VII
La politica di Carlo Alberto
Carlo Alberto
era mosso alla guerra da molte ragioni.
Voleva anzi
tutto continuare l'avita tradizione della sua casa di scendere coi secoli e
col Po. Giungendo sino alla foce del Mincio, acquistava negli Stati di
Milano, Parma e Modena quattro milioni di abitanti, e raddoppiava, o poco meno,
il numero dei sudditi.
Voleva poi
salvare in Italia la parte retrograda, a cui nell'ebbrezza d'una mendace
popolarità era sopraggiunta minaccevole la fuga di Luigi Filippo e di
Metternich. L'improvviso risurgere della republica francese apriva il campo a
un profondo rimutamento di tutta l'Europa. La corte di Torino doveva supplire
all'officio che la vacillante Austria non poteva sostenere omai più, di
proteggere e appuntellare le opinioni stantìe. Lo Stato lombardo-veneto,
giovandosi della debolezza estrema alla quale la sapienza falsa del Metternich
aveva condotto l'Austria, doveva scuotere l'odiato giogo. Arbitro delle sue
sorti, ben poteva ritenersi contento all'acquisto dell'indipendenza. Ma poteva
altresì mettersi con impeto sulla via della libertà.
Ora, tutte le
istituzioni in Italia hanno da tremila anni una radice di republica; le corone
non vi ebbero mai gloria. Roma, l'Etruria, la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa, Fiorenza, ebbero dal
principio republicano gloria e potenza. Mentre in Francia il vocabolo di
republica suona tuttavia straniero, nella istoria d'Italia risplende ad ogni
pagina; s'intreccia alle memorie del patriziato e della chiesa; sta nelle
tradizioni delle genti più appartate. Gridar la republica nelle valli di
Bergamo o del Cadore è così naturale come gridare in Vandea viva il re!
L'avversione d'una parte dei nostri patrizii per la republica essa è di recente
origine; provenne loro dagli stranieri; e per effetto d'avvenimenti che non
appartengono alla patria nostra. La republica era dunque all'usurpatore di
Genova più pericolosa vicinanza che non fosse il cognato suo l'arciduca. Pare
anzi certo che in un manifesto a tutte le corti d'Europa il re attestasse, che
invadendo il lombardo-veneto, egli intendeva solo impedire che vi surgesse una
republica; la quale poi di terra in terra, e per mera virtù d'imitazione,
avrebbe abbracciato tutta la penisola. Temeva però del pari che vi si annidasse
qualche nuovo principe.
Il nome della
libertà attraeva li animi nostri verso la Francia. Necessitava dunque d'intercettare quella vibrazione magnetica che moveva dalla
Transalpina alla Cisalpina. Tale è l'officio avito e perpetuo della casa di
Savoia. Doveva ella pertanto precorrere in Italia le influenze francesi;
volgere a suo prò quel tedio della gloria, quell'affettazione di vulgare
interesse, onde Luigi Filippo avevali infetti, e per la quale s'erano sviati
dall'adempiere il voto fondamentale della loro rivoluzione, ch'è d'essere
occasione di libertà al genere umano.
Carlo Alberto
non si era tampoco avvisato di riconoscere la rediviva republica. In sostanza,
quel principato savoiardo è una reliquia della defunta feudalità francese ; v'è
dunque fra esso e la republica un odio domestico e necessario. E' meno amaro a
quella corte l'essere calpestata dall'Austria, che protetta dalla Francia.
Meglio perire che implorare quelli aborriti soccorsi. Far da sè.
Fu con quella
fatale parola che Carlo Alberto si strinse in alleanza con noi3.
Codesta
avversione al chiamar partecipe della nostra guerra la Francia, doveva anzi aggiungere stimolo a questa di parteciparvi, porgendole indicio d'una
grave importanza che per essa vi fosse. Rimovendo anche ogni geniale impulso, la Francia non poteva vedere con pace che le forze d'Italia cadessero in mano di chi potesse
torcerle contro di lei. Se la Francia profonde nell'esercito e nella marineria
più d'un milione al giorno, egli è perchè sa d'avere nemici molti e potenti.
Ora, i nemici suoi sono i nostri; noi siamo l'antiguardo del popolo francese.
Dovendo Carlo
Alberto affacciarsi a Milano come conquistatore in fatto, e come campione del
popolo in apparenza, era in necessità d'affastellare in uno l'ossequio e la
libertà : le cose cadenti e le nascenti : la croce del feudo di Savoia e il
tricolore del popolo d'Italia4. Doveva prestare in Torino alla fazione
servile un'orditura ch'ella no poteva compiere da sè medesima in Milano; e intanto
doveva illudere di superbi pensieri i giovani; dar loro a credere che all'ombra
dell'esercito regio l'Italia potesse d'un atto levarsi, e assidersi poderosa
fra le nazioni; fargli prendere a sdegno l'amistà della republica e anco il
nome. Infine doveva, al modo di Luigi Filippo, comprare con le cupidigie e le
vanaglorie i capi del popolo: o al modo gesuitico, metterli in voce d'uomini
esorbitanti e strani, finchè maturasse l'ora d'opprimerli.
Tuttociò
s'andava da lunga pezza maneggiando a Parigi, a Milano, a Firenze, a Roma; il
re intitolava cavaliere ogni scrittore che lo lodasse; faceva offrire gradi e
cariche tanto più inverecondamente quanto più alcuno gli era avverso; si era
racconciato colli esuli italiani d'ogni setta e d'ogni terra, e con quei medesimi
ch'egli aveva in altro tempo dannati al patibolo. Giovanni Berchet che aveva
messo in canzone la viltà sua, diveniva suo raccomandatore ; e Gioberti
deponeva la dignità di filosofo, per farsegli facendiero. Colla promessa d'una
guerra vendicatrice dell'Italia, aveva il re dissipato da quelle anime
infantilmente credule, o senilmente stanche, la religione della libertà e la
memoria dei tradimenti e delle persecuzioni. Pareva aver rifatto la sua fama; e
quasi la persona; onde era in tempo a ricorrere da capo l'antica via.
Il Piemonte
era agitato dai moti d'Italia e da quelli di Francia; Genova pareva prossima a
ribellare per rimbalzo della ribellione di Palermo, avendo ella in pari dispetto
la dominazione di Torino, che i Siciliani quella di Napoli; l'unità principesca
e ministeriale ripugna alla natura italica, indelebilmente municipale e
federale. Carlo Alberto, per farsi accettabile a Milano, aveva finalmente
nell'8 di febraio promesso a' suoi popoli un patto costituzionale. Aveva già
errato egli nel lasciare che il re di Napoli lo precorresse di dieci giorni in
siffatta concessione; poichè pareva pigliarselo a modello, cedere alla voce
solo della rivalità o della tema. Per ogni detrimento che la costituzione
potesse apportare ai privilegii dei cortigiani piemontesi, la conquista
medesima della Lombardia doveva fornire abondevole risarcimento e lucro. Era,
in somma, necessità varcare il Ticino. Pure il re al 18 marzo tentennava ancora.
La mitraglia in quel momento vomitava in Milano incendii e morte; egli lo
sapeva. E si contentava di spedire a noi il Martini, a chiedere non so quale
licenza di recarci aiuto. Il rimbombo del cannone udito per cinque mortali
giorni entro la frontiera piemontese, teneva in dolorosa angoscia i popoli,
quando giunse loro come lampo elettrico l'annuncio della nostra libertà.
Sgomentato dall'esplosione dell'unanimità popolare, persuaso dell'impossibilità
di più lunghi indugi, timoroso di vedere surgere in Milano una republica o un
principato, che gli levasse quell'ambita provincia, egli, che sino a quel dì
aveva mandato all'Austria parole d'amicizia, egli, che contrastava allora
allora le armi ai volontari genovesi e piemontesi, e faceva arrestare sul lago
Maggiore i Milanesi stessi accorrenti colle armi a salvare le straziate loro
famiglie, egli segnò finalmente alla sera del 23 di marzo il manifesto di
guerra5.
Aveva ben
diritto io di esclamare il dì seguente, nella sala del governo provisorio: Viva
il Piemonte e infamia a Carlo Alberto!
Certo che non
aveva momento di temporeggiare. Appellati alle armi per noi tutti i popoli e
principi d'Italia, si sarebbero trovati seco sul campo. Il nostro destino non
rimaneva allora in arbitrio solo di lui; riservato a un congresso dell'Italia,
e forse dell'Europa, sarebbe stato argomento a disputa grave e solenne; dalla
quale illuminato il popolo sarebbe venuto a deliberazione che potesse almeno
dirsi valida. E tutti li altri principi, per porre limite all'ambizione
dell'alleato, dovevano favorire la nostra libertà. Per fare adunque tutta sua
la nostra vittoria, doveva correre ad accamparsi sul Mincio, primo se poteva, e
solo.
- E doveva
oltrepassare il Mincio? -
L'ambizione è
come l'avarizia; cupidigie senza confine, che il timor solo o l'impotenza
raffrena. Carlo Alberto pur troppo appetiva assai più; e i satelliti suoi
parlavano già di spossessare anche i principi che lo avevano preceduto nel
promettere ai popoli la libertà. E Gioberti, con sottigliezza da disgradarne i
sofisti dell'era macedonica, aveva appuntato l'arguzia che l'unione era
meglio che l'unità. Insomma la servitù di Milano era avviamento
all'obbedienza di tutta l'Italia. Li ambasciatori, i commissarii ambulanti, i
vecchi partigiani traditi sempre e sempre fiduciosi, si spargevano come locuste
per tutta la penisola. Appiccavano briga coi Toscani, per certi poveri casali,
ascosi fra i castagni dell'Appennino; tentavano il popolo di Livorno e li
avvocati di Firenze; tessevano pratiche per furare Bologna allo Stato Romano;
quei nuovi Guelfi del conte Balbo stavano per farsi scommunicare come vecchi
Ghibellini. Ma poi facevano votare al secondogenito del re la corona di
Sicilia, inalzando futuri ostacoli in Palermo a quell'unità medesima, nel cui
nome volevano prendere Firenze e Milano.
Convien dire
che la casa di Savoia fosse già ebra delle future vittorie, se si dava a
sperare che tanti popoli e principi correrebbero ciecamente a perigliarsi, per
farla grande e infeudarsi a lei. Nè a ciò le bastava plauso d'adulatori e di
sofisti; ma doveva attendere il giudicio dell'Europa; la quale appena forse le
avrebbe fatto indulgenza del suo acquisto di Lombardia. Per verità si era già
notato da molti, e più dai militari, come questa regione fosse dell'imperio solo
un'appendice che da tre lati non lo toccava affatto; fosse interrotta da alpi e
fiumi e laghi anche dove lo toccava; malagevole pertanto a occuparsi,
impossibile a premunirsi. Ma oltrepassare il Mincio, era altra cosa. Perocchè
il Tirolo Italico era avvinto alla federazione germanica; e la Venezia, congiungendosi alla Liguria, avrebbe costituito un nuovo Stato Maritimo, che mutava
le condizioni dell'Inghilterra nel Mediterraneo.
Se li amatori
della libertà d'Italia avevano avverse all'alta impresa le potenze
settentrionali, non avevano almeno contrarii li interessi naturali delle
republiche. Non così li amatori del nuovo regno. Poichè li Svizzeri avevano
bensì caro l'allontanamento dell'Austria, tanto infesta alla loro pace; ma non
potevano per ciò desiderare che, colla sottomissione di Milano, tutta la loro
frontiera meridionale, dal Jura al Tirolo, e le vie dei due mari, venissero in
arbitrio della sola corte di Savoia, nemica della libertà, intollerante alla
religione altrui, e cresciuta necessariamente in superbia col crescere della
potenza. Ed è perciò che nello stesso giorno in cui l'esercito di Carlo Alberto
varcava il Ticino, li ausiliarii Svizzeri avevano scritto una protesta -
"contro l'occupazione militare del paese per la casa di Savoia, e contro
il disegno già palesato dal governo provisorio di fare una sola famiglia
colla Sardegna". E alcuni dei più autorevoli uomini di stato di e
guerra nella Svizzera, al primo annuncio della ribellione di Milano, parlavano
di scendere con un esercito in favore della libertà; ma visto come si volesse
solo mutare di re, si rattennero. E fecero sdegnosi con noi; e assai più che
onestà non vorrebbe. E il re fece dir loro dall'Inghilterra che non li voleva.
La republica
francese poi ben vedeva che Carlo Alberto non potrebbe mai esserle amico;
poichè oppressore diuturno in casa sua delle idee libere, doveva odiar la
nazione che le andava predicando. Nè la Prussia, nè l'Austria, nè la Russia potevano odiare al pari di lui la Francia, giacchè da un'invasione dei Francesi
non avevano come lui a temere di vedere sconvolto da capo a fondo il regno.
Per tal modo
Carlo Alberto non poteva giovarsi nè dei re, nè delle republiche.
La sua
politica era piena di contradizione. - S'egli considerava solo l'Italia, doveva
afferrare il principio della nazionalità, andare avanti risolutamente, nè
fermarsi più sino alla cima delle Alpi. - Se considerava l'Europa, doveva
mostrare che nell'occupazione della Lombardia procedeva quasi contro animo, e
nell'interesse commune dei principi per porre ostacolo al nascimento d'una
republica. Doveva pertanto andar con misura; non parlare delle Alpi, non
toccare il Tirolo, e nemmeno la Venezia. Doveva in somma attingere i suoi disegni di guerra nelle convenienze della politica, non nelle regole della
guerra. Non era un capitano che avesse solamente a vincere. Era un re.
Pertanto non
solo gli era d'uopo rattener l'impeto popolare entro i claustri dello Stelvio e
del Tonale; ma soffrire in pace che la linea del nemico circuisse l'estremità
settentrionale del lago di Garda, minacciandogli dalle valli del Clisio la
sinistra e le spalle. Perocchè il diritto europeo aveva sancito nel congresso
di Vienna che quell'ente irrazionale, parte tedesco e parte slavo, che si
chiamava Confederazione Germanica, si distendesse fin in qua di quel lago,
italiano più che mai, ombroso d'oliveti e di cedri, e consacrato dalla musa di
Catullo. Non poteva dunque corrispondere all'invito della bellicosa gente del
Tirolo. E siccome i nostri volontarii erano usciti di Milano col proposito in
mente di penetrare appunto in quella terra, e rivendicare i confini d'Italia là
dove la natura li ha posti e la ragione li addita, egli doveva preporre a
quell'impresa condottieri suoi fidi, i quali la sventassero e la menassero a
male, da che impedirla non si poteva.
Egli si era
messo in altre spine per le fallaci speranze che l'avvicinarsi dell'esercito
suo faceva sorgere nelle città venete. - Come campione della nazionalità e
dell'indipendenza doveva risolutamente e ad ogni costo salvare quelle città,
solo perchè italiane, e senza dettar loro patto alcuno; nè poteva stringer pace
che lasciasse l'Austria sul Mincio. - Come regnante e membro della santa
alleanza, doveva, in prezzo del soccorso, esigere che le città venete
ripudiassero il principio republicano, e abbandonassero Venezia, ove questa
pure non facesse divorzio colle tradizioni della passata sua sovranità. - Come
conquistatore della Lombardia, e bisognoso di farsi perdonare dalle altre corti
quella rapina, doveva immolare le città venete, e far sul Mincio una pace da
egoista. Anzi gli era opportuno far seminare da' suoi generali il disordine
nelli alleati di Romagna e di Napoli; essendochè non potevasi far la pace sul
Mincio, finchè per essi si continuasse la guerra di là del fiume. Diveniva
pertanto suo piano di guerra: - rimaner sempre intorno al Mincio, sempre affettando
di voler avviarsi alle Alpi, - far la guerra di principe, sempre affettando di
far la guerra di nazione. Tristo e temerario pensamento, privo di gloria e
pieno di pericoli; poichè bisognava esporsi a tutti i casi della sconfitta,
senza tentare tutti i casi della vittoria. Questa politica ancipite e mozza è
nei reali di Savoia naturale e antica; e non è meraviglia se camminando senza
volontà chiara e fra perpetue contradizioni, quegli ipocriti spesero dieci
secoli ad acquistar quattro tappe di regno. Se Carlo Alberto si fosse fatto
sinceramente e deliberatamente campione dell'Italia, senza più badare a
ingordigie o paure di principe, avrebbe mirato a dirittura alle Alpi; avrebbe
difeso fraternamente le città venete, armato il Tirolo, il Cadore, il Friuli,
l'Istria, la Dalmazia, affrontato Nugent sull'Isonzo, costretto i Croati a
cader di fame sulla squallida loro frontiera. Vittorioso, discendeva le Alpi
arbitro e re. Vinto, non aveva le amarezze e le ignominie d'un'ambizione
delusa.
Il re doveva
accettare il consiglio che, pur troppo contro l'animo nostro, gli mandavamo dal
mezzo delle barricate: esser generoso coi generosi. - Ma non appena aveva
trapassato la frontiera: non appena i titubanti suoi scorridori avevano
raggiunto i vittoriosi volontarii nostri sul Benaco e sul Mincio : e già
stendeva la mano sleale a mendicare l'anticipata paga delle sue fatiche,
facendoci bassamente intendere ch'egli sino a quando quel prezzo non fosse
chiaramente pattuito, non farebbe opera decisiva. Vaneggiava che la vittoria
rimarrebbe aspettando sempre il suo regal beneplacito.
Intanto i suoi
satelliti si maneggiavano in Piacenza, per fargli decretare prematuramente la
sovranità di quello stato, in luogo del Borbone, come se un altro Borbone non
regnasse in Napoli. Il quale, costretto parimenti dal volere dei popoli,
spediva pure soldati in difesa della causa italiana. Onde, fin da quei giorni
mi ricorda d'aver rimproverato a certi settarii di Carlo Alberto, che quelle
brighe loro avessero già spento nel nascere la lega dei principi d'Italia, onde
Carlo Alberto si ridurrebbe a sostener da solo e con forze inadeguate la nostra
guerra. - "Come potete mai sperare che il re di Napoli si presti ora a
servire le cupidigie di un altro re? Se foste suoi consiglieri, potreste voi
esortarlo ad aiutare il principe che gli spoglia i parenti? Il re di Napoli non
ha fama di mansueto e maneggevole; ma se fosse pur tale, potrebbe mai porgere
la mano al nemico della sua famiglia?" - Ora, chi diede cagione a
Ferdinando di rompere la lega e togliere dalla nostra alleanza i suoi soldati,
lo pose necessariamente in contrasto con coloro che l'avevano costretto alla
guerra. Egli non poteva uscire dalla lega, senza entrare in una sanguinosa
reazione. Dopo i quali fatti, è vano indagare se nella strage che in quei
giorni afflisse Napoli, il primo colpo venisse dalla mano d'un cittadino o d'un
provocatore. La precipitosa ambizione di Carlo Alberto aveva reso inevitabile
il luttuoso conflitto. Sarìa stata ben maggiore onestà, ed eziandío maggiore
avvedimento, il farsi conciliatore tra Ferdinando e i Siciliani, affinchè in
quel fatale momento nel quale da un pugno di soldati poteva dipendere la salute
e l'onore d'Italia, le forze tutte d'un regno di otto e più millioni si fossero
applicate alla nostra guerra. Ma parve più bello a Carlo Alberto il soffiare in
quelle fiamme, per aver poi modo a intrudere la sua casa sul trono di Sicilia.
E così li strazii di Napoli e di Messina pesano quasi egualmente sull'anima
d'ambo i re.
Senonchè,
l'effetto si fu che, essendo dimostrato impossibile il tenere in freno e in
concordia i nostri principi, fu dimostrato altresì non potersi rifare l'Italia
se non colla diretta unione dei popoli. - Ed è il solo frutto vero di quella
politica torinese, tanto falsa, quanto temeraria e ostinata.
Presi a quei
lacci i membri del governo provisorio, non intendevano in quali difficoltà
stessero per avvilupparsi, coll'adottare la proposta di fusione della Lombardia
col Piemonte, vale a dire, l'assoluto sacrificio del principio popolare e
federale. Invaniti d'esser partecipi d'un gran raggiro principesco, e già
plaudendo a sè medesimi, quei malaccorti si figuravano di portar d'un tratto in
Milano e in mezzo al loro fortunato conciliabolo, il trono di Savoia, non
antivedendo li infiniti ostacoli che lo avrebbero impedito.
E per verità
se quella corte si fosse trasferita subitamente in Milano, avrebbe tratto seco
le famiglie che la compongono, e quelle che traggono da lei sostentamento. Ed
ecco ricader tosto a condizione provinciale quella città di Torino, fatta
grande per forza artificiale d'una corte che in quella assoluta obedienza
poteva tutto e faceva tutto.
Ma Carlo
Alberto avrebbe poi voluto desolare in tal modo la sua città? immolarla a
Milano? obliare li interessi di re, fino a torsi da quella salda rocca della
feudalità e del principato, per edificare sovra una mobile arena? disertare un
popolo educato dai secoli ad ereditaria devozione, per un popolo incredulo e
raziocinatore : trapassato e feltrato per ogni maniera d'inganni e disinganni :
il quale abbisogna solo del favore del secolo e d'un breve agio di tempo, a
svolgere nel suo seno una possente e indomita democrazia? Non sarebbe far come
Napoleone, quando pospose la donna del suo amore alla principessa non curante e
infida? - No! Carlo Alberto non avrebbe mai sbarbicato dalla terra di Piemonte
l'arbore annoso della monarchia, per farne in Milano un palo senza radice.
Ora, se Torino
doveva rimaner capitale, toccava dunque a Milano di esinanirsi a vita
provinciale, altra difficoltà non minore. Si supponga per un momento che
Brusselle, unita alla Francia, volesse farsi capitale di Parigi. Egli sarebbe
assurdo, quando anche Parigi avesse un quarto solamente della presente sua
popolazione. Or bene, altretanto era assurdo che Torino potesse primeggiare in
Italia sovra Milano.
Hanno talune
città un tempo di fortuna, ma poi decadono, senza più risurgere. Ma tali altre
città, dopo qualsiasi lutto, risorgono sempre a novelle grandezze. Egli è
perchè la potenza loro non proviene da fatto d'uomo, ma da cause materiali e di
natura.
Tra siffatte
città è Milano. Fin dall'era celtica era essa principale nell'alta Italia: Mediolanum
Gallorum caput. Divenne poi convegno della civiltà romana; Virgilio vi
andava scolare: æmula Romæ. Nei bassi tempi, la chiesa ambrosiana fu la
sola che avesse lena di resistere a Roma; serbava lungamente le nozze ai
sacerdoti; e ancora oggidì tiene un documento d'apostolica libertà nel suo rito
orientale. Nel risurgimento, il popolo di Milano fu il primo d'Europa a
serrarsi in fanteria contro la cavalleria feudale; soggiogò anzi a legge
scritta le consuetudini arbitrarie dei baroni, libri feudorum; disfece l'imperatore
in pugna campale; spianò le castella; ricacciò la feudalità in una lista di
terra lungo i monti del Friuli, del Tirolo, del Piemonte, del Monferrato,
dell'Apennino. Quando l'Italia trapassò ai dittatori ghibellini, il signore di
Milano per poco non si coronò re d'Italia. Rimasta poi quasi senza Stato, pur
si trovò alla calata di Bonaparte la sola città ch'egli potesse far capo della
sua republica e del suo regno, quando di Torino faceva senza ostacoli un
dipartimento francese. Al ritorno del dominio austriaco, Milano rimase seggio
delle nuove lettere e del pensiero nazionale. Alla sua ribellione, si levò in
armi tutta l'Italia.
L'interesse
che ha qualunque città di non divenire provincia, le consuetudini
d'indipendenza che le stesse famiglie cortigianesche contraggono dal viver
lontano dalla corte, lo spirito democratico del secolo, l'aria di libertà che
vien tratto tratto di Francia, ogni cosa insomma, avrebbe contribuito a far di
Milano, subordinata dai brigatori a Torino, la indomita città dell'opposizione.
Quanto più il regno
fortissimo si sarebbe dilatato in Italia, tanto più centrale si faceva la
posizione di Milano, tanto più strana quella di Torino. E' in Milano che le grandi
vie mercantili s'incrociano, per una configurazione di terreno che la politica
non può mutare; quivi la navigazione dell'Adriatico e del Po si collega a
quella dei grandi laghi; quivi le locomotive possono indirizzarsi da un lato
all'Adriatico, dalli altri verso il Mediterraneo e il Reno, i passi dell'Alpi e
dell'Apennino; quivi la congerie delli interessi commerciali si sarebbe venuta
accumulando intorno al centro dell'opposizione. No, era troppo forte impresa
per Carlo Alberto ridurre Milano alla umile condizione di Genova. Nè li occhi
della polizia, nè le mani dei soldati, potevano farlo in siffatte condizioni
sicuro del suo proposito, se non giungeva a intercettare a Milano le spontanee
fonti della sua potenza. Sarebbe stato mestieri sottoporla a meditata e
inesorabile oppressione, compiendo quel decreto d'artificiale decadimento a
cui, per farla docile a Vienna, l'aveva indarno condannata l'imperatore
Francesco: Milano deve decadere. Il primo passo si era già fatto
il 1 di maggio, molto prima che si proponesse la fusione, quando Giacinto
Collegno, classificandola piazza militare di seconda classe, la subordinò
quetamente a Torino.
Qual sarebbe
stato fra Torino e Milano l'esito del conflitto?
E' una delle
quistioni codesta, il cui sciogliemento si attende talora per secoli. Ma un
esito molto ovvio e naturale sarebbe stato, che le provincie di nuovo acquisto
avrebbero aderito a Milano, sollevandosi contro quell'insolita capitale, e
quella retrograda corte. E allora, in uno ai soldati del re, correvano pericolo
d'esser cacciate anche le temerarie famiglie, che in quell'occupazione militare
avevano cercato un sussidio all'imponente loro ambizione. E forse la guerra
civile avrebbe precorso il termine della guerra straniera.
E fors'anche
quel moto non sarebbesi circoscritto alle nuove provincie; poichè molte
eziandío delle presenti terre del Piemonte sono antiche e vicine membra dello
Stato di Milano, e ricordano ancora quei vincoli aviti e geniali. Onde nei
primi giorni della nostra libertà, quando le città finitime si volgevano tutte
a noi con festivo saluto, Alessandria rammentò d'essere "quasi figlia ai
Milanesi"; e Valenza, d'avere con noi partecipato "al giuro di
Pontida"; e Vercelli si disse "gloria d'avere appartenuto all'Insubria".
A Genova poi si parlava aperto di farsi appoggio in Milano contro la poco amata
Torino. Perlochè quando ebbe compimento la sudata fusione di Milano col
Piemonte, Torino palesò certa inquietudine, e poco meno che pentimento, quasi
si sentisse sull'orlo d'un vortice il cui centro era Milano. Ma Milano non
parve farvi mente: e perchè in quel tempo era presta a obliare ogni cosa per
l'alto obietto dell'indipendenza: e perchè forse era conscia della sua forza, e
la supremazia di Torino non le pareva evento da temersi. Si sa che Carlo
Alberto, il quale all'esercito veramente pensava solo alla politica, uscì
sovente a dire che Milano gli dava a pensare!
Come re Carlo
Alberto, era avverso ai nostri volontarii, i quali potevano spargerli
nell'eserciti pensieri di libertà; come conquistatore, era non meno contrario
ai nostri soldati regolari, i quali avrebbero potuto, dopo la guerra, essere
d'ostacolo alla soggezione in cui ci doveva tenere. Non pago d'averci imposto
officiali che non potevano incutere rispetto, nè potevano fondare nei nuovi
reggimenti una virile e spontanea disciplina, volle ancora che ogni cosa la
quale concernesse l'ordinamento dell'esercito fosse in sua propria mano; e
perciò fece consegnare ai suoi generali il portafoglio della guerra. E il primo
avvedimento di quella losca politica si fu, di tener fuori dai nuovi reggimenti
i giovani più generosi e culti, relegando in battaglioni separati quanto più si
poteva degli studenti d'università, di licei, di seminarii, nonchè delle
guardia nazionali che volevano aver parte nella guerra, e le bande dei
volontarii che difendevano la frontiera tirolese, e lo stesso battaglione delli
istruttori, che pure erasi divisato all'uopo appunto di somministrare
officiali all'esercito. Queste segregazioni si conducevano in modo che paressero
spontaneo effetto dell'ardore di quella generosa gioventù; ma nulla si faceva
perchè non avvenissero. Nei deserti quadri dei reggimenti si donavano intanto i
gradi al più inverecondo favore. Uomini senza studii e senza pratica d'armi :
inesperti impiegati del ministero, il merito dei quali era stato solamente
d'aver avuto mano in qualche frivola dimostrazione: uscirono fra i
publico stupore rivestiti improvisamente di cospicui titoli militari. Li stessi
officiali piemontesi non dissimulavano una giusta disistima per quelle maschere
militari, benchè di loro fattura.
Ma per essere
più certi dell'intento loro, i ministri di Carlo Alberto, avevano per
convenzione col governo provisorio intercetti i denari che dovevano sopperire
alla fondazione del nostro esercito.
E qui viene
necessario accennare anche i diportamenti del governo provisorio. Il che poi fa
sempre continuazione alla politica del re, essendo stato quello il suo più
docile istrumento.
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