VI
Il Comitato di Guerra
L'esercito di
Radetzki non aveva più forza di domare la città. Rimaneva a noi di dargli lo
sfratto. A tal uopo bastava intercidere la sua linea sui bastioni; poichè i
corpi ch'egli aveva accampati ad ogni porta, sarebbero rimasi subitamente privi
d'indirizzo e di vittovaglie. Ma nel Comitato di Guerra i pratici inculcavano
di non far punte, e di allargarsi equabilmente in tutto il giro delle
mura; sicchè seguendo quella norma, avremmo dovuto giungere al bastione nella
parte di levante, ossia di Porta Tosa, che è la più vicina al cuore della
città. Ma è quartiere di poco popolo; onde mi pareva che ad occuparlo legassimo
molta parte delle nostre forze, senza potervi trovare di che ingrossarle. Non
opponendomi a codesto disegno, anzi prestandomi quanto per me si poteva ad
effettuarlo, pensava nondimeno che convenisse liberare immantinente un rione
anche più lontano, solchè potesse fornire gente e armi. La quale mi pareva una
regola ben chiara di quella nuova dottrina militare delle barricate, che Dio
destina a svergognare e conquidere li eserciti stanziali, solo ostacolo ormai
alla libertà delle genti. Avrei dunque anteposto di far impeto verso Porta
Ticinese, quantunque doppiamente lontana. Chiamata non a torto cittadella, ha
quasi un popolo suo proprio; e protende anche fuori le mura due sobborghi, tra
mezzodì e ponente, in riva ai due navigli; sicchè avrebbe intercetto a molto
maggior distanza le comunicazioni del nemico, e preclusagli una via di
ritirata. Mi volsi per tanto a quella parte; ove per giungere si varcava la Fossa interna della città, sovra una barca attraversata, presso al ponte dei Fabri. Al di là
l'aspetto dei quartieri dominati dal nemico faceva strano senso. L'occhio
attonito vi cercava indarno le vie frementi di baldanzoso popolo come
nell'interna città; li spazii erano affatto deserti; le porte e le finestre
gelosamente serrate; il rintuono di due batterie vicine e il grandinare dei
fucili si udivano soli in quella morta solitudine; un denso fumo velava ogni
cosa; era presso il meriggio, e pareva sera. Le case communicavano fra loro
secretamente per aperture praticate nelle camere, nelle cantine, nelli orti; e
nel percorrerle si smarriva ogni riconoscimento dei luoghi. Ad un tratto, si
rinvenivano congregate in certi loro ricoveri molte donne con infiniti
fanciulli, a farsi animo tra loro e aiutarsi. Le più povere, non essendo state
in tempo a ricevere al sabbato i pochi denari della settimana, non sapevano più
come fare; poichè era già il mercoledì. I nemici in quel vicinato avevano arso
donne e infanti; e per fare spavento e strazio, bersagliavano dal bastione le
case; quelle genti parlavano di loro come d'indemoniati. Mi dimandavano s'era
vero che colle bombe avessero già disfatto il Duomo. Più inanzi, famiglie
d'amici miei erano talmente serragliate per salvarsi dalle palle le quali
trapassavano finestre e usci, che in mezzo al vicino rimbombo ci fu forza
vociferare più d'un quarto d'ora per farle affacciare alle finestre ad
assicurarsi ch'eravamo amici. Ma non appena ebbimo fatto intendere che dovevamo
solo spingere attraverso alla via carri e carrozze; e quasi per incanto
balzarono fuori d'ogni parte giovani armati; e ancor prima di chiudere bene
quei ripari, bersagliavano audacemente i nemici accosciati sull'orlo del
bastione. Il coraggio è attaccaticcio come la paura. Intanto file di donne,
traendo a mano i figliuoli, e recandosi sotto il braccio il fardello delle cose
più care, uscivano dalle case ov'erano assediate, era già il quinto giorno; e
chine dietro le barricate e per i fori delle muraglie, si avviavano in salvo,
rendendoci affettuose grazie che fossimo venuti a levarle di mano a quei mostri.
Traforando un
altro muro e strappando un'inferriata, giunsimo dopo mezzodì entro l'ampio
recinto della dogana di Viarenna, che tocca il bastione, e lo domina in luogo
ove non è più largo di cinque a sei metri. Il Naviglio che esce dalla città,
passa quivi per disotto al bastione; ma i gabellieri erano fuggiti colle chiavi
del cancello; e si fece vana prova di forzarlo. I giovani impazienti
cominciarono, contro le mie istanze, a tempestare dalle finestre della dogana
il bastione, abbattendo anche alcuni ussari che portavano ordini; il nemico
s'accorse che si stava per aprir quivi la città; i Reisinger per una viuzza
laterale accerchiarono la dogana. Furono respinti; nel ritorno in città
trovammo due dei loro cadaveri attraversati alla via. Ma il cancello non si
potè più aprire; e il pittore Borgo Carati che più tardi vi si cimentò, ebbe a
ritornare col suo cappello calabrese forato da due palle, senza potervi peranco
riescire.
Qualche ora
dopo, il bastione veniva occupato, alquanto più a tramontana, dalla compagnia
del cittadino Colombo. Intanto dalla parte opposta della città, quelli ch'erano
con Luciano Manara, facendosi avanti con barricate mobili, fatte di grosse
fascine rotolanti, espugnavano la Porta Tosa, difesa da forse duemila uomini e
sei cannoni. E a sera, li insurti della campagna aprivano di forza Porta Comasina.
L'intento mio nel porgere questi particolari, non è di fare una descrizione del
combattimento, al che mi mancano troppi fatti; ma di additare quelle
circostanze che dimostrano come Radetzki non potesse assolutamente sostenersi
più a lungo in città. Le masse colle quali occupava isolatamente le porte,
venivano in quella sera ad essere fra loro separate; e sarebbero poi state ad
una ad una accerchiate dal di dentro e dal di fuori, e oppresse dal numero. La
ritirata era inevitabile, urgente. È un fatto capitale; e vuolsi mettere bene
in chiaro. Poichè si è poi asserito molto vanamente, che se Radetzki uscì
disordinatamente di Milano alla sera del 22, fu per sottrarsi all'esercito
piemontese; il quale veramente non comparve sotto le nostre mura se non dopo il
mezzodì del 26. La risoluzione di romper guerra all'Austria fu presa a Torino
la sera del 23, per effetto del tumulto che produsse nel popolo la nuova della
nostra liberazione. Quel manifesto di guerra fu il primo frutto della nostra
vittoria; e non viceversa. La cronologia è l'occhio dell'istoria.
Radetzki, per
celare la sua ritirata, giovossi della prima oscurità; faceva battere tutti i
suoi tamburi e tuonare tutti i cannoni, quasi intraprendesse un disperato
assalto; aveva messo il foco a varie case. Mentre io mi sforzava riconoscere da
luogo alto la posizione delli edificii che si vedevano ardere a levante e
settentrione, ad un tratto divampò verso ponente, dietro i torrioni del
Castello, una colonna altissima di fiamme, come se il nemico fosse a
distruggere quel ricovero che non poteva difendere. Ma era solo una vasta
congerie di paglia, di carri e di masserizie ch'egli abbruciava nel gran
cortile d'armi, per consumare, a quanto sembra, i cadaveri de' suoi, giusta il
suo costume di occultare quelle tristi prove della sconfitta. - Dicesi ardesse,
morti o vivi, anche alcuni prigionieri e ostaggi, dei quali nulla più si seppe,
e nessuna reliquia rimase!
Mentre il
bagliore delli incendii e la furia delle artiglierie teneva intento il popolo,
le colonne nemiche, richiamate da ogni parte e ammassate dietro il Castello,
sfilavano dense e furtive sui viali del bastione. Ma molti dei cittadini, fatti
accorti della mente del nemico, accorrevano a tribolarlo, prodigando oramai
essi pure il foco; dacchè nella sola caserma dell'Incoronata avevano rinvenuto
ventiquattro migliaia di polvere. Al di fuori, i montanari si aggrappavano
sugli arbori e sui tetti delle case per trarre di piano sul bastione. Di tempo
in tempo, e quando quella molestia era troppo grave, i battaglioni nemici
sostavano, rispondendo con poderose scariche. Li assidui colpi cingevano la
città d'un semicerchio scintillante; col mutare del vento udivasi, ora più da
una, ora più da altra parte, il battere a stormo dei sessanta campanili ormai
tutti liberi.
Il nemico
s'inoltrava lento e stanco fra mille ostacoli; in qualche luogo trovò il
bastione già ingombro di piante atterrate; spese tutta la notte a trarsi fuori
della città. Doveva condurre seco le artiglierie, le bagaglie, i feriti, più di
trecento famiglie d'officiali e d'impiegati stranieri, i decrepiti generali, li
sventurati che il capriccio militare aveva fatti ostaggi, e qualche migliaio di
soldati italiani. Molti di costoro erano stati saldi contro i colpi dei
fratelli; ma non tutti sapevano rassegnarsi a seguire nella fuga lo straniero.
Alle crociere delle vie, dove era facile sottrarsi, i generali paravano loro in
faccia la bocca del cannone; alla menoma esitanza, si udivano li officiali
gridar loro: o avanti o morti!
Alla fine il
nemico fuggiva. Quei cinque giorni gli erano costati quattromila
morti2. Di quattrocento cannonieri erano avanzati cinque;
l'artiglieria era data a condurre ai cacciatori tirolesi. Ecco ov'era giunto in
breve quel vecchio provocatore, che colle sue violenze aveva tratto un popolo
mansueto a farsi disperatamente ribelle, minacciava per barbara iattanza di
domarlo con le bombe e il saccheggio e li altri mezzi!
Egli è ben certo che quella risoluzione di fuggire con un esercito avanti a una
turba di quiriti, con tanto sacrificio della superbia militare e
dell'odio inveterato, fu atto d'animo bassi, ma forte; fu tanto ignominioso,
quanto prudente e necessario. Solo poche ore di dubbiezza; e le strade gli
erano rotte intorno; e Verona e Mantova, ribelli come Milano e Venezia, li
serravano le porte sul viso. La vasta Mantova era presidiata di tre
battaglioni, in gran parte italiani.
Scampato da
Milano sul far del giorno, e voltosi a Lodi, poichè la via più alta e asciutta
per le terre di Bergamo e Brescia era già preclusa, l'esercito vinto si trovò
nel mezzo del paese irriguo, lungo strade in ogni senso incrocicchiate e orlate
di fossi. Non era arduo per noi rompere tutti i ponti, rovesciare nei rivi le
strade, arrestare le aque e farle rigurgitare sui prati, atterrare le continue
piantagioni che li orlano e li attraversano, avviluppare il nemico in una
palude artificiale, ove il passo dei cannoni e dei carri fosse impossibile. Fra
noi si suol dare a quella moltitudine di fossati il nome appunto di rete : e tale
precisamente appare a chi la vede disegnata nelle carte. Ma l'esperienza non
aveva rivelato ancora al popolo quanta efficace difesa egli vi avesse.
Inoltre era
mestieri a ciò ch'egli fosse venuto in governo d'altri uomini che non erano
quei ciambellani malcontenti. Ed era mestieri che costoro avessero almeno un
disegno meditato, e tempo, e uomini, e forze, e denari, e cose molte che non
escono da terra all'improviso, e che forse, per ciò che si è detto, coloro non
amavano avere. Infine da cinque giorni non avevamo riposo; molti, dal primo
momento in poi non avevano riveduto le loro case; appena si potevano reggere in
piedi. Per fermo ci eravamo ben messi all'opera con tutto l'animo. Era voto
universale che s'incalzasse il nemico; ma volevasi qualche ora a lasciar
respiro ai più affaticati, a far rassegna della gente buona di camminare, ad
accozzare un armamento meno imperfetto che si potesse, a scegliere i capi, a
farli conoscere tra loro, a fornir tutti di polveri, cibo e denaro, e
sopratutto a stabilire precisamente ove andare, e che fare. Fra un nembo di
notizie esagerate e guaste che piovevano d'ogni parte, mi parve unico consiglio
fermare per un'ora in tutta la città il martellio delle campane, per
raccapezzare almeno da qual parte tuonasse il cannone. - Si udì solo verso
Marignano. - Era dunque chiaro, che li uomini di quella terra, o del Lodigiano,
da sè e ad insaputa nostra, contendevano al nemico il passo del Lambro.
Pertanto indirizzammo subito a quella volta i più volonterosi di Milano, e quei
che giungevano da Como, da Lecco e dalla Svizzera. Ma siccome il nemico, nel
suo passaggio, diceva dappertutto d'uscire di Milano solo per adunar viveri, e
di volere fra due giorni o tre ripiombare sulla città, colle forze raccolte di
tutti i presidii vicini, e colla gente che arrivava dal Veneto; e siccome noi
nulla sapevamo ancora della sollevazione operata in Brescia, in Cremona, in
Venezia : così fu forza raccomandare ai nostri combattenti sì mal provisti e
male ordinati, di tenersi sempre fra il nemico e le nostre mura.
In quel mezzo
la città s'era ripiena di gente venuta da tutte le terre intorno. Alcuni
avevano armi; altri venivano a cercarne; altri a salutare li amici usciti del
pericolo, o a non trovarli più; altri solo a satisfarsi nel vedere le vestigia
della pugna. Le turbe dei contadini stavano immote come greggie a rimirare i
cocchi e i mobili pomposi accavallati in mezzo alle vie, li spezzami delle
tegole sul terreno sconvolto, le mura crivellate dalle palle, le logge di
granito spaccate dal cannone, le reliquie tuttavia fumanti dell'incendio, i
cadaveri stesi da riconoscere nelli ospitali, o malsepolti in Castello e
abbandonati nelle fosse; e in mezzo a tanti orrori, mover serene quelle donne,
che colle mani loro aveva divelto i selciati e caricate le armi, e quel popolo
placido e faceto, che godeva a udirsi dire valoroso e vittorioso da quei duri
uomini dei campi e delle montagne.
Ma la turba
oziosa per poco non mutava quel terribile momento in uno spasso da carnevale.
La folla e la confusione ci crescevano impaccio nel dare alloggiamento ai
volontarii e viveri e armi; laonde ci parve mestieri fare a buona distanza
della città quasi un cordone, che diradasse quanto si poteva l'arrivo delli
uomini disarmati. E invitammo il governo a ordinare alle communi di trattenerli
alle case loro quanto si poteva. Lo invitammo anche a inviare in ogni distretto
uomini capaci di volgere a frutto quell'ardore dei popoli. Ma di ciò non si
fece nulla.
Una compagnia
di cittadini s'incaricò di vegliare notte e giorno il circuito delle mura, e
andar fuori pattugliando sulle strade maestre; cento Bresciani s'incaricarono
d'esplorare armati a maggior distanza; un'altra compagnia si avviò verso Melzo,
per raccogliere certi Croati vagabondi, e certi cannoni affondati fra le
risaie. Una compagnia d'ingegneri fu deputata a sopravedere le barricate in
città; e un'altra a curare che nel premunire le strade al di fuori, non si
facesse superfluo guasto delle piantagioni e costruzioni publiche e private.
Nello stesso primo
giorno della nostra libertà, invitammo i cittadini a dare il nome, o nella
guardia civica, o nelle colonne mobili che dovevano occupar subito le Alpi. Non
si potevano volgere a più adatta impresa quei giovani, tanto generosi quanto
inesperti dell'arte militare. Su quell'aspra frontiera, potevano ad un tempo
combattere e studiare, costringendo intanto il nemico a far la guerra in paese
sterile, e a tutta sua spesa; epperò con pochi soldati, e con nessun vantaggio
de' suoi cavalli e delle artiglierie. E il nome stesso delle Alpi, e del
confine d'Italia, e dell'italica fraternità, doveva accendere le menti. Ed è
l'idea che vincerà tutte le altre, le quali dai cortigiani vennero poste
inanzi; ma non sono di lunga mano eguali di grandezza e semplicità e verità.
E i giovani,
quanto più culti, accoglievano tanto più volonterosi quell'invito alla guerra
delle Alpi. E anteponevano mettersi a spalla la carabina, all'andare colle
insegne d'officiali recando fra le moltitudini armate il frutto dei loro
studii.
Pure,
l'esperienza mi ha persuaso non doversi commendare l'istituzione dei
battaglioni academici e delle legioni sacre, irrilevanti sempre per numero fra
le masse inerti. Egli è come se in corpo vivente si separassero i nervi dai
muscoli; l'intelligenza non ha dove incorporarsi; e la forza rimane senza lume
e senz'impeto.
Si
raccoglievano cavalli per cominciare un reggimento; Carnevali metteva scola
d'artiglieria; il toscano Montemerli di fanteria. Si riscattavano le armi
disperse; si facevano rimovere li ostacoli posti dall'Austria al commercio
delle armi; negozianti svizzeri, tedeschi e altri, sin da quando la città era
assediata, avevano già incarico da noi di recarsi nei loro paesi a raccogliere
quanto d'armi e d'altre cose da guerra si potesse. La fabricazione delle
polveri ebbe vasto incremento.
I promotori
delle dimostrazioni avevano accattato l'aura popolare, ma non avevano fatto
ordinamento alcuno dei popoli; ci fu necessità adoperarvi tosto qualunque
volonteroso giovine ci venisse fra quella agitazione alla mano. Li deputavamo a
munire i paesi in pericolo, a levar uomini, a dar loro quelle armi, quei capi e
quell'indirizzo che si poteva; e a trasmettere eziandío simile incarico ad
altri nei territori circostanti, ove per noi medesimi non si conosceva persona
da ciò. Tutte queste cose si facevano con precipitosa sollecitudine, e
piuttosto per mettere in capo agli altri di fare, che per fiducia che avessimo
di compiere noi quanto necessitava. Il mio protocollo, del solo giorno 23 di
marzo, conta 172 numeri; e ancora molte ordinanze non si trovano registrate.
L'esecuzione era pronta, e talora chiamava nel giorno medesimo altre ordinanze.
“Al
Comitato di guerra.
23
marzo
"Secondo
li ordini ricevuti, raccolsi la piccola truppa e m'avviai sulla strada postale
di Lecco, lanciando piccoli distaccamenti verso il Bergamasco per osservare il
nemico e molestarlo alle spalle. La mia truppa si è ingrossata col fare della
strada; e m'avvio a Lecco, spargendo nella Brianza altri piccoli distaccamenti.
Noi guardiamo lo stradale militare che mette allo Stelvio; faremo saltare
quella galleria, e preparammo già minato il ponte di Lecco. Quella truppa che
tanto si distinse all'assalto di Porta Comasina, si distingue ancora per la
sofferenza e l'infaticabilità.
A Monza
alloggio alla Villa già Reale; e domattina parto. Il municipio di Monza non si
distingue per il suo ordine, e per la sua cura. Tanto credo di loro annunciare
di tutta fretta, aspettando a Lecco una loro risposta.
F.
Ticozzi
Nella medesima
sera si provedeva.
Dal
Comitato di Guerra, 23 marzo
"Si
autorizza il sig. Giuseppe Scanzi a volersi recare istantaneamente in Monza,
onde prendere gli opportuni concerti, per riordinare la difesa di quella città.
Giulio
Terzaghi
Perchè si veda
come non si ristette per noi d'incalzare a forza di popolo il nemico cedente,
ci sia lecito recare le istruzioni che ancora in quel primo giorno di nostra
libertà dettammo di fuga ad Attilio Cernuschi uno dei sette che deputammo in
diverse parti del Cremonese.
"Il
commissario a Cremona, è specialmente incaricato di estrarre della massa dei
soldati che si sono sottomessi, alcune colonne mobili; le quali condotte da
capi di buona volontà e abilità (proveduti questi di aiutanti con cavalli), si
dirigano prudentemente sopra il nemico. - Il primo intento sarà quello
di mantenere coi debiti riguardi le communicazioni tra Lodi, Cremona e Crema,
spezzando il paese interposto, interrompendo le strade con fossi e barricate di
terra e piante, massime dove siano chiuse fra due aque, e formandovi ridotti
chiusi per ogni lato. - I corpi essendo privi d'artiglieria e cavalleria,
marceranno accompagnati da certo numero di carri, destinati parimenti a formare
improvisi ripari in qualunque situazione. Non bisogna dimenticare, che nello
spazio tra Cremona e Brescia si trova la gran massa delle forze nemiche; in
mezzo alle quali non bisogna avvilupparsi con masse irregolari, e senza
ordinamento fra loro. Bisogna sopratutto approfittare delle molteplici linee
d'acqua che interrompono il paese, difendendo e fortificando e punti di
communicazione.
Bisogna
premunire Cremona, spiegando qual sia il modo tenuto dai Milanesi nel barricare
le loro città; la cui efficacia fu provata dall'esito felice, e dalla continua
impotenza del nemico. Bisogna eccitare i Cremonesi a costituire immediatamente
un Comitato di Guerra, formato dai giovani più arditi e influenti, con qualche
uomo d'antica esperienza; ed esortarli a nutrire con assidui proclami
l'entusiasmo popolare. Il Comitato di Cremona dovrebbe inviare immediatamente
un rappresentante pressi questo Comitato centrale. Deve provedersi di denaro,
per mantenere le communicazioni, e mettere in attività gli uomini del popolo.
Deve instituire tanto la guardia civica per la custodia della città, quanto le
colonne mobili per le operazioni sopradescritte di campagna. Il comandante
d'ogni colonna mobile si metterà in relazione col capo dello stato maggiore
generale delle colonne mobili il sig. Giorgio Clerici.
La grandezza
delle gloriose nostre circostanze deve suggerire mille altri ovvii consigli e
partiti. E sopratutto deve destare una nobile emulazione nella primaria classe
delli abitanti i quali non devono rimanersi addietro di ciò che i loro parenti
e amici fecero in Milano.
Salute e
vittoria.
23 marzo
Carlo
Cattaneo
Il Comitato di
Cremona fu istituito; e molte cose operò; e ne diede ragguaglio; ma non ho la
sua lettera; trovo però la mia risposta;
"Vi si
rendono grazie della cara vostra di ieri. Ciò che avete operato merita lode; ma
non perdete tempo. Il nemico è in ritirata; e non potendo più valersi della
postale di Mantova, nè di quella di Brescia, va stentatamente ravvolgendosi per
tortuose vie verso la pianura bresciana, sia per riescire nel campo di
Montechiaro, sia per raggiungere i forti di Mantova, questa città essendo già
in potere delli abitanti. Raccogliete in colonne mobili i più animosi fra gli
uomini che avete; avvicinatevi più che si può al nemico per tribolarlo nella
sua lenta ritirata, ch'egli non può operare se non in ragione di sei o sette
miglia al giorno; - fategli rompere le strade sulla fronte. - Mettetevi
in relazione colli officiali, facendo loro offerta di buon trattamento, se si
arrendono. - Nei movimenti appoggiatevi ai luoghi abitati, per non essere ad
ogni evento sorpresi dalla cavalleria o dall'artiglieria. Fatevi accompagnar da
carri ingombre di fascine e materassi, per farne barricate ambulanti. -
Mettetevi in relazione colla colonna mobile bresciana; e colla milanese e
svizzera del comandante Manara, che deve trovarsi verso Soncino,
all'avanguardia delli ausiliarii piemontesi. Operate, operate, empite la vostra
pagina, come noi abbiamo empito la nostra. Vogliate scriverci ogni giorno.
Vi salutiamo
caramente.
28 Marzo
Carlo
Cattaneo
Non si
lasciava di dirigere e spingere i volontarii che giungevano d'ogni parte.
Ai bravi
Genovesi accampati sulla strada di Pavia.
N. 135.
Milano,
23 marzo.
Vi siamo
riconoscenti del soccorso fraterno che ci recate. Avete caro sapere che la
nostra città è salva e libera e affatto sgombra del nemico sino da ieri sera.
Il nemico
dirige le sue masse confuse e avvilite principalmente verso la strada di Lodi,
Crema, Cremona e Mantova in gran parte già attraversate e guaste. I suoi
movimenti divengono ogni istante più tardi e difficili. Valorosi amici ! Se
volete avere la vostra parte alla vittoria, non perdete tempo, sollecitate i
vostri passi sulle vestigia del nemico fuggente.
Dio ci voglia
felici, come ci volle liberi e gloriosi.
Viva l'Italia
Carlo
Cattaneo - Giorgio Clerici.
Altri furono
invitati a sollevare a tergo del nemico il Mantovano; Luigi Torelli fu mandato
il 24 in Valtellina, a sollecitare che si occupasse lo Stelvio, a far atto
d'amicizia coi Tirolesi dell'alto Adige che hanno favella tedesca, a legarsi
per passo d'Aprica colla Val Camonica, e quindi pel Tonale col Tirolo italico,
ove nello stesso tempo deputavamo un cittadino di quel paese. A quei primi
giorni in Trento, ove tutte le famiglie più potenti stavano per noi, vi erano
in tutto duecento soldati. - Ci rivolgemmo perfino al comandante dei civici di
Bologna, perchè varcasse il Po, e occupati i colli Euganei e i Berici, turbasse
tosto al nemico le strade di Padova e di Vicenza.
Non perciò
fidavamo solo in quell'impeto dei popoli e nella instabile volontà d'un principe.
Il Comitato nostro doveva essere il trapasso a un ministerio di guerra, che
ordinasse un esercito regolare. Certo era ad aspettatrsi che i ministri e
generali del re alleato mostrassero tutta la proverbiale loro alterigia a chi
non avesse fatto altra milizia che quella delle barricate. Chiamammo dunque
presso al Comitato i veterani dell'esercito italico; molti de' quali erano già
colonnelli e generali sul campo di battaglia prima del 1814, e quando i
generali presenti di Carlo Alberto erano ancora tenenti o guardie d'onore. Il
rispetto militare che al loro grado e all'esperienza si doveva, sarebbe stato
un riparo anche alli altri cittadini.
Ma con ciò
mettevansi a capi della libertà armata uomini avvezzi dalla gioventù alla
riverenza del comando assoluto, e irrugginiti inoltre da trent'anni d'ozio.
Pensavamo ovviare, ponendo loro a lato giovani solerti, che in breve si
appropriassero il frutto di quella perizia antica. Ma la calda gioventù non
amava rinunciare alle lusinghe della bella guerra, per incarcerarsi nelle
stanze d'un ministerio; e i veterani poi non volevano intendere qual parte
d'opera la patria da loro si aspettasse. Volevano imporre al moto spontaneo
d'un popolo le consuetudini d'un tempo d’obedienza, e le forme solenni d'un
ordine stabilito. Volevano, a cagion d'esempio, costituire subitamente un
ministerio completo in tutte le sue sezioni; al qual modo avremmo avuto in quei
primi giorni più gente nel ministerio che non nell'esercito; poichè si stava
ancora per fare il primo reggimento. Li feci pertanto accontentare d'una sola
secreteria, colle tre sezioni che la necessità delle cose sempre vuole : il
personale, il materiale, i conti.
Ponendo in
mano a quei veterani napoleonici la nomina dei nuovi officiali, volevamo
sopratutto preservarci da quella cancrena funesta al Piemonte, d'accomodare i
gradi dell'esercito ai gradi servili di corte. E v'era di peggio. Poichè al 26
marzo, il giorno medesimo dell'ingresso dei nostri alleati in Milano, il
governo provisorio, senza udire il nostro avviso, si era avvinto a commettere
l'istruzione del nostro esercito a officiali piemontesi fuori di servigio. E
come tali gli si mandavano poi slealmente da Torino uomini già scacciati
dall'esercito dal re; a cagion d'esempio, un Farcito De Vinea, il quale venne
messo tenente- colonnello del primo reggimento, a fianco dell'onorato nostro
colonnello Sessa; ed ebbe poscia a dimettersi, perchè l'Italia del popolo,
publicò i documenti del suo disonore. Ed è chiaro che quando il Piemonte dopo
trenta e più anni di pace chiamava in campo ogni sorta di soldati, li officiali
valenti e volenti non potessero trovarsi fuori di servigio: ma di ciò si dirà
diffusamente a miglior luogo.
Non solo il
governo provisorio lasciava per tal modo indegnamente avvelenare l'esercito nascente;
ma propendeva a indugiarne la formazione. Lasciava lungamente oziosi, poi
sbandava, forse tremila soldati italiani che si erano ribellati all'Austria in
Cremona e Pizzighettone, e ben altri settemila ribellati altrove. Metteva
impaccio di mille sottigliezze all'armamento. Nel primo giorno della nostra
liberazione, i nostri commessi avevano comperato in Lugano quattrocento fucili,
i soli che vi si trovassero in quel momento; e il governo tergiversava al
pagamento, onde estorcere un'agevolezza di mezza lira per fucile; e intanto il
cannone di Radetzki tuonava a Marignano; e quella terra era in fiamme.
Noi avevamo
naturalmente dato ai nostri l'uniforme verde ch'è il nazionale d'Italia; ma il
governo provisorio voleva di queto metterci addosso la divisa dei soldati del
re. Certo doleva a quei retrogradi che risurgesse colla tradizione dei gloriosi
suoi colori l'esercito ch'essi nel 1814 avevano tradito all'Austria. E citavano
frivole scuse, ora dicendo che il panno verde non si sarebbe trovato; ora dicendo
che quello era il colore men di tutti durevole. - Vedrà bene un giorno quella
gente servile il verde della bandiera d'Italia sventolare al sole della
libertà, quando la croce bianca e la coccarda azzurra saranno ricordi d'un
tempo che non ritorna.
La nostra
gioventù non volle vestire altro colore che il verde!
Il 25 marzo fu
dato dal governo provisorio il comando del futuro esercito a Teodoro Lechi.
Negò egli ai volontarii la licenza di combattere, citando la regola vecchia di
non opporre in campo aperto gente irregolare a soldati regolari. E fosse pure;
ma siccome non avevamo altra gente, egli era come dire che per allora non si
combattesse più. E spinse l'osservanza della sua regola fino a lacerare li
ordini, che avevamo spedito ai volontarii prima della sua nomina a comandante.
Recatomi tosto a lui per dimandargli schiarimento del suo procedere, non appena
ebbi agio ad aprir bocca ch'egli corse ad abbracciarmi; e li altri vecchi suoi
colonnelli e commissarii mi soprafecero tutti di carezze. Non sapendo omai più
come lagnarmi: "Volete dunque, dissi loro, che quei poveri volontarii che
hanno fatto quattro marcie per avere lo sfogo di tirare una fucilata alla
bandiera austriaca, tornino ai loro monti come sono venuti, perchè voi siete
inesorabili in una regola che non val più. Non volete che si avventurino in
campo aperto contro corpi regolari? Prima di tutto, è assai dubbio che un
esercito il quale si ritira in disordine e senza cannonieri, possa dirsi in
regola; è dubbio parimenti che sia da chiamare campo aperto un paese tutto
intralciato di campi e di fossi, anzi di vere paludi, i mosi di Crema. E poi
dove si può dunque inseguire il nemico, se non dov'egli è?" - I veterani
terminarono coll'adattarsi al mio parere; e subito il generale spedì a Manara e
Arcioni, ch'erano a Treviglio colle loro colonne impazienti e frementi,
l'ordine d'andare inanzi. Al mattino del 28, entrarono in Crema, nel momento
che la retroguardia di Radetzki usciva per la porta opposta. Furono primi a
varcare il Serio, l'Ollio, il Clisio; in tre giorni erano giunti sopra Salò, e
vi coglievano i nemici in atto d'ammanire una cena e d'estorcere una
contribuzione. Saliti tosto sulle vaporiere del lago di Garda, che i bravi
litorani avevano già prese, costeggiarono per Desenzano; e si spinsero fino a
bersagliare i cannonieri nemici sulle batterìe di Peschiera. Nei primi d'aprile
tragittarono il lago; si cacciarono tra Peschiera e Verona; e sotto il cannone
nemico predavano cinquecento barili di polvere.
Il lago di
Garda è il nostro confine verso la Venezia e il Tirolo. Nella terra della
patria, il campo a noi sortito era libero. Onore ai volontarii ! Essi tennero
quella frontiera, pugnando non solo contro il nemico, ma contro li alpestri
ghiacci e la più cruda penuria. La tenevano ancora ai primi d'agosto, quando il
magnanimo re era già fuggito nel suo regno.
All'efficace e
immediata formazione d'un esercito si opponevano difficoltà morali che nessuna
solerzia e costanza poteva superare. I servili avevano desiderio e lusinga che
si potesse far senza un esercito veramente nostro. Pareva loro che bastasse
consegnare il paese al re; a lui toccherebbe poi conservarselo a suo modo;
sarebbe affar suo; volevano conquistar per procuratore vittoria e
libertà. A fronte di sì stolte e codarde risoluzioni, non potevamo noi rimanere
lungamente a capo d'un'amministrazione di mero apparato, senza soggiacere un
giorno a vituperosa responsabilità. Vedevamo prepararsi non remoto un finale
disastro; e l'avevamo annunciato nella sala medesima del governo provisorio fin
dal 24; e con parole che allora parvero acerbe, e che in fine furono ripetute
da molti. E ora più che mai.
Già si vedeva
che in poche settimane ogni cosa rimarrebbe assorta nel vertice dell'autorità
regia. Si parlava già di affidare il nostro ministerio della guerra a un
generale piemontese. D'allora in poi dipendeva da Carlo Alberto, e dalli
ambigui suoi interessi di principe, l'aver noi un esercito, o non averlo.
Il governo
provisorio, impaziente di por fine a quelle cose di popolo, e di rimettere ogni
cosa nella rotaia dell'obbedienza, ci aveva già due volte invitati a sottoporre
alla sua firma ogni scritto che il Comitato di Guerra publicasse, e perfino le
notizie che solevamo dare della guerra. Voleva bendare li occhi al popolo; e lo
fece; e lo trasse seco al precipizio. Chi da quel giorno in poi disse una
parola di vero, fu additato spia dell'Austria; la verità, era oro austriaco. Il
governo che si spacciava eletto dal popolo fra le barricate, ripudiò, al terzo
dì della sua vita, il sacro principio della publicità. Ed era, perchè in
quell'istante medesimo gli giungeva avviso che Carlo Alberto nella sera
precedente aveva deliberato passare il Ticino. Speravano li ingrati non aver
più bisogno del popolo.
L'ultimo di
marzo, io e li altri tre membri del primitivo Consiglio di guerra dichiarammo
con un manifesto al popolo d'aver compiuto quanto ci spettava. Avendo fin dal
primo giorno invocato l'Italia e la Libertà, compiemmo invocando l'Unità d'Italia: - "Potesse Pio IX presiedere fra pochi giorni in ROMA, il
CONGRESSO di tutti i popoli italiani!"
Nel dì
seguente, il governo provisorio, dichiarandoci benemeriti della patria,
intraprese tosto a disfare ogni nostro avvisamento; decretò doversi ricomporre
il Comitato di Guerra in regolare ministerio, riordinarsi tutti li officii,
riservarsi a lui la scelta dei funzionarii. Profittò d'una malattia di Litta,
per mettere ogni cosa in mano al Colegno, e poscia al Sobrero; ambedue
piemontesi e fatti generali dal re. Fin d'allora l'esercito e il paese non
furono più nostri; le sostanze nostre, la vita e l'onore furono in arbitrio
altrui.
Ritornando
dopo quei dodici giorni di vita publica al consueto mio ritiro, non volli però
lasciare interrotta una cosa ch'io mi era posto in mente per relazioni che
aveva con alcuni studiosi Ungari. M'era persuaso che quella gente potesse
cattivarsi con qualche effetto alla nostra causa; poichè Austriaci e Croati
erano tanto i nemici suoi quanto i nostri. E siccome alcuni tra i prigionieri e
i feriti erano di lingua magiarica, proposi a Litta di restituirli alla patria
loro. Visitati a tal uopo secolui li ospitali, scrissi tosto un indirizzo a
quella nazione. -
5
aprile 1848.
"Prodi
Ungari!
Fra i molti
prigioni e feriti che un'assidua pugna di cinque giorni pose nelle nostre mani,
sono alcuni nativi del nobile vostro regno. Noi vi rimandiamo quelli tra loro
che appartengono all'ordine ecclesiastico, e perchè le sacre loro persone non
devono soggiacere alle leggi della guerra, e perchè vi annuncino la mente
nostra di rendere liberi a voi, senza riscatto e senza cambio, anche li altri
vostri prigioni e feriti. A tale uopo abbiamo visitato questi ospitali; e
facciamo indagare nel deposito dei captivi anco delle vicine città; e adunatili
tutti in Pavia e Cremona, attenderemo che mandiate vostri opportuni commissarii
per condurli con buon ordine e colle cure che il loro stato richiede, su le
vaporiere del Po e dell'Adriatico, sino al porto di Fiume. Dio li scorga salvi
e lieti ai loro focolari! Dio ha voluto che la nostra vittoria li redimesse da
una milizia ch'era una servitù.
Testimoni
delle tremende angustie che il nostro popolo quasi inerme ha superate, essi vi
potranno dire a quali atti d'incredibile crudeltà proruppero in quei giorni i
satelliti dell'antica tirannide. Quando essi vi narreranno dei vecchi, delle
donne e delli infanti sbranati e arsi vivi, intenderete da quale abisso di
miseria la providenza ci abbia salvati.
Quando vi
narreranno che nondimeno il nostro popolo in mezzo all'ira accolse come
fratelli i feriti e i prigionieri, vedrete quanto sia degno dell'amicizia di
tutti li uomini generosi; e abborrirete tanto più la diffidenza e l'odio che le
volpi auliche avevano messo tra la vostra nazione e la nostra.
Prodi Ungari !
quando nel 28 aprile 1814, quattro settimane dopo la presa di Parigi, noi
liberamente e volontariamente accogliemmo nella nostra città l'esercito
austriaco, era a condizione che un principe del sangue di Maria Teresa ci
reggesse con governo nostro e indipendente.
In quella vece
abbiamo patito trentaquattro anni di perfida oppressione e di depredazione
continua. E ciò che più ci affliggeva si era che con indescrivibili artificii
non solo noi, ma tutta la nazione italica era fatta apparire agli occhi del
mondo una stirpe degenere e imbelle. Il sangue di trecentomila nostri
combattenti che nelle guerre francesi aveva irrigato i campi di Colberg, di
Austerliz, di Raab, di Genova, di Valenza, di Càttaro, di Malo-Jaroslavetz, di
Bautzen, di Dresda, di Lipsia, di Hanau, di Mantova, fu perduto; perduto per il
nostro onore.
Siamo grazie a
Dio, che ci concesse alfine la mitraglia di Palermo e di Milano.
Il nostro
popolo si sente ora come un gentiluomo che si è sciolto dalla calunnia con un
duello.
Questo popolo
vi tende dunque la mano consacrata dalla vittoria e pura di vendetta e di
crudeltà. Egli non vi dimanda di violare i doveri che avete verso il vostro
paese. Egli vi dimanda quella nobile amicizia che nelli antichi tempi annodava
anche tra campioni costretti dal destino a combattersi. Voglia Dio toccare i
perversi cuori di coloro che, arbitri delle sorti delle genti, le spingono a
vicendevole distruzione.
Sarebbe degno
della luce dei tempi che i popoli non traessero più la spada se non nella
difesa della terra natale.
Per molti secoli
l'Ungaria nella sua lutta con li Osmanli ebbe a suo destro fianco Venezia, al
sinistro la Polonia. Compagno allora di gloria, queste tre genti furono poi
prese ad un solo laccio d'astuzia e di tradimento. Dio le voglia ancora
compagne nell'armi e nella vittoria.
Il comune
nemico ora viene dal settentrione. O prodi Magiari! ricordatevi dei fratelli
Polacchi.
Ricordatevi
che al di là della terra nemica, là preso li Urali, giace nelle tenebre
dell'ignoranza e della servitù la patria de' vostri antenati. Ricordatevi
eziandío quanto dovete alla madre Italia. Fu italico il primo aratro che solcò
la terra della Teissa; furono itale le mani che imposero al vostro Danubio il
primo ponte; tutta la vostra patria è sparsa dalle reliquie dei nostri padri.
L'Italia vi portò la fede di Cristo; l'Italia vi prestò per dieci secoli la
lingua delli altari e delle leggi, il primo vincolo della vostra nazionale
unità.
Nel nuovo
diritto delle genti, tutti possiamo essere amici; perchè tutti eguali e
contenti nelli inviolabili confini della patria.
La più cara
cosa, dopo la vittoria che ci rese la libertà, ci fia sempre la vostra
amicizia. Dio vi salvi. Eljen a' Magyar!
Tradutto in
lingua ungarica, e spedito per sicura via, quello scritto ebbe sollecito
riscontro dal comitato di Pesth : - "Abusare lo straniero delle dovizie e
del sangue delli Ungari; all'annuncio del moto italico aver essi eccitato i
ministri a richiamare i loro reggimenti; alla lettura del nostro indirizzo aver
esclamato non potersi più tolerare l'iniqua guerra; aver proclamato a nome del
popolo ungarico non esser figlio di quella libera terra chi combattesse contro
la libertà; essere loro fervoroso voto che Italia e Polonia fossero libere, per
la felicità loro e di tutta l'Europa".-
Il governo
provisorio, parecchi giorni dopochè il nostro scritto era publico, lo adottò; e
vi appose allora la sua firma; ma già non aveva voluto assentire che si
liberassero i militari, bensì due capellani solamente; e in seguito lasciò
cadere ogni pratica. Obediva in tutto ai generali piemontesi, i quali
mirabilmente ignari di tutte quelle cose, non si potevano capacitare
dell'importanza che avrebbe avuto l'avventare immantinente le nostre armi sulla
frontiera illirica; lo scuotere li Ungari ancora isolati e dubiosi; il chiudere
in mezzo i Croati, e trascinarli seconoi colla forza, coll'oro, e colla
irresistibile parola della libertà.
E così tutto
si rimase in alcune cortesie che li Ungari fecero sul campo di battaglia ai
nostri, e principalmente ai Toscani. Per tal modo, i popoli dell'imperio
austriaco vollero facendo da sè soccumber tutti: dum singuli pugnant,
universi vincuntur.
In quei
medesimi giorni, i negozianti e manifattori d'Austria e Boemia, riputando di
loro interesse la conservazione delle provincie italiche, volevano armare
contro di noi un corpo di volontarii. Scrissi loro a tal proposito una
circolare: - "La guerra aver chiuso le porte delle Alpi; la pace solo
poterle riaprire. - Se l'Austria non facesse una pace volontaria e pronta, ella
sarebbe la sola terra per sempre e per giusto castigo esclusa dal nostro
commercio. Mai più non entrerebbe in Italia un fiorino di sua mercanzia. Guai
alla Boemia e all'Austria, se lanciassero contro l'Italia una sola banda di
volontarii ! - Quanto al commercio maritimo, le numerose navi di tutti i lidi
d'Italia renderebbero impenetrabile l'Adriatico, sinchè dura la guerra. Mai non
entrerebbe in Trieste e in Fiume una sola nave, se prima non avesse posto sulla
sua prora l'olivo della pace. La questione della posta delle Indie era in nostra
mano; padroni dell'Adriatico, noi potevamo prescriverle di scegliere quel porto
e quel passo delle Alpi che ci parrebbe. - I banchieri, i negozianti, i
manifattori, i capitalisti d'Austria, Moravia e Boemia erano dunque in nostro
potere per molti e grandi interessi del presente e del futuro. Se volevano
gettare i loro capitali nella voragine della guerra, tanto peggio per loro. - E
intanto ogni commercio tra noi e loro sarebbe per sempre troncato; e la
plebe dei loro sobborghi o morrebbe di fame, o diverrebbe pei colpevoli un
terribile flagello di Dio. - Precorrendo tutte le altre nazioni in un
trattato di pace e di commercio con noi, essi avrebbero i vantaggi di pace e di
commercio con noi, essi avrebbero i vantaggi d'una commerciale primogenitura. Se
no, no! Dio ispirasse loro buoni consigli, prima che fosse tardi". -
La plebe dei
sobborghi di Vienna avverò entro sei mesi la nostra minaccia, ma inutilmente
per noi; poiché le armi nostre erano già messe a terra dal re. E anche quello
scritto ebbe a partire colla firma di Pompeo Litta, e come cosa che riguardasse
i volontarii nemici e la guerra. Nessuno in governo aveva incarico d'affari
esteri; anzi nessuno aveva portafoglio proprio, tranne Litta per la guerra; e
anch'egli per fatto nostro; e non durò a lungo. Il Casati e il Durini stavano
saldi al principio austriaco della collegialità, affinchè, in quella confusa
promiscuità nessuno avesse a rispondere col suo nome delli atti suoi. Dal quale
principio venne in molta parte la nostra ruina.
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