica; conchiudeva dicendo: "mi riservo poi di far uso del Saccheggio
e di tutti li altri mezzi che stanno in mio potere, per ridurre
all'obbedienza una città ribelle; ciò mi riescirà facile, avendo a mia
disposizione un esercito agguerrito di centomila uomini e duecenti pezzi di
cannone".
Il castello è
un ampio quadrato, centro dell'antica fortezza, di cui Napoleone fece
smantellare il poligono esterno; perlochè resta diviso dalla città per vasto
spazio. Da quel ricovero, Radetzki spingeva le due braccia dell'esercito lungo
al curva dei bastioni, cingendo e minacciando da quelli alti terrapieni tutta
la città e separandola dalla campagna. Ad ogni porta aveva collocato un grosso
di soldati con artiglieria; e di là spingeva li assalti per i corsi più diritti
e spaziosi che convengono al cuore della città. E quivi pure tennero i soldati
per tre giorni tutti i principali edificii, il Duomo, i palazzi del Vicerè,
della Giustizia, del Tesoro, del Municipio, del Comando Generale, del Genio
Militare, molte caserme, e tutti li offici della polizia. In agguato sulle
aguglie marmoree del Duomo, i cacciatori tirolesi ferivano qua e là per le vie,
e perfino nell'interno delle case, li uomini e anche le donne. I quartieri a
bella prima occupati dai cittadini non potevano dunque nemanco communicare fra
loro; e quello in cui un caso fortuito aveva condotto il quartier generale,
seguiva a mezzaluna le due vie del Monte e del Durino e nulla
più. All'intorno erano vie larghe, poco popolose, epperò malagevoli a serrare e
difendere, e aperte ai lontani tiri del nemico. Per tutta la prima notte, il
quartier generale non era difeso verso Porta Nuova se non da due deboli
barricate, e da una sessantina di giovani, che divisi in sezioni passarono la
notte esercitandosi, armati, com'era forse la metà di loro, con fucili da
caccia.
Si è fatto
computo che in quella prima notte la città tutta non avesse a fronte del nemico
più di tre a quattrocento fucili d'ogni sorta; poichè temendo che da giorno a
giorno uscisse precetto di rassegnare le armi molti le avevano mandate in
villa.
Al vedere il
misero armamento della città, irrequieto e ansioso io sollecitava, durante la
notte, li amici che vegliavano innanzi alla casa Vidiserti, a trasferire in
sito men pericoloso il quartier generale; essendochè allo spuntar del mattino
quel luogo, posto fra due strade come il palazzo municipale, sarebbe stato in
egual modo assalito e preso, con quanti mai v'erano. Mi rispondevano, che
avrebbero venduto caro la vita. Ma io replicava che non dovevano prepararsi a
soccumbere, ma piuttosto a vincere e vivere; epperò a nulla trascurare
di ciò che poteva dar vittoria. L'avviso mio, già presso al mattino, finalmente
prevalse. Cernuschi si adoperava intanto per farli accomodare in casa del conte
Carlo Taverna, posta dall'altro lato della via de' Bigli, ch'è angusta,
tortuosa e agevole a serragliare. Il giardino confinava con altri; onde prima
che il quartier generale fosse accerchiato, si avrebbe agio a trasferirlo
altrove. Cernuschi si procacciò la chiave d'un cancello che s'apriva dietro i
giardini, di fronte alla casa di Alessandro Manzoni; fece traforare il recinto
del giardino Belgioioso; e pose sentinelle sui muri delli altri; per modo che
quel primiero rifugio della casa Vidiserti divenne quasi un'opera avanzata,
dietro la quale erano più linee successive di difesa, con sicure vie d'uscita.
Siffatto gruppo di recinti e di barricate aveva nel mezzo quella casa con un
cortile rivestito di freschi del cinquecento, detta la casa Taverna antica
, dimora del console francese; ove, a lato del tricolore cisalpino, sventolava
quello della sua republica. La vista di quel vessillo e la fede nell'amicizia
di quella nazione poderosa, non furono senza effetto nel terribile momento nel
quale un intero popolo con sì esigue forze si cimentava sulla sanguinosa via
della libertà.
Tutto ciò era
fatto avanti lo spuntar del giorno e immantinenti si fece toccare a martello e
gridare all'armi. A tutta prima stavamo con certa apprensione che il notturno
riposo avesse mai rallentato li animi; ma a poco a poco si videro uscire i
cittadini e accorrere baldanzosi alle prime barricate; e in pochi stanti ai
capi delle vie già tuonava intorno d'ogni parte il cannone nemico.
In quel
monento il generale Rivaira comandante dei gendarmi, visto il decreto O' Donnell
che affidava ai municipali la polizia, mandò ad offerire al podestà i trecento
gendarmi ch'erano in Milano. Codesto reggimento, unico di tal milizia
nell'imperio e riservato alla Lombardia e al Tirolo italico, era assai
rispettato dai popoli, e poteva inoltre fornire officiali e sottofficiali. Ma
il podestà che voleva mutare il governo senza disobbedirgli, scrisse al
Torresani capo della polizia austriaca, dimandando il permesso d'accettare
l'offerta. E così se ne rimetteva a quella polizia medesima ch'era incaricato
di scacciare e di surrogare. Certo che quel Casati avrebbe fatto volentieri una
ribellione colla licenza dell'imperatore! - Ma la proposta sua, di
ricorrere al Torresani, sollevò un sì generale mormorio, che fu costretto a
lacerare la supplica. Scrisse adunque accettando i gendarmi; ma era tardi,
acceso già il combattimento, interrotto ogni passo. L'esserci mancata in sì
arduo momento l'adesione aperta di quella milizia, mise grave inciampo al moto
de' popoli, sopratutto in Lodi, Crema e Mantova; ciò ch'ebbe fatali effetti
sull'esito della guerra.
Tutto quel
secondo giorno si pugnò nelle diverse parti della città senza commune disegno,
sforzandosi ciascuno presso le sue case d'acquistar terreno, di abbarrarsi, di
scoprire armi e munizioni e toglierle al nemico. A sera, alcuni giovani,
infiammati dal combattimento e inaspriti dalla penuria delle munizioni e delle
armi mentre il Casati faceva complimenti alla polizia e il comitato direttore
non dava più segni di vita, dimandavano altri capi. I più sdegnosi volevano si
proclamasse immantinente la republica, e si mandasse a raccogliere armi e
officiali in Isvizzera e in Francia; altri dicevano che certi personaggi,
odiando ben più la republica che l'Austria loro antica protettrice, si
sarebbero piuttosto rifuggiti in Castello con Radetzki; e che l'opposizione
loro avrebbe disanimato il popolo, il quale fidando nelle loro dimostrazioni si
era avvezzo a seguitarli. - D'altra parte, come mai, sotto quella forma di
governo, ottenere aiuto dalli altri Stati d'Italia, tutti ancora principeschi,
e solo da qualche settimana raffazzonati a costituzione? - Non sapevamo ancora,
che in quei medesimi giorni il nome di republica risurgeva in Venezia.
Allora si
propose un governo provisorio. Intorno a ciò, io dissi che, se in siffatto
governo dovevano aver parte quei medesimi cortigiani, sarebbero stati di grave
impaccio durante il combattimento; e se non vi avevano parte, l'avrebbero tosto
discreditato e atterrato, valendosi della momentanea allucinazione del popolo e
dei soldati del re di Sardegna. Non trattavasi d'altro per il momento che di
combattere; bastava adunque fare un Consiglio di Guerra, di pochi e
deliberati, e solo per dare unità alla difesa, e cacciare il nemico. Il quale
incarico, come quello che offriva solo pericoli, non sarebbe ambito granchè da
quei ciambellani. Accolto questo avviso, si cominciò a scrivere i nomi dei
presenti, per procedere ad una qualche forma d'elezione. Ma molti altri ad ogni
momento entravano, in cerca d'armi, di munizioni e d'indirizzo; e in quell'onda
di gente sempre rinnovata, era mestieri ripetere da capo ragionamenti e
spiegazioni, a cui nel caldo di quei momenti poco badavano. Frattanto si faceva
notte; e Casati era sparito.
Cernuschi ne
andò in traccia, e infine lo ricondusse. All'alba del terzo giorno, entrai
nella sala ove parevano vigilarlo quasi come un prigioniero; e trovai che molti
lo sollecitavano ancora a fare un governo provvisorio. Al che rispondeva
seccamente, non voler egli uscire dalla legalità, voler egli essere altro che
il capo del municipio. Lo sollecitavano eziandío a chiamare li officiali
veterani per dirigere il combattimento; e ne citavano a nome parecchi; ma egli
pregava non lo inviluppassero con uomini già compromessi. E infatti alcuni di
quei veterani erano stati nella congiura militare del 1815. - Era adesso il
1848!
Alla fine,
invece d'un governo, Casati s'indusse a nominare alcuni Collaboratori al
Municipio. Erano i più della lega cortigiana, come Durini e Porro; altri
anco funzionarii austriaci, come Guicciardi. Affidò pure la polizia ad altro
funzionario, Bellati; e perchè questi era stato preso nel palazzo municipale e
chiuso in Castello, lo supplì con Grasselli, pur funzionario di polizia. Ecco
l'ordinanza:
"La Congregazione Municipale della città di Milano.
20
marzo 1848, ore 8 ant.
Considerando
che, per l'improvisa assenza dell'autorità politica, viene di fatto ad
aver pieno effetto il decreto 18 corrente della Vicepresidenza di Governo, col quale
si attribuisce al Municipio l'esercizio della polizia, nonchè quello che permette
l'armamento della guardia civica a tutela del buon ordine e difesa
degli abitanti, s'incarica della polizia il signor delegato Bellati, e in sua
mancanza il signor dottore G. Grasselli aggiunto, assunti a collaboratori del
Municipio il conte Francesco Borgia, il generale Lecchi, Alessandro Porro,
Enrico Giucciardi, avvocato Anselmo Guerrieri e conte Giuseppe Durini."
Così al terzo
giorno d'una ribellione vittoriosa, ch'egli chiamava gesuiticamente
un’improvisa assenza dell'autorità, Casati si appigliava al decreto d'un
vicepresidente prigioniero, onde permettere ai cittadini d'armarsi e
difendersi.
Infastiditi di
codesti avvolgimenti in faccia al pericolo, ci raccogliemmo in altra stanza per
fare il Consiglio di Guerra proposto già nella notte. Il mio nome trovandosi il
terzo nella lista che si rifaceva dei votanti, parecchi mi dissero di comporre
io medesimo il Consiglio, prendendo meco li altri tre nomi qualsiansi che fossero
primi in lista. Riputando necessità in tal frangente d'accettare quel segno di
fiducia, separai con un tratto di penna quei primi nomi ch'erano: Giulio
Terzaghi, Giorgio Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi; e scrissi in
capo al foglio: Consiglio di Guerra, composto per ora dai quattro primi
iscritti.
Rimovendo ogni
controversia di forme politiche e di confini principeschi, noi deliberammo di
parlare immantinente a nome dell'Italia e della Libertà. In fronte a tutti li
atti nostri era scritto: Italia Libera.
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