V
Il Consiglio di Guerra
Il primo
servigio che un Consiglio di Guerra doveva rendere, era quello di collegare fra
loro li sforzi finallora sconnessi, del popolo combattente. I corpi che il
nemico teneva nel cuore della città, si poterono con mosse molto semplici e
agevoli avviluppare; parecchi rimasero prigioni. Restò in nostra mano la
famiglia del direttore di polizia Torresani; e venne trattata con ogni
riguardo. Anche il conte Bolza, il più disperato de' suoi satelliti, quello che
aveva diretto le stragi di settembre e gennaio, restò senza scampo. Mentre si
cercava un nascondiglio, alcuni popolani vennero a dimandarmi, se trovandolo
dovevano negargli quartiere. - "Se lo ammazzate, risposi, fate una cosa
giusta; se non lo ammazzate fate una cosa santa." - Fu salvo. - Si dice
ora ch'egli abbia rifiutato di mettersi all'infame mestiere; e che anzi sia
andato a cercar pace a' suoi rimorsi in terra lontana. E' di fatto, che, fuori
del combattimento, i nostri non versarono una stilla di sangue. Per confortare
quei generosi sentimenti, il Consiglio di Guerra sparse per la città il
seguente avviso:
"Prodi
cittadini! - Conserviamo pura la nostra vittoria. Non discendiamo a vendicarci
nel sangue di que' miserabili satelliti che il potere fugitivo lasciò nelle
nostre mani. E' vero che per trent'anni furono il flagello delle nostre
famiglie. Ma voi siate generosi, come siete prodi. Puniteli col vostro
disprezzo."
Un officiale,
oriondo inglese, per nome Cracroft e il conte di Thun-Hohenstein furono i due
primi che vennero condotti prigionieri al Consiglio di Guerra. Pretendevano con
molta baldanza di non esser captivi ma parlamentarii, e dimandavano di venire
ricondotti. - "Come? parlamentarii? io dissi; il vostro esercito deve già
essere a ben tristi termini, se si adatta così presto a spedir parlamentarii a
ribelli!" - Alcune settimane dianzi, quel conte Thun, presso al palazzo di
suo zio il ministro Fiquelmont, aveva avuto una rissa col cittadino Borgazzi,
che lo aveva disarmato e battuto in viso. L'Allgemeine Zeitung,
stipendiata a invelenire la Germania in odio nostro, aveva spacciato quella
baruffa per un assassinio atroce, poco men che premeditato da tutta la nazione
italica. Avendo io dimandato al prigioniero, come avesse egli tollerato
quell'abuso sleale del suo nome, mi rispose sommessamente ch'era così piaciuto
ai superiori. Solo nei conventi dei frati può trovarsi cosa che simigli a
codesta disciplina austriaca. - In quel momento, essendosi condotti nella sala
tre altri ufficiali, i due primi non osarono più negare d'esser veramente
prigionieri; e l'inglese, dicendosi amico del console britannico a Venezia,
Clinton Dawkns, ch'io pure conosceva, mi pregò di dargli una muta di
biancherie; il che non gli negai. Tale fu sempre il nostro procedere, mentre li
austriaci fucilarono quasi tutti i prigionieri, e tennero per trentasei giorni
senza cambio di camicia anche li innocenti ostaggi. D'ora in ora annunciavamo
ai cittadini le buone novelle; il che li teneva animosi e lieti. In quelle
righe comunque brevi gettavamo, ove si poteva, un motto di politica.
"Cittadini!
- Il generale austriaco persiste, ma il suo esercito è in piena dissoluzione.
Le bombe ch'egli avventa sulle nostre case, sono l'ultimo saluto della tirannide
che fugge.
Molti
officiali si danno prigioni. Interi corpi atterrano le armi avanti al tricolore
italiano. Alcuni, trattenuti dall'onor militare, domandano a deliberare un
istante, supplicandoci di sospendere il vittorioso nostro foco.
Cittadini, perseverate
sulla via che correte; essa è quella che guida alla gloria ed alla libertà
Fra pochi
giorni il vessillo italico poggerà sulla vetta delle Alpi. Colà soltanto,
noi potremo stringerci in pace onorata colle genti che ora siamo costretti a
combattere. Cittadini, fra poco avremo vinto; la patria deciderà de' suoi
destini; ella non appartiene ad altri che a sè. I feriti sono raccomandati
alle vostre cure; alle famiglie povere provederà la patria."
Si fece
appello a quei veterani che esitavano a mettersi fra i combattenti. - "Non
è mai delitto difendere la patria", si diceva loro. Si suggeriva al popolo
che nell'atto di cacciare il nemico dai publici stabilimenti, non lasciasse
commetter guasti; e il popolo salvò le raccolte scientifiche, i dipinti, le
carte, e i denari. Si publicarono i nomi dei poveri cittadini che con
ammirabile astinenza e fedeltà consegnavano li oggetti preziosi venuti in loro
mano. Il saccheggio e l'incendio furono armi lasciate ai nostri nemici.
Verso il
meriggio del terzo dì, un parlamentario venne scortato dai cittadini al
Consiglio; era un maggiore de' Croati Ottochan; credo quello stesso Sigismondo
Ettingshausen che poscia trattò la resa di Peschiera. Decoroso della persona, e
ravvolto poi nel mantello come in atto di farsi ritrarre, ei dichiarò che il
generalissimo Radetzki lo mandava a rilevare quale fosse la mente dei
magistrati della città. Ciò udito, noi lo indirizzammo nella sala ov'era la
municipalità coi nuovi suoi collaboratori. Dopo un quarto d'ora, il
Casati fece invitare noi pure a prender parte al colloquio; e avendoci esposto
come il generalissimo, cedendo a un senso di umanità, avesse dato al maggiore
l'incarico che si è detto, aggiunse che il municipio proponeva un armistizio di
giorni quindici; il quale intervallo pareva necessario, affinchè il maresciallo
potesse far conoscere in Vienna il nuovo stato delle cose, e ottenesse le
facoltà di fare le opportune concessioni. Casati, intendendo dunque che il
generalissimo consegnasse nelle caserme tutti i soldati, e impegnandosi dalla
sua parte a far desistere dal combattimento i cittadini, desiderava di sapere
se il Consiglio di Guerra volesse a tal uopo interporsi presso i combattenti.
Esplorato con
uno sguardo l'animo de' miei colleghi, mi rivolsi al conte Casati, facendogli
considerare, che non mi pareva già più possibile distaccare i combattenti dalle
barricate. - Casati rispose, che lo si potrebbe ottenere a poco a poco. - Gli
dimandai allora se, dato il caso che lo si potesse, eravamo ben certi che la
prima notte che avremmo dormito nei nostri letti, non saremmo tutti sorpresi e
appiccati -.
Il maggiore,
mostrandosi offeso, m'interruppe dicendo: - "Signore, non contate voi per
niente l'onor militare?" - "Credete voi, signore, io gli risposi, che
l'onor militare ci assicuri dalla polizia e dal giudizio statario? Chi può dire
che le ostilità sospese non vengano a ripigliarsi da un momento all'altro, per
il fatto proprio d'un soldato o d'un cittadino? Dopo aver provato le primizie
della vittoria, è difficile che i cittadini si rassegnino a soffrire più a
lungo la presenza dei soldati stranieri. E' già il terzo giorno che il tocco
delle nostre campane chiama all'armi il paese intorno; il fragore del vostro
cannone deve essersi udito fin dentro la frontiera svizzera o piemontese. Senza
dubbio, in questo istante i nostri amici sono in via per soccorrerci; assediati
come siamo nel centro della città, non ne abbiamo certa notizia; pure dall'alto
dei campanili scorgiamo moti insoliti. E' ben certo ad ogni modo che il suono a
martello deve giungere d’un campanile all'altro sino ai confini del regno. Se,
data la parola dell'armistizio, vedessimo poi le vostre truppe approfittarsene
per piombare al di fuori sui nostri amici, noi non potremmo rimanere testimonii
impassibili, senza esser chiamati vili da loro; nè potremmo uscire a
soccorrerli, senza esser chiamati perfidi da voi. Signor maggiore, una delle
due: o il combattimento deve continuare per tutta la superficie del paese: o
l'incendio si deve spegnere allo stesso tempo dappertutto, col separare
dappertutto i due elementi nemici. Se il vostro maresciallo è veramente mosso
da senso di umanità, una cosa sola può fare; può lasciare nel regno i soldati
italiani, che formano una parte considerevole del suo esercito, e condur fuori
dal confine tutti li altri. I soldati italiani, i gendarmi e le guardie civiche
sono ben più che non bisogni a conservar l'ordine sino a che arrivino le nuove
istruzioni da Vienna.
Il parlamento
facendo allora un atto di sdegno: - "Come, signore! mi disse, volete che
un maresciallo con cavalleria e artiglieria si ritiri inanzi ai
cittadini?". -
"Mi
pareva, io gli risposi, che non m'aveste parlato d'operazioni di guerra, ma di
misure di pace e conciliazione, che sono poi suggerite al vostro maresciallo
anche dai veri interessi del suo governo. Se nella settimana passata egli
riputò opportuno di far partire i granatieri italiani, egli può trovare
egualmente opportuno in questa settimana di far partire i granatieri ungaresi e
richiamare li italiani. Si tratta solo d'un cambio di presidii; il quale può
ben essere divenuto convenevole per effetto dei grandi e impensati avvenimenti,
poichè le ultime novelle di Vienna sono tali, che l'autorità militare ha il
diritto, anzi il dovere, di riformar le misure pocanzi prese. Quei ministri che
avevano comandato di mitragliare e bombardare senza riguardo al sesso e
all'età, sono in questo intervallo caduti. Come mai gli ordini che hanno
slanciato allora, potrebbero vincolare adesso il depositario d'un'alta autorità
militare? Certo, che s'egli non ne sospende l'adempimento fino a che i loro
successori abbiano parlato, è forza dire che non pensa punto alla gravissima
risponsabilità che si assume." -
Il maggiore
ripetè con molta gravità ch'era sempre "una ritirata".
-"Chiamatela
pure, se vi piace, una ritirata ; tanto meglio, se, colla scusa d'un mutamento
di massima, avete l'occasione di fare una sicura e onorevole ritirata. Il grido
d'allarme e la campana a martello avranno fra poche ore sollevato tutti i
popoli fino alle Alpi. Essi ponno intercettare le gole dei monti, che senza il
loro aiuto in questa stagione non si passano; essi ponno togliervi ogni
ritirata e ogni soccorso. Al contrario, col separare i due elementi nazionali
già divenuti irreconciliabili, il vostro generalissimo potrà vantarsi d'essere
entrato nel nuovo ordine europeo, e di conformarsi ad alte ragioni di Stato; e
frattanto in verità, avrà salvato il suo esercito."
Durante tutto
questo diverbio, il tetro volto del podestà Casati mi accennava profonda
ansietà e riprovazione. Sempre ciecamente persuaso che bastasse acquistar tempo
a Carlo Alberto d'arrivare in nostro soccorso, quando in fatti poi Carlo
Alberto non si mosse se non dopochè fu ben certo della nostra vittoria, egli si
lagnava che noi, pocanzi contrarii al combattimento, ora fossimo così poco
propensi ad arrestarlo. I suoi collaboratori mostavano tutti la stessa
persuasione. Ma io mi vedeva secondato da miei colleghi, e da molti giovani che
a poco a poco si erano messi nella sala, tutti ansiosi e frementi che si
volesse porre inciampo a un combattimento vittorioso, e si desse alla polizia
il tempo di raccapezzarsi, e di tesserci un tradimento.
Entrò in
quell'istante un prete della chiesa di San Bartolomeo, a ragguagliarci che li
Austriaci vi avevano trucidato allora allora il predicatore quaresimale, e
commesse altre enormità. Il maggiore, che stava appunto vantandoci l'umanità e
il buon volere de' suoi, ne parve assai turbato, e si volse a interrogare il
prete. Frattanto li astanti si raccoglievano in crocchi, caldamente disputando
intorno all'armistizio. Ciò vedendo Casati, richiese il maggiore che volesse
ritrarsi nella sala vicina, affinchè i cittadini potessero deliberare fra loro
della risposta.
Il maggiore,
sedendo nella sala del Consiglio di Guerra, mirava attonito quella gioventù che
in folla entrava e usciva, e che al vederlo colà, e all'udire la cagione della
sua venuta, prorompeva unanumie nel più sdegnoso biasimo d'ogni tregua.
Dopo un quarto
d'ora, Casati fece rientrare il parlamentario, e gli disse: "Signore, non
abbiamo potuto metterci d'accordo. Vogliate dunque rappresentare a Sua
Eccellenza, da una parte, i sentimenti della municipalità, e dall'altra, quelli
dei combattenti, affinchè possa prendere in conseguenza le sue
risoluzioni". - Fu ben dolorosa la meraviglia che a tutti i presenti
cagionò quella dichiarazione, in cui la municipalità pareva separare la sua
causa dalla nostra.
Il maggiore
prese allora congedo. Sceso sotto il portico, sostò ad aspettare che gli si
bendassero li occhi. Ma non fu fatto; non parve esservi cosa in città che fosse
prezzo dell'opera celargli. Commosso visibilmente da quanto aveva veduto,
strinse la mano ad uno dei cittadini che lo avevano accompagnato, dicendogli
col suo straniero accento: addio, brava e valorosa gente. - Da
un'intera generazione, era quella forse la prima volta, che uno straniero
diceva al nostro popolo una parola di giustizia!
Si publicò
tosto il rifiuto della sospensione d'armi; ma senza accennare il tristo dissenso
ch'era stato fra noi. Questo riserbo spontaneo risparmiò allora al Casati e a’
suoi la diffidenza e lo sdegno del popolo.
A un'ora dopo
il meriggio di quello stesso dì, la municipalità dichiarò publicamente
d'assumere ogni potere, sino al ristabilimento dell'ordine e della
tranquillità, e d'aggiungere a suoi collaboratori Stringelli e Borromeo. Il
futuro governo di S. M. Sarda era dunque già costrutto; gli macava solo di
ripudiare apertamente il nome austriaco, e di riconoscere il nuovo padrone. Faceva
senso doloroso a molti l'identità del nome, fra parecchi di coloro che ora
mettevano le mani sul potere, e coloro che nel fatale interregno del 1814 ci
avevano fatti servi dell'Austria. Più sollecitata di mettere radice alla sua
potenza che non di vincere, la municipalità istituì, quel giorno stesso,
comitati di non so quale finanza e di non so quale polizia, ove pose in gran
numero i suoi clienti, riservandosi poi d'allontanare a miglior tempo quelli
che allora non poteva escludere. Contrapose al nostro Consiglio di Guerra un Comitato
di difesa; ma com'era naturale, gli riescì composto d'uomini coraggiosi
e stranieri alla corte; onde, invece d'assecondare le misteriose insinuazioni
sue, si affratellò lealmente con noi. Lo componevano Carnevali, Luigi Torelli,
Ceroni, Antonio Lissoni e Augusto Anfossi; il quale ultimo, fu il dì seguente
ucciso da una palla in fronte.
In quelle
prime giornate, avidi alcuni d'avere armi e polvere si spingevano a cercarne
anco fuori delle barricate; e si ponevano alle porte delle case, sperando che
sopravenisse qualche drappello di nemici per corrergli sopra e afferrarlo e
disarmarlo, essendo che l'Austriaco è naturalmente meno destro e meno audace
dell'Italiano. A S. Francesco da Paola, vidi il cadavere ancora spirante d'un
soldato, che un giovine, balzando fuori da un vicolo, aveva disarmato e
coll'arme stessa ucciso, sotto li occhi d'un intero battaglione.
La penuria
delle armi dava un aspetto singolare alla pugna; poichè il popolo non le voleva
vedere in mano di chi non gli paresse ben esperto a maneggiarle. Rare volte si
spendeva un colpo, dove la vicinanza del nemico non lo rendesse quasi certo.
Al quartier
generale si distribuiva ai combattenti la polvere quasi a prese; contenti
d'averne anche solo per uno o due colpi, correvano a lontane barricate; poi
tornavano a cercarne ancora. Alcuni studenti, ai quali si dimandò perchè non
tirassero se non di concerto e l'uno dopo l'altro, risposero che temevano di
spendere due tiri per uccidere un Croato solo. Il nostro foco era
dunque lento e raro, ma micidiale, mentre il nemico, ridondante d'armi e
munizioni, e manifestamente sgomentato, prodigava il suo, cacciando le palle di
cannone a fracassare fin presso al tetto balconi e finestre. Intorno alle
barricate, i ragazzi facevano mille burle al nemico, sviando il suo foco sopra
qualche gatto, o qualche cappello calabrese confitto sopra un manico di scopa,
e dando così agio ai nostri d'appostarlo con maggior sicurezza. Radetzki, nella
sua relazione, attribuì l'efficacia della nostra difesa, non a questa cura
nostra di fare il miglior uso delle poche forze, bensì alla perizia d'officiali
stranieri ! Ma dopo il terzo giorno, dopo la presa di tanti edificii, nei quali
il nemico aveva accumulato molte materie di difesa, quella penuria ebbe fine.
Le barricate
intanto divenivano sempre più numerose ; se ne contavano nella città da mille e
settecento; e caricate assiduamente con sassi, potevano resistere anche al
cannone. Intorno ad una, ch'era di fronte al Castello, ed era costrutta con
lastre di granito legate con catene e ingombre di terra, si raccolsero
settantadue palle. Li allievi del Seminario barricarono coi loro letti il largo
di Porta Orientale, sotto il più violento foco. Attraversate alle vie si
vedevano balle di merci, mobiglie, carrozze eleganti; v'erano mucchi di tegole
sull'orlo dei tetti, mucchi di sassi ad ogni finestra; rotti in molti luoghi i
ponti; sfondati i sotterranei canali.
Presso la sera
del terzo giorno, la bandiera tricolore fu inalberata sulla aguglia del Duomo
da Luigi Torelli e Scipione Bagaggia. Nella terza notte, anche il corpo che
aveva espugnato il palazzo municipale, e contava parecchie centinaia di
soldati, vedendosi stretto e tempestato d'ogni parte, si salvò vergognosamente
a tutta corsa, trascinando stupidamente seco i bambini del Bellati e sua
moglie, ch'era pur figlia del marchese Ragazzi, il più zelante tra i censori
delle stampe; poco dipoi per effetto del crudele trattamento uno dei fanciulli
morì.
I soldati
facevano cose atroci; nelle case dei Fortis trucidarono undici persone inermi,
rubando quanto v'era di stoffe e di denari; al cadavere d'un soldato si trovò
in tasca una mano feminile adorna d'anelli; brani di corpi feminili si
trovarono mal sepolti in castello; più d'una famiglia fu arsa viva; infilzati
sulle baionette i bambini; nel ruolo dei morti si contarono più di cinquanta
donne; essendo però vero che alcune di esse erano fra i combattenti, anzi
combattevano audacemente. Si udivano officiali ben nati aizzare a crudeltà il
soldato, dandogli a credere bugiardamente che i cittadini facessero scempio dei
prigionieri. Tanto la condotta dei nostri nemici disonora la civiltà germanica
quanto quella del nostro popolo onora la infelice Italia.
Eravamo omai
padroni della cerchia più interna e popolosa della città, sino a quella larga
fossa che i nostri antichi scavarono per difendersi dall'imperator Federico, e
che venne poi rivolta ad uso della navigazione. Per communicare coi combattenti
omai lontani, imaginò Cernuschi una specie di posta, adoperandovi
principalmente li allievi d'un collegio d'orfani, che passano il giorno in
città ad apprendere i mestieri, riconosciuti pel loro vestimento,
attraversavano rapidamente la folla che custodiva le barricate, prestando opera
sollecita e sagace.
Ma era pur
mestieri sapere ciò che avvenisse fuori della fossa interna, d'onde sino alla
cerchia de' bastioni il nemico teneva vasta parte della città; ed era da
esplorare anche la circostante campagna. A tal d'uopo il Consiglio di Guerra
invitò li astronomi e li ottici a collocarsi su li osservatorii e i campanili;
e di là spedirci d'ora in ora brevi note; anzi, per non perdere tempo a
scendere e salire per lunghe scale, alcuno imaginò d'attaccar quelle note a un
anello che si faceva scorrere lungo uno filoferro. E poco di poi si pensò di
mandare in aria palloni, che seco portassero i nostri proclami. Li Austriaci,
accampati sui bastioni, stavano attoniti mirando quelli aerei messaggeri
sorvolare alle loro linee, e li bersagliavano con vani colpi.
"Fratelli!
diceva uno dei proclami, la vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il
suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta tra due
fochi ed abbracciamoci."
In codesti
scritti volanti cercavamo d'associare all'insurgimento un principio d'ordine
militare:
"A tutte
le città e a tutti i communi del Lombardo Veneto. - Milano vincitrice in due
giorni, e tuttavia quasi inerme, è ancora circondata da un ammasso di soldatesche
avvilite, ma pur sempre formidabili. Noi gettiamo dalle mura questo foglio per
chiamare tutte le città e tutti i communi ad armarsi immantinenti in guardia
civica, facendo capo alle parochie, come si fa in Milano; e ordinandosi in
compagnie di cinquanta uomini, che si eleggeranno ciascuna un comandante e un
proveditore, per accorrere ovunque la necessità della difesa impone. Aiuto e
vittoria." -
Molti di quei
palloni caddero in luoghi ove li abitanti non avevano udito il suono del
cannone, o non ne avevano sospettato la causa; altri giunsero fin oltre il
confine svizzero, piemontese, piacentino. In molti dei nostri territori furono
segnale di sollevamento; dappertutto misero in fermento i popoli. Turbe di
contadini condutte da studenti, da medici, da curati, da doganieri, movevano
d'ogni parte verso Milano. Dall'alto dei nostri campanili si videro fra le
campagne le strade biancheggianti oscurarsi e ingombrarsi all'arrivo di quelle
moltitudini; e inanzi ai loro colpi fuggire le vedette nemiche. Cinquecento
uomini giunsero dalla Svizzera italiana, la quale per la sua vicinanza aveva
non meno di noi patito del nostro malgoverno; congiunti coi montanari del lago
di Como e ai giovani di quella città, vi avevano assediati e presi quattrocento
nemici con cinquanta cavalli in Borgo Vico, e ottocento presso Porta Torre.
Poi, sollevando nel passaggio loro tutte le ville, e combattendo con nuova
vittoria a Monza, erano giunti sotto le nostre mura, verso tramontana. Si
accozzavano quivi con una colonna che aveva preso trecento uomini a Varese; e
con un'altra sfuggita appena sul lago Maggiore ai satelliti del versatile Carlo
Alberto, che avevano comando di disarmarla. Dal lato di mezzodì, una squadra
partiva dalle vicinanza del Po, dietro le novelle apportate da un pallone; uno
di suoi capi, Gui di Milano, venne ferito a morte sotto i bastioni; e Trabucchi
di Belgioioso, povero padre di famiglia, fatto prigioniero mentre apportava
armi e polvere, fu tratto a Lodi e contro il diritto delle genti vilmente ucciso.
Il comitato di Lecco armava quel territorio, la Val Sassina, la Valtellina, e sommoveva la lenta Brianza. Bergamo mandò parecchie centinaia
de' suoi cittadini e valligiani. Gerolamo Borgazzi, ispettore della via ferrata
di Monza, raccolti duemila uomini, penetrò furtivo in città verso il meriggio
del quarto giorno, per convenir con noi dell'ora in cui quella sera assalire
dal di dentro e dal di fuori il bastione. Venne trascelta la Porta Tosa, presso la via ferrata di Venezia. Se non chè, nell'atto poi di guidare fra
l'oscurità i suoi all'assalto, cadde ucciso dalla prima palla nemica; e la
presa di quel luogo restò differita sin presso la sera del quinto giorno.
Intanto in
città un popolo ingegnoso e infervorato divisava mille modi di far fronte alle
esorbitanti forze del nemico. Si facevano cannoni di legno cerchiati di ferro,
tanto che reggessero a certo numero di colpi; si faceva polvere e cotone
fulminante; si fondevano palle; si raccoglievano con cura i proiettili nemici,
e vi si rinvenivano grosse medaglie di ferro fuso, improntate per dileggio
coll'imagine di Pio IX. I nostri scritti incalzavano senza posa il popolo:
"Si vanno
fondendo bombe e cannoni. Rimanderemo alla tirannide straniera le sue palle,
con suvvi scritto libertà italiana. Viva Pio IX."
E poco dopo:
"Alcuni acquedutti che passano sotto ai bastioni sono asciugati, e ci
mettono in communicazione col di fuori. Il palazzo del Genio Militare fu preso
dai nostri prodi colla baionetta; in tre giorni hanno già imparato a battersi
come veterani. Al di fuori, cinquanta uomini di Marignano hanno sorpreso con
un'imboscata un battaglione di cacciatori, che credendosi in faccia a corpo
numeroso si diedero alla fuga, abbandonando morti e feriti. Il nemico manca di
viveri; li officiali furono visti con pezzi di pane nero in mano. Il nemico ci
chiede un armistizio, certamente per potersi raccogliere e ritirare, ma è
troppo tardi; le strade postali sono ingombre d'alberi abbattuti; la sua
ritirata diviene già difficile. Coraggio; avvicinatevi d'ogni parte ai
bastioni; date la mano alli amici che vengono a incontrarvi; questa notte la
città dev'essere sbloccata da ogni parte. Valorosi cittadini, l'Europa parlerà
di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia."
E pochi
istanti dopo si ripeteva: "Prodi avanti ! la città è nostra; il nemico si
raccoglie sui bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fategli premura;
tormentatelo senza riposo; questa notte tutte le porte devono essere sbloccate.
Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano: le truppe
straniere dimandano tregua: non lasciate tempo ai discorsi. Coraggio;
finiamola per sempre. Viva l'Italia."
I discorsi,
onde lagnavasi il Consiglio di Guerra, si tenevano veramente. I consoli delle
potenze si erano frapposti fin dal principio del combattimento, e per dovere
verso i loro, e per amore d'umanità; e avevano a tal uopo con Radetzki e
Wallmoden un carteggio che fu già publicato. Ora, mentre dopo il mezzodì del
quarto giorno stavamo concertando con Borgazzi l'assalto al bastione, la
municipalità ci invitò a convenir seco lei della risposta da darsi ai consoli,
che sarebbero venuti a riceverla verso le tre.
Proponevasi,
diversamente dal giorno inanzi, non armistizio di quindici giorni, ma di tre;
libera una porta, si all'entrata delle vittovaglie, che all'uscita delli
stranieri, ed anco dei cittadini; ma non estesa la tregua alla campagna.
Casati,
assentendovi per sè pregò il collaboratore Giuseppe Durini a ripeterci un
sottile ragionamento che aveva già fatto ai municipali, provando che
l'armistizio avrebbe giovato più a noi che al nemico che lo dimandava! I
collaboratori e i loro seguaci se ne mostravano già tutti persuasi; tranne
Achille Mauri, che pure faceva già loro da secretario.
Invitato da'
miei colleghi ad esprimere il loro voto, osservai che dopo un nuovo giorno di
vittoria, il richiamare dal combattimento i cittadini era divenuto ancora più
difficile; e che non conveniva dar tempo al nemico di ritorcere tutte le forze
sulla campagna. - E infatti lettere intercette ci scopersero poi, che, s'ei si
avviliva a dimandare quella tregua, era solo perchè i tre giorni gli
abbisognavano per avere in Milano mille e duecento grosse bombe, sbarcate
allora in Piacenza.
Feci poi
considerare che quell'intervallo, oltre al dar agio al nemico di far macello
dei nostri soccorritori, avrebbe rallentato il vittorioso impeto dei cittadini,
i quali sarebbero atterriti poscia dallo spettacolo forse dei trucidati amici.
Feci considerare che l'esempio apportava contagio; che il primo giorno, la
città sarebbe abbandonata dai forestieri, dalle donne e dai timidi; il secondo,
lo sarebbe dai prudenti; e il terzo, anche dalli animosi. Conveniva ritenere i
forestieri fra noi; erano sempre un ostacolo all'incendio e al saccheggio, non
si poteva imaginare che il vessillo francese, sventolante a lato al nostro, non
dovesse imporre qualche freno alli eccessi. -
Allora il
conte Brorromeo raccomandò di non dimenticare che si difettava di munizioni, e
si avevano viveri solo per ventiquattr'ore. - Dopo le cose più sopra narrate,
non fu millanteria in me il rispondergli che il nemico, avendoci fornito fin
allora le munizioni, ce le avrebbe fornite ancora. Quanto ai viveri, che
dovevano durare solo per ore ventiquattro, gli risposi, aver io sciupato in cose
statistiche quanto tempo bastava per potergli far sicurtà che computi così
precisi non si potevano fare: - "Del resto, gli dissi, ventiquattr'ore di
viveri, e ventiquattr'ore di digiuno saranno molto più ore che non ci sia
mestieri. Il nemico sui bastioni non può reggere; è una linea troppo prolungata
(erano dodici chilometri); gli deve già riescire assai malagevole la
distribuzione dei viveri; e difatti in giro alla città Croati e Tedeschi sono
già ridutti a vivere di ruba. Questa sera, se riescono i concerti fatti or ora,
sarà spezzata la sua linea lungo i bastioni; e per poco che tardi a mettersi in
ritirata, non troverà più strade. - Infine, quando pur ci dovesse mancare il
pane, meglio morir di fame che di forca". -
I conti
Casati, Durini e Borromeo, propugnando fra quella tanta effervescenza d'animi
l'armistizio, si erano messi affatto a nostra discrezione; poichè si udivano
affollati all'uscio i giovani vociferare sdegnosamente contro qualsiasi
aggiustamento. Dopo essere uscito a tranquillarli, io pregai Casati a por fine
a un diverbio oramai ozioso; poichè troppo era manifesta l'impossibilità di far
deporre alla gioventù le armi, che aveva sì felicemente impugnate.
Dopo pochi
momenti, giunsero vestiti dei loro uniformi i consoli; e udirono il rifiuto
dell'armistizio dalla bocca dell'eroico podestà. Ancora quella volta, noi
concedemmo ai nostri avversarii un immeritato vantaggio; tanto è vero che non
operavamo per ambizione di parte, ma per sentimento di cittadini. Strinsi la
mano a quei rappresentanti dell'Inghilterra e della Francia, senza frammettere
allusione veruna ai nostri dissidii. E' verissimo però che nella lettera
indirizzata dal Casati ai Consoli, e da questi publicata, il rifiuto
dell'armistizio venne attribuito al volere del popolo.
Erano quei
signori appena usciti, che apparve in seno all'assediata città il conte Enrico
Martini, inviato allora del re Carlo Alberto a noi, come, poche settimane dopo,
fu inviato nostro a Carlo Alberto. Codesta correvolezza a pigliare incarichi
fra loro contraposti, ci ricorda il fu poeta Sgricci, che quando improvisava le
tragedie, si posava a destra per far la parte di Giasone, e poi a sinistra per
far quella di Medea.
Il Martini
doveva dirci, che se volevamo solamente far dedizione del nostro paese a quel
re, l'esercito suo verrebbe immantinenti in nostro aiuto; si trattava dunque di
costruir subito un governo provisorio, che potesse indirizzargli una
dichiarazione valevole. - Ed ecco il Consiglio di Guerra invitato un'altra
volta dal conte Casati e collaboratori a dire il suo parere. E' chiaro che la
politica della municipalità ci dava quasi più facende, che non la guerra col
maresciallo Radetzki.
Prendendo la
parola per i miei colleghi, dissi, che il paese era dei cittadini; che toccava
loro a disporne come intendevano; che nessuno aveva facoltà di darlo, senza il
voto loro, a chicchessia. Ora, non era quello il momento di chiamarli a
siffatte votazioni. Intenti a difendere le vite loro e le famiglie, non
potevano in quell'istante lasciare il combattimento per dedicarsi alle
deliberazioni politiche. Era altresì probabile che surgessero a tal proposito
dispareri, e fors'anco gravi dissidii. - "Signori, il giorno della
politica non è questo; abbiamo trovato intempestivo il pronunciare jeri l'altro
la republica; non è meno intempestivo il pronunciare quest'oggi il principato.
Dacchè Dio ci manda la libertà, teniamola almeno per qualche giorno. Vi è
dunque così molesto d'essere, una volta in vita vostra, padroni di voi?
Iniziate l'era novella col rispetto a tutti i diritti e a tutte le opinioni, e
col rispetto anche alle illusioni generose della gioventù, almeno fintanto
ch'essa sta combattendo per voi. Quando l'avremo finita col nemico, quando la
causa sarà vinta, allora vedremo. Allora potremo come nelli altri paesi
liberi, dividerci in quante mai parti vorremo." -
I servili
tornarono allora a ramentarmi il difetto delle munizioni e l'insufficienza
generale delle forze. - "Ciò dimostra, io dissi, che non occorreva
spronare con tanta fretta il popolo a una sollevazione per cui nulla si era
preparato. Il Consiglio di Guerra vide così chiara questa insufficienza, che
fin dal primo istante parlò sempre dell'Italia. E' necessario aver tutta
l'Italia; e forse nella presente scompagine delle sue forze, potrebbe non essere
ancora sufficiente all'impresa. Ora, se noi cominciamo a darci al Piemonte, non
potremo aver con noi li altri Stati d'Italia. Tornerà l'antica istoria dei re
longobardi e dei duchi di Milano, che misero in sospetto e nemicizia tutta la
penisola." -
Mi risposero
allora che la rimanente Italia non poteva apportarci soccorsi ben pronti nè
considerevoli, che il re Carlo Alberto era alle nostre porte; ed era necessario
metterci in sua mano se non volevamo sopportar soli tutto il peso della guerra.
Io risposi : - "Se con Carlo Alberto volete far patti, non è il momento;
sareste come il povero sulla porta dell'usuraio. Se volete darvi senza patti,
nessuna maggiore imprudenza. Come mai fidarvi a un principe che vi ha già
traditi un'altra volta, e che in questo momento medesimo vi lascia qui sotto
alla mitraglia? - E infine, siete stati contenti d'esservi dati nel 1814 alla
casa d'Austria?". -
Tutti
m'interruppero con somma veemenza, dicendomi che la casa d'Austria era
straniera. - "Sì, straniera; ma allora non ci avete voluto badare, come
adesso non badate a molte altre cose. Signori, le famiglie regnanti son tutte
straniere. Non vogliono essere di nessuna nazione; si fanno interessi a parte,
disposte sempre a cospirare colli stranieri contro i loro popoli. Io ho ferma
credenza che dobbiamo chiamare alle armi tutta l'Italia, e fare una guerra di
nazione. Se poi il vostro Carlo Alberto sarà il solo che venga a soccorrerci,
avrà egli solo l'ammirazione e la gratitudine dei popoli; e nessuno potrà
impedire che il paese sia suo. In ogni modo è inutile che voi glielo diate;
perchè, s'egli vince, il paese resta suo; e se non vince, non sarà mai suo,
nemmeno se glielo aveste a dare cento volte." -
La discussione
si accalorò; lascio a ciascuno degli interlocutori la briga di ricordare qual
parte vi prese. - Poichè vedendo quanto stringesse di precorrere, se pur si
poteva, la fazione servile, mi ritrassi con Cernuschi in angolo appartato per
fare immantinente un appello a tutta l'Italia, e dare a Carlo Alberto alleati,
da frenarlo se si poteva, e da proteggere la nostra libertà. Far di più io non
sapeva, oscuro cittadino qual era, e tratto dal caso troppo lontano da quella
via nella quale solamente le forze mie mi concedevano di servire alla patria. -
"La città
di Milano per compiere la sua vittoria e cacciare per sempre al di là delle
Alpi il comune nemico d'Italia, dimanda il soccorso di tutti i popoli e
principi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte." -
Mentre si
stampavano queste brevi righe, da spargersi tosto coi palloni, ne fecimo
correre alcune copie manoscritte; e in pochi momenti le presentammo alla
municipalità, colle firme di forse duecento cittadini. Il Casati rimase allora
assai perplesso. E pel momento non si arrese al Martini, che lo incalzava a
dichiarare immantinente un governo provisorio, che facesse la dedizione a Carlo
Alberto.
Frattanto il
conte Giulini, che si era messo allora fra i collaboratori del municipio, aveva
scritto un umile e flebile invito a Carlo Alberto, perchè avesse la
misericordia di salvare Milano da quella razza che l'aveva altre volte
distrutta. Attraversando l'anticamera, ov'egli leggeva a un crocchio il suo
scritto, gli dimandai di qual distruzione parlasse : - "Come vuole, signor
conte, che li Austriaci possano oramai distruggere una città, nella quale
appena possono reggere per qualche altra ora?". – “Ma si può sempre
temere”, egli mi rispose. - "Non è il luogo, gli dissi; non v'è altri in
tutta la città che mostri paura." - Egli rimise docilmente in tasca la
supplica.
Poco dipoi,
penetrò nella nostra cameretta il Martini, lagnandosi delle dubiezze e
debolezze del Casati e del Borromeo, e perciò sollecitandomi a comporre io
medesimo un governo provisorio, che facesse la formale dedizione dal re Carlo
Alberto desiderata e aspettata. - "Sa ella, mi disse, che non accade tutti
i giorni di poter prestare servigi di questa fatta a un re?" - Gli risposi
che il far servigi ai re non era cosa di mia portata; e che del resto io teneva
fermo doversi invitare tutta la nazione; era da molti secoli la prima volta che
avveniva di poter muovere a un solo fine e un solo sentimento tutti i popoli
d'Italia. Se poi ciò non riesciva, e Carlo Alberto restava il solo nostro
alleato, e occupava coll'esercito il paese, ne restava naturalmente padrone. In
questo caso, purchè solamente vincesse, i cittadini coll'acquisto
dell'indipendenza forse si consolerebbero della perduta libertà; ed egli
potrebbe riposarsi sulla loro gratitudine e rassegnazione; ma non doveva
esigere adesso il prezzo d'un servigio che peranco non ci aveva reso. Il conte
Martini avendomi allora pregato di mettere in scritto questi sentimenti, io gli
diedi la lettera seguente.
"Dal
Consiglio di Guerra, 21 marzo 1848.
La città è dei
combattenti che l'hanno conquistata; non possiamo richiamarli dalle barricate
per deliberare. Noi battiamo notte e giorno le campane per chiamare aiuto. Se
il Piemonte accorre generosamente, avrà la gratitudine dei generosi d'ogni
opinione. La parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola
republica, e riunirci in un sol volere,
Lo saluto
cordialmente.
“Carlo
Cattaneo.”
Senonchè, le
sollecitazioni del Martini, e più ancora la crescente sicurezza della vittoria,
dovevano in breve determinare la municipalità a dichiararsi governo provisorio.
Considerando adunque che in tal caso cesserebbe in noi quell'apparenza
officiale che poteva dare qualche effetto alla nostra opinione, abbiam voluto
raccomandare ancora una volta ai cittadini la federazione militare di tutti i popoli
d'Italia:
"Oramai
la lutta nell'interno della città è finita. E' tempo che le città vicine si
scuotano e imitino l'esempio di questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a
costituire un Consiglio di Guerra che lasci le cose di consueta amministrazione
ai municipii costituiti in governi provisorii. Per noi vi è un solo e unico
affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero e le reliquie
della schiavitù da tutta l'Italia. Invitiamo tutti i Consigli di Guerra a
limitarsi a questo. - Ci sarà grato ricevere loro immediate novelle e
intelligenze, per mezzo di commissarii che abbian animo degno dell'impresa. Noi
domandiamo ad ogni città e ad ogni terra d'Italia una deputazione di baionette,
che venga a tenere un'assemblea armata a piedi delle Alpi, per fare l'ultimo
nostro concerto colli stranieri. Si tratta di ridurli a portarsi immantinente
dall'altra parte delle Alpi, ove Dio li renda pure liberi e felici come
noi." -
Non conosco la
precisa forma della chiamata che la municipalità indirizzava a Carlo Alberto;
ma credo che quel giorno non osasse invocarlo se non come alleato. Ma il conte
Martini, che si era incaricato di recar prontamente la dimanda a Torino, fu
arrestato alle ultime barricate e ricondutto al Consiglio; fatto accompagnare
nella notte fino al bastione, ritornò ancora; e non uscì poi di città finchè
non fu libera e aperta.
Vedendo che la
vittoria avrebbe determinato la formazione d'un governo, io, benchè me lo
vedessi inanzi pur troppo già formato nei collaboratori del municipio, andava
pensando se non si potesse trar profitto della loro esitanza, per comporne un
altro che ispirasse fiducia alle famiglie timorose, ma fosse men servile che si
potesse. Ne gettai un motto al conte Pompeo Litta, che, come vecchio militare,
mi pareva rappresentar la presente necessità di pensare solo alla guerra e non
divagare dietro le ambizioni politiche. Ne parlai anche al marchese Cusani, che
avrebbe potuto arrecare nelle nostre finanze una capacità esercitata in grandi
industrie; ma egli non voleva incarichi che avessero publico apparato; ora, è
questo appunto che più ci necessitava. Vedendomi involto in sì spinoso negozio,
Terzaghi e Cernuschi mi sollecitavano a passi più deliberati. Anzi credo
dettassero una dichiarazione, in cui pare assumessero apertamente pel Consiglio
di Guerra l'incarico di comporre un governo provisorio; e intendevano poi di
persuardermi a firmarla, dicendosi sicuri che la gioventù ci assisterebbe.
Ma ciò non
poteva essere se non cosa del momento; io non m'illudeva; non poteva credere
che un governo, il quale non fosse devoto alle cupidigie di Carlo Alberto,
potesse reggere al peso dell'occupazione militare ormai inevitabile. Conosceva
quel principe, esercitato a sedurre e tradire, a lusingare e fucilare. Li
indefessi suoi facendieri avrebbero in pochi dì empita ogni cosa di discordie e
di rancori, al cospetto come saremmo, d'un nemico solito a risurgere dalle sue
disfatte. Le dimostrazioni a i giornali di Torino e di Genova sucidamente
adulatori avevano allucinati sino all'insania molti buoni; i quali, solo da sè,
e a forza di fatti e di disinganni, potevano ricondursi a più sana estimazione
delle cose.
Tutte codeste
pratiche si tenevano alla sfuggita, negli intervalli che i combattenti ci
lasciavano; ma le ore scorrevano veloci; e il conte Martini non partiva mai.
Infine, la notte tarda, la municipalità, temendo che noi c'inducessimo una
volta a prevenirla, deliberò di torsi la maschera della legalità austriaca, e
dichiararsi governo provisorio.
All'alba del
giorno 22, entrato nella sala del presidente Casati, fui il primo a
rassegnarmi; le necessità che avevano reso possibile il Consiglio di Guerra
erano cessate; perocchè l'officio nostro era stato solamente di riparare alla
pusillanimità dei municipali, di dare al moto popolare un'impronta schietta
d'insurrezione, e di rompere apertamente la sudditanza austriaca. Dissi al
conte Casati, che deponevamo il potere di cui per fatto dell'insurrezione ci
eravamo investiti; ma che, siccome molti operavano a nostro dettame, noi, se ciò
pareva opportuno, avremmo continuato a dirigerli nel combattimento, d'accordo
col Comitato di Difesa. In tal caso, giovava congiungerci seco in un unico Comitato
di Guerra, a cui presiederebbe un membro del governo provisorio. Dovendo in
sostanza poi le costui funzioni esser quelle d'un ministro della guerra, io
dimandai vi venisse destinato Pompeo Litta, che era già stato nella milizia del
regno d'Italia. Il Casati aderì; e scrisse in un foglio: "Comitato di
Guerra; Presidente: Litta; Membri: Cattaneo, Cernuschi, Terzaghi,
Clerici, Carnevali, Lissoni, Ceroni, Torelli". -
Ma il governo
provisorio non ebbe l'animo d'annunciarsi apertamente, Parlò della sua venuta,
solo per incidenza e di passaggio, nel conchiudere un'ordinanza d'altro
argomento. In essa faceva menzione, per la prima volta, dell'armistizio nei due
precedenti giorni "rifiutato ad istanza del popolo"; dichiarava
adottati dalla patria i figli dei morti in battaglia; assicurava ai feriti
gratitudine e sussistenza; poi soggiungeva:
-"Cittadini:
questo annuncio vi vien fatto dai sottoscritti, costituiti in governo
provisorio; che reso necessario da circostanze imperiose e dal voto dei
combattenti, viene così proclamato." -
Codesto modo quasi
furtivo di mettersi alla testa d'una rivoluzione, era consono alli altri atti
di quella fatale congrega, che in quattro mesi condusse per torte strade un
popolo fidente e generoso, dalla vittoria, all'impotenza e alla disperazione.
Grandi furono
tosto le lagnanze, pel silenzio assoluto che in quella dichiarazione il governo
serbava sulla sua futura condotta. Perlochè, nel giorno medesimo, deliberò
rimovere il sospetto dei cittadini, sostituendo nel seguente indirizzo alla
subdola reticenza una promessa mendace.
-"Finchè
dura la lutta, non è opportuno di mettere in campo opinioni sui futuri destini
politici di questa nostra carissima patria. Noi siamo chiamati per ora a
conquistarne l'indipendenza; e i buoni cittadini di null'altro debbono adesso
occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini
verranno discussi e fissati dalla nazione." -
Era necessario
porgere questi particolari, perchè rimanesse dimostrato quanto false siano le
accuse date poscia dai servili alli amici della libertà; i quali, alieni
dall'operare per amor di parte, esercitarono anzi una longanimità che poteva
parer quasi dimenticanza dei loro principii. Senonchè, essi confidavano nella
potenza che i principii recavono dalla prova del fatto e nel seno del tempo.
Il Consiglio
di Guerra contribuì a dare unità, vigore e legalità al moto del popolo; sventò
due volte que' tentativi d'armistizio, che spegnendo l'ardore della gioventù e
dando agio al nemico di riaversi, ci avrebbero rimessi subito nell'atroce sua
mano. Col motto a causa vinta additò la sola via di conservare fino al
dì della pace la concordia che ci faceva vittoriosi. Volle conciliare il voto
dell'indipendenza col rispetto alla libertà; volle sostituire alla conquista
piemontese la nazionalità italica, appellando tutta l'Italia sul campo
dell'onore, riservando l'arbitrio del futuro al congresso della nazione. Si
adoperò tanto a dilatare e infiammare l'insurrezione, quanto i suoi avversari
si adoperarono a esaminarla ed ammorzarla. Ma il Consiglio di Guerra visse solo
quarant'otto ore.
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