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Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

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  • VII La politica di Carlo Alberto
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VII

La politica di Carlo Alberto

 

Carlo Alberto era mosso alla guerra da molte ragioni.

Voleva anzi tutto continuare l'avita tradizione della sua casa di scendere coi secoli e col Po. Giungendo sino alla foce del Mincio, acquistava negli Stati di Milano, Parma e Modena quattro milioni di abitanti, e raddoppiava, o poco meno, il numero dei sudditi.

Voleva poi salvare in Italia la parte retrograda, a cui nell'ebbrezza d'una mendace popolarità era sopraggiunta minaccevole la fuga di Luigi Filippo e di Metternich. L'improvviso risurgere della republica francese apriva il campo a un profondo rimutamento di tutta l'Europa. La corte di Torino doveva supplire all'officio che la vacillante Austria non poteva sostenere omai più, di proteggere e appuntellare le opinioni stantìe. Lo Stato lombardo-veneto, giovandosi della debolezza estrema alla quale la sapienza falsa del Metternich aveva condotto l'Austria, doveva scuotere l'odiato giogo. Arbitro delle sue sorti, ben poteva ritenersi contento all'acquisto dell'indipendenza. Ma poteva altresì mettersi con impeto sulla via della libertà.

Ora, tutte le istituzioni in Italia hanno da tremila anni una radice di republica; le corone non vi ebbero mai gloria. Roma, l'Etruria, la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa, Fiorenza, ebbero dal principio republicano gloria e potenza. Mentre in Francia il vocabolo di republica suona tuttavia straniero, nella istoria d'Italia risplende ad ogni pagina; s'intreccia alle memorie del patriziato e della chiesa; sta nelle tradizioni delle genti più appartate. Gridar la republica nelle valli di Bergamo o del Cadore è così naturale come gridare in Vandea viva il re! L'avversione d'una parte dei nostri patrizii per la republica essa è di recente origine; provenne loro dagli stranieri; e per effetto d'avvenimenti che non appartengono alla patria nostra. La republica era dunque all'usurpatore di Genova più pericolosa vicinanza che non fosse il cognato suo l'arciduca. Pare anzi certo che in un manifesto a tutte le corti d'Europa il re attestasse, che invadendo il lombardo-veneto, egli intendeva solo impedire che vi surgesse una republica; la quale poi di terra in terra, e per mera virtù d'imitazione, avrebbe abbracciato tutta la penisola. Temeva però del pari che vi si annidasse qualche nuovo principe.

Il nome della libertà attraeva li animi nostri verso la Francia. Necessitava dunque d'intercettare quella vibrazione magnetica che moveva dalla Transalpina alla Cisalpina. Tale è l'officio avito e perpetuo della casa di Savoia. Doveva ella pertanto precorrere in Italia le influenze francesi; volgere a suo prò quel tedio della gloria, quell'affettazione di vulgare interesse, onde Luigi Filippo avevali infetti, e per la quale s'erano sviati dall'adempiere il voto fondamentale della loro rivoluzione, ch'è d'essere occasione di libertà al genere umano.

Carlo Alberto non si era tampoco avvisato di riconoscere la rediviva republica. In sostanza, quel principato savoiardo è una reliquia della defunta feudalità francese ; v'è dunque fra esso e la republica un odio domestico e necessario. E' meno amaro a quella corte l'essere calpestata dall'Austria, che protetta dalla Francia. Meglio perire che implorare quelli aborriti soccorsi. Far da .

Fu con quella fatale parola che Carlo Alberto si strinse in alleanza con noi3.

Codesta avversione al chiamar partecipe della nostra guerra la Francia, doveva anzi aggiungere stimolo a questa di parteciparvi, porgendole indicio d'una grave importanza che per essa vi fosse. Rimovendo anche ogni geniale impulso, la Francia non poteva vedere con pace che le forze d'Italia cadessero in mano di chi potesse torcerle contro di lei. Se la Francia profonde nell'esercito e nella marineria più d'un milione al giorno, egli è perchè sa d'avere nemici molti e potenti. Ora, i nemici suoi sono i nostri; noi siamo l'antiguardo del popolo francese.

 

Dovendo Carlo Alberto affacciarsi a Milano come conquistatore in fatto, e come campione del popolo in apparenza, era in necessità d'affastellare in uno l'ossequio e la libertà : le cose cadenti e le nascenti : la croce del feudo di Savoia e il tricolore del popolo d'Italia4. Doveva prestare in Torino alla fazione servile un'orditura ch'ella no poteva compiere da medesima in Milano; e intanto doveva illudere di superbi pensieri i giovani; dar loro a credere che all'ombra dell'esercito regio l'Italia potesse d'un atto levarsi, e assidersi poderosa fra le nazioni; fargli prendere a sdegno l'amistà della republica e anco il nome. Infine doveva, al modo di Luigi Filippo, comprare con le cupidigie e le vanaglorie i capi del popolo: o al modo gesuitico, metterli in voce d'uomini esorbitanti e strani, finchè maturasse l'ora d'opprimerli.

Tuttociò s'andava da lunga pezza maneggiando a Parigi, a Milano, a Firenze, a Roma; il re intitolava cavaliere ogni scrittore che lo lodasse; faceva offrire gradi e cariche tanto più inverecondamente quanto più alcuno gli era avverso; si era racconciato colli esuli italiani d'ogni setta e d'ogni terra, e con quei medesimi ch'egli aveva in altro tempo dannati al patibolo. Giovanni Berchet che aveva messo in canzone la viltà sua, diveniva suo raccomandatore ; e Gioberti deponeva la dignità di filosofo, per farsegli facendiero. Colla promessa d'una guerra vendicatrice dell'Italia, aveva il re dissipato da quelle anime infantilmente credule, o senilmente stanche, la religione della libertà e la memoria dei tradimenti e delle persecuzioni. Pareva aver rifatto la sua fama; e quasi la persona; onde era in tempo a ricorrere da capo l'antica via.

 

Il Piemonte era agitato dai moti d'Italia e da quelli di Francia; Genova pareva prossima a ribellare per rimbalzo della ribellione di Palermo, avendo ella in pari dispetto la dominazione di Torino, che i Siciliani quella di Napoli; l'unità principesca e ministeriale ripugna alla natura italica, indelebilmente municipale e federale. Carlo Alberto, per farsi accettabile a Milano, aveva finalmente nell'8 di febraio promesso a' suoi popoli un patto costituzionale. Aveva già errato egli nel lasciare che il re di Napoli lo precorresse di dieci giorni in siffatta concessione; poichè pareva pigliarselo a modello, cedere alla voce solo della rivalità o della tema. Per ogni detrimento che la costituzione potesse apportare ai privilegii dei cortigiani piemontesi, la conquista medesima della Lombardia doveva fornire abondevole risarcimento e lucro. Era, in somma, necessità varcare il Ticino. Pure il re al 18 marzo tentennava ancora. La mitraglia in quel momento vomitava in Milano incendii e morte; egli lo sapeva. E si contentava di spedire a noi il Martini, a chiedere non so quale licenza di recarci aiuto. Il rimbombo del cannone udito per cinque mortali giorni entro la frontiera piemontese, teneva in dolorosa angoscia i popoli, quando giunse loro come lampo elettrico l'annuncio della nostra libertà. Sgomentato dall'esplosione dell'unanimità popolare, persuaso dell'impossibilità di più lunghi indugi, timoroso di vedere surgere in Milano una republica o un principato, che gli levasse quell'ambita provincia, egli, che sino a quel aveva mandato all'Austria parole d'amicizia, egli, che contrastava allora allora le armi ai volontari genovesi e piemontesi, e faceva arrestare sul lago Maggiore i Milanesi stessi accorrenti colle armi a salvare le straziate loro famiglie, egli segnò finalmente alla sera del 23 di marzo il manifesto di guerra5.

 

Aveva ben diritto io di esclamare il seguente, nella sala del governo provisorio: Viva il Piemonte e infamia a Carlo Alberto!

Certo che non aveva momento di temporeggiare. Appellati alle armi per noi tutti i popoli e principi d'Italia, si sarebbero trovati seco sul campo. Il nostro destino non rimaneva allora in arbitrio solo di lui; riservato a un congresso dell'Italia, e forse dell'Europa, sarebbe stato argomento a disputa grave e solenne; dalla quale illuminato il popolo sarebbe venuto a deliberazione che potesse almeno dirsi valida. E tutti li altri principi, per porre limite all'ambizione dell'alleato, dovevano favorire la nostra libertà. Per fare adunque tutta sua la nostra vittoria, doveva correre ad accamparsi sul Mincio, primo se poteva, e solo.

 

- E doveva oltrepassare il Mincio? -

L'ambizione è come l'avarizia; cupidigie senza confine, che il timor solo o l'impotenza raffrena. Carlo Alberto pur troppo appetiva assai più; e i satelliti suoi parlavano già di spossessare anche i principi che lo avevano preceduto nel promettere ai popoli la libertà. E Gioberti, con sottigliezza da disgradarne i sofisti dell'era macedonica, aveva appuntato l'arguzia che l'unione era meglio che l'unità. Insomma la servitù di Milano era avviamento all'obbedienza di tutta l'Italia. Li ambasciatori, i commissarii ambulanti, i vecchi partigiani traditi sempre e sempre fiduciosi, si spargevano come locuste per tutta la penisola. Appiccavano briga coi Toscani, per certi poveri casali, ascosi fra i castagni dell'Appennino; tentavano il popolo di Livorno e li avvocati di Firenze; tessevano pratiche per furare Bologna allo Stato Romano; quei nuovi Guelfi del conte Balbo stavano per farsi scommunicare come vecchi Ghibellini. Ma poi facevano votare al secondogenito del re la corona di Sicilia, inalzando futuri ostacoli in Palermo a quell'unità medesima, nel cui nome volevano prendere Firenze e Milano.

Convien dire che la casa di Savoia fosse già ebra delle future vittorie, se si dava a sperare che tanti popoli e principi correrebbero ciecamente a perigliarsi, per farla grande e infeudarsi a lei. a ciò le bastava plauso d'adulatori e di sofisti; ma doveva attendere il giudicio dell'Europa; la quale appena forse le avrebbe fatto indulgenza del suo acquisto di Lombardia. Per verità si era già notato da molti, e più dai militari, come questa regione fosse dell'imperio solo un'appendice che da tre lati non lo toccava affatto; fosse interrotta da alpi e fiumi e laghi anche dove lo toccava; malagevole pertanto a occuparsi, impossibile a premunirsi. Ma oltrepassare il Mincio, era altra cosa. Perocchè il Tirolo Italico era avvinto alla federazione germanica; e la Venezia, congiungendosi alla Liguria, avrebbe costituito un nuovo Stato Maritimo, che mutava le condizioni dell'Inghilterra nel Mediterraneo.

Se li amatori della libertà d'Italia avevano avverse all'alta impresa le potenze settentrionali, non avevano almeno contrarii li interessi naturali delle republiche. Non così li amatori del nuovo regno. Poichè li Svizzeri avevano bensì caro l'allontanamento dell'Austria, tanto infesta alla loro pace; ma non potevano per ciò desiderare che, colla sottomissione di Milano, tutta la loro frontiera meridionale, dal Jura al Tirolo, e le vie dei due mari, venissero in arbitrio della sola corte di Savoia, nemica della libertà, intollerante alla religione altrui, e cresciuta necessariamente in superbia col crescere della potenza. Ed è perciò che nello stesso giorno in cui l'esercito di Carlo Alberto varcava il Ticino, li ausiliarii Svizzeri avevano scritto una protesta - "contro l'occupazione militare del paese per la casa di Savoia, e contro il disegno già palesato dal governo provisorio di fare una sola famiglia colla Sardegna". E alcuni dei più autorevoli uomini di stato di e guerra nella Svizzera, al primo annuncio della ribellione di Milano, parlavano di scendere con un esercito in favore della libertà; ma visto come si volesse solo mutare di re, si rattennero. E fecero sdegnosi con noi; e assai più che onestà non vorrebbe. E il re fece dir loro dall'Inghilterra che non li voleva.

La republica francese poi ben vedeva che Carlo Alberto non potrebbe mai esserle amico; poichè oppressore diuturno in casa sua delle idee libere, doveva odiar la nazione che le andava predicando. la Prussia, l'Austria, la Russia potevano odiare al pari di lui la Francia, giacchè da un'invasione dei Francesi non avevano come lui a temere di vedere sconvolto da capo a fondo il regno.

Per tal modo Carlo Alberto non poteva giovarsi dei re, delle republiche.

 

La sua politica era piena di contradizione. - S'egli considerava solo l'Italia, doveva afferrare il principio della nazionalità, andare avanti risolutamente, fermarsi più sino alla cima delle Alpi. - Se considerava l'Europa, doveva mostrare che nell'occupazione della Lombardia procedeva quasi contro animo, e nell'interesse commune dei principi per porre ostacolo al nascimento d'una republica. Doveva pertanto andar con misura; non parlare delle Alpi, non toccare il Tirolo, e nemmeno la Venezia. Doveva in somma attingere i suoi disegni di guerra nelle convenienze della politica, non nelle regole della guerra. Non era un capitano che avesse solamente a vincere. Era un re.

Pertanto non solo gli era d'uopo rattener l'impeto popolare entro i claustri dello Stelvio e del Tonale; ma soffrire in pace che la linea del nemico circuisse l'estremità settentrionale del lago di Garda, minacciandogli dalle valli del Clisio la sinistra e le spalle. Perocchè il diritto europeo aveva sancito nel congresso di Vienna che quell'ente irrazionale, parte tedesco e parte slavo, che si chiamava Confederazione Germanica, si distendesse fin in qua di quel lago, italiano più che mai, ombroso d'oliveti e di cedri, e consacrato dalla musa di Catullo. Non poteva dunque corrispondere all'invito della bellicosa gente del Tirolo. E siccome i nostri volontarii erano usciti di Milano col proposito in mente di penetrare appunto in quella terra, e rivendicare i confini d'Italia dove la natura li ha posti e la ragione li addita, egli doveva preporre a quell'impresa condottieri suoi fidi, i quali la sventassero e la menassero a male, da che impedirla non si poteva.

Egli si era messo in altre spine per le fallaci speranze che l'avvicinarsi dell'esercito suo faceva sorgere nelle città venete. - Come campione della nazionalità e dell'indipendenza doveva risolutamente e ad ogni costo salvare quelle città, solo perchè italiane, e senza dettar loro patto alcuno; poteva stringer pace che lasciasse l'Austria sul Mincio. - Come regnante e membro della santa alleanza, doveva, in prezzo del soccorso, esigere che le città venete ripudiassero il principio republicano, e abbandonassero Venezia, ove questa pure non facesse divorzio colle tradizioni della passata sua sovranità. - Come conquistatore della Lombardia, e bisognoso di farsi perdonare dalle altre corti quella rapina, doveva immolare le città venete, e far sul Mincio una pace da egoista. Anzi gli era opportuno far seminare da' suoi generali il disordine nelli alleati di Romagna e di Napoli; essendochè non potevasi far la pace sul Mincio, finchè per essi si continuasse la guerra di del fiume. Diveniva pertanto suo piano di guerra: - rimaner sempre intorno al Mincio, sempre affettando di voler avviarsi alle Alpi, - far la guerra di principe, sempre affettando di far la guerra di nazione. Tristo e temerario pensamento, privo di gloria e pieno di pericoli; poichè bisognava esporsi a tutti i casi della sconfitta, senza tentare tutti i casi della vittoria. Questa politica ancipite e mozza è nei reali di Savoia naturale e antica; e non è meraviglia se camminando senza volontà chiara e fra perpetue contradizioni, quegli ipocriti spesero dieci secoli ad acquistar quattro tappe di regno. Se Carlo Alberto si fosse fatto sinceramente e deliberatamente campione dell'Italia, senza più badare a ingordigie o paure di principe, avrebbe mirato a dirittura alle Alpi; avrebbe difeso fraternamente le città venete, armato il Tirolo, il Cadore, il Friuli, l'Istria, la Dalmazia, affrontato Nugent sull'Isonzo, costretto i Croati a cader di fame sulla squallida loro frontiera. Vittorioso, discendeva le Alpi arbitro e re. Vinto, non aveva le amarezze e le ignominie d'un'ambizione delusa.

Il re doveva accettare il consiglio che, pur troppo contro l'animo nostro, gli mandavamo dal mezzo delle barricate: esser generoso coi generosi. - Ma non appena aveva trapassato la frontiera: non appena i titubanti suoi scorridori avevano raggiunto i vittoriosi volontarii nostri sul Benaco e sul Mincio : e già stendeva la mano sleale a mendicare l'anticipata paga delle sue fatiche, facendoci bassamente intendere ch'egli sino a quando quel prezzo non fosse chiaramente pattuito, non farebbe opera decisiva. Vaneggiava che la vittoria rimarrebbe aspettando sempre il suo regal beneplacito.

Intanto i suoi satelliti si maneggiavano in Piacenza, per fargli decretare prematuramente la sovranità di quello stato, in luogo del Borbone, come se un altro Borbone non regnasse in Napoli. Il quale, costretto parimenti dal volere dei popoli, spediva pure soldati in difesa della causa italiana. Onde, fin da quei giorni mi ricorda d'aver rimproverato a certi settarii di Carlo Alberto, che quelle brighe loro avessero già spento nel nascere la lega dei principi d'Italia, onde Carlo Alberto si ridurrebbe a sostener da solo e con forze inadeguate la nostra guerra. - "Come potete mai sperare che il re di Napoli si presti ora a servire le cupidigie di un altro re? Se foste suoi consiglieri, potreste voi esortarlo ad aiutare il principe che gli spoglia i parenti? Il re di Napoli non ha fama di mansueto e maneggevole; ma se fosse pur tale, potrebbe mai porgere la mano al nemico della sua famiglia?" - Ora, chi diede cagione a Ferdinando di rompere la lega e togliere dalla nostra alleanza i suoi soldati, lo pose necessariamente in contrasto con coloro che l'avevano costretto alla guerra. Egli non poteva uscire dalla lega, senza entrare in una sanguinosa reazione. Dopo i quali fatti, è vano indagare se nella strage che in quei giorni afflisse Napoli, il primo colpo venisse dalla mano d'un cittadino o d'un provocatore. La precipitosa ambizione di Carlo Alberto aveva reso inevitabile il luttuoso conflitto. Sarìa stata ben maggiore onestà, ed eziandío maggiore avvedimento, il farsi conciliatore tra Ferdinando e i Siciliani, affinchè in quel fatale momento nel quale da un pugno di soldati poteva dipendere la salute e l'onore d'Italia, le forze tutte d'un regno di otto e più millioni si fossero applicate alla nostra guerra. Ma parve più bello a Carlo Alberto il soffiare in quelle fiamme, per aver poi modo a intrudere la sua casa sul trono di Sicilia. E così li strazii di Napoli e di Messina pesano quasi egualmente sull'anima d'ambo i re.

Senonchè, l'effetto si fu che, essendo dimostrato impossibile il tenere in freno e in concordia i nostri principi, fu dimostrato altresì non potersi rifare l'Italia se non colla diretta unione dei popoli. - Ed è il solo frutto vero di quella politica torinese, tanto falsa, quanto temeraria e ostinata.

 

Presi a quei lacci i membri del governo provisorio, non intendevano in quali difficoltà stessero per avvilupparsi, coll'adottare la proposta di fusione della Lombardia col Piemonte, vale a dire, l'assoluto sacrificio del principio popolare e federale. Invaniti d'esser partecipi d'un gran raggiro principesco, e già plaudendo a medesimi, quei malaccorti si figuravano di portar d'un tratto in Milano e in mezzo al loro fortunato conciliabolo, il trono di Savoia, non antivedendo li infiniti ostacoli che lo avrebbero impedito.

E per verità se quella corte si fosse trasferita subitamente in Milano, avrebbe tratto seco le famiglie che la compongono, e quelle che traggono da lei sostentamento. Ed ecco ricader tosto a condizione provinciale quella città di Torino, fatta grande per forza artificiale d'una corte che in quella assoluta obedienza poteva tutto e faceva tutto.

 

Ma Carlo Alberto avrebbe poi voluto desolare in tal modo la sua città? immolarla a Milano? obliare li interessi di re, fino a torsi da quella salda rocca della feudalità e del principato, per edificare sovra una mobile arena? disertare un popolo educato dai secoli ad ereditaria devozione, per un popolo incredulo e raziocinatore : trapassato e feltrato per ogni maniera d'inganni e disinganni : il quale abbisogna solo del favore del secolo e d'un breve agio di tempo, a svolgere nel suo seno una possente e indomita democrazia? Non sarebbe far come Napoleone, quando pospose la donna del suo amore alla principessa non curante e infida? - No! Carlo Alberto non avrebbe mai sbarbicato dalla terra di Piemonte l'arbore annoso della monarchia, per farne in Milano un palo senza radice.

Ora, se Torino doveva rimaner capitale, toccava dunque a Milano di esinanirsi a vita provinciale, altra difficoltà non minore. Si supponga per un momento che Brusselle, unita alla Francia, volesse farsi capitale di Parigi. Egli sarebbe assurdo, quando anche Parigi avesse un quarto solamente della presente sua popolazione. Or bene, altretanto era assurdo che Torino potesse primeggiare in Italia sovra Milano.

Hanno talune città un tempo di fortuna, ma poi decadono, senza più risurgere. Ma tali altre città, dopo qualsiasi lutto, risorgono sempre a novelle grandezze. Egli è perchè la potenza loro non proviene da fatto d'uomo, ma da cause materiali e di natura.

Tra siffatte città è Milano. Fin dall'era celtica era essa principale nell'alta Italia: Mediolanum Gallorum caput. Divenne poi convegno della civiltà romana; Virgilio vi andava scolare: æmula Romæ. Nei bassi tempi, la chiesa ambrosiana fu la sola che avesse lena di resistere a Roma; serbava lungamente le nozze ai sacerdoti; e ancora oggidì tiene un documento d'apostolica libertà nel suo rito orientale. Nel risurgimento, il popolo di Milano fu il primo d'Europa a serrarsi in fanteria contro la cavalleria feudale; soggiogò anzi a legge scritta le consuetudini arbitrarie dei baroni, libri feudorum; disfece l'imperatore in pugna campale; spianò le castella; ricacciò la feudalità in una lista di terra lungo i monti del Friuli, del Tirolo, del Piemonte, del Monferrato, dell'Apennino. Quando l'Italia trapassò ai dittatori ghibellini, il signore di Milano per poco non si coronò re d'Italia. Rimasta poi quasi senza Stato, pur si trovò alla calata di Bonaparte la sola città ch'egli potesse far capo della sua republica e del suo regno, quando di Torino faceva senza ostacoli un dipartimento francese. Al ritorno del dominio austriaco, Milano rimase seggio delle nuove lettere e del pensiero nazionale. Alla sua ribellione, si levò in armi tutta l'Italia.

L'interesse che ha qualunque città di non divenire provincia, le consuetudini d'indipendenza che le stesse famiglie cortigianesche contraggono dal viver lontano dalla corte, lo spirito democratico del secolo, l'aria di libertà che vien tratto tratto di Francia, ogni cosa insomma, avrebbe contribuito a far di Milano, subordinata dai brigatori a Torino, la indomita città dell'opposizione.

Quanto più il regno fortissimo si sarebbe dilatato in Italia, tanto più centrale si faceva la posizione di Milano, tanto più strana quella di Torino. E' in Milano che le grandi vie mercantili s'incrociano, per una configurazione di terreno che la politica non può mutare; quivi la navigazione dell'Adriatico e del Po si collega a quella dei grandi laghi; quivi le locomotive possono indirizzarsi da un lato all'Adriatico, dalli altri verso il Mediterraneo e il Reno, i passi dell'Alpi e dell'Apennino; quivi la congerie delli interessi commerciali si sarebbe venuta accumulando intorno al centro dell'opposizione. No, era troppo forte impresa per Carlo Alberto ridurre Milano alla umile condizione di Genova. li occhi della polizia, le mani dei soldati, potevano farlo in siffatte condizioni sicuro del suo proposito, se non giungeva a intercettare a Milano le spontanee fonti della sua potenza. Sarebbe stato mestieri sottoporla a meditata e inesorabile oppressione, compiendo quel decreto d'artificiale decadimento a cui, per farla docile a Vienna, l'aveva indarno condannata l'imperatore Francesco: Milano deve decadere. Il primo passo si era già fatto il 1 di maggio, molto prima che si proponesse la fusione, quando Giacinto Collegno, classificandola piazza militare di seconda classe, la subordinò quetamente a Torino.

Qual sarebbe stato fra Torino e Milano l'esito del conflitto?

E' una delle quistioni codesta, il cui sciogliemento si attende talora per secoli. Ma un esito molto ovvio e naturale sarebbe stato, che le provincie di nuovo acquisto avrebbero aderito a Milano, sollevandosi contro quell'insolita capitale, e quella retrograda corte. E allora, in uno ai soldati del re, correvano pericolo d'esser cacciate anche le temerarie famiglie, che in quell'occupazione militare avevano cercato un sussidio all'imponente loro ambizione. E forse la guerra civile avrebbe precorso il termine della guerra straniera.

E fors'anche quel moto non sarebbesi circoscritto alle nuove provincie; poichè molte eziandío delle presenti terre del Piemonte sono antiche e vicine membra dello Stato di Milano, e ricordano ancora quei vincoli aviti e geniali. Onde nei primi giorni della nostra libertà, quando le città finitime si volgevano tutte a noi con festivo saluto, Alessandria rammentò d'essere "quasi figlia ai Milanesi"; e Valenza, d'avere con noi partecipato "al giuro di Pontida"; e Vercelli si disse "gloria d'avere appartenuto all'Insubria". A Genova poi si parlava aperto di farsi appoggio in Milano contro la poco amata Torino. Perlochè quando ebbe compimento la sudata fusione di Milano col Piemonte, Torino palesò certa inquietudine, e poco meno che pentimento, quasi si sentisse sull'orlo d'un vortice il cui centro era Milano. Ma Milano non parve farvi mente: e perchè in quel tempo era presta a obliare ogni cosa per l'alto obietto dell'indipendenza: e perchè forse era conscia della sua forza, e la supremazia di Torino non le pareva evento da temersi. Si sa che Carlo Alberto, il quale all'esercito veramente pensava solo alla politica, uscì sovente a dire che Milano gli dava a pensare!

 

Come re Carlo Alberto, era avverso ai nostri volontarii, i quali potevano spargerli nell'eserciti pensieri di libertà; come conquistatore, era non meno contrario ai nostri soldati regolari, i quali avrebbero potuto, dopo la guerra, essere d'ostacolo alla soggezione in cui ci doveva tenere. Non pago d'averci imposto officiali che non potevano incutere rispetto, potevano fondare nei nuovi reggimenti una virile e spontanea disciplina, volle ancora che ogni cosa la quale concernesse l'ordinamento dell'esercito fosse in sua propria mano; e perciò fece consegnare ai suoi generali il portafoglio della guerra. E il primo avvedimento di quella losca politica si fu, di tener fuori dai nuovi reggimenti i giovani più generosi e culti, relegando in battaglioni separati quanto più si poteva degli studenti d'università, di licei, di seminarii, nonchè delle guardia nazionali che volevano aver parte nella guerra, e le bande dei volontarii che difendevano la frontiera tirolese, e lo stesso battaglione delli istruttori, che pure erasi divisato all'uopo appunto di somministrare officiali all'esercito. Queste segregazioni si conducevano in modo che paressero spontaneo effetto dell'ardore di quella generosa gioventù; ma nulla si faceva perchè non avvenissero. Nei deserti quadri dei reggimenti si donavano intanto i gradi al più inverecondo favore. Uomini senza studii e senza pratica d'armi : inesperti impiegati del ministero, il merito dei quali era stato solamente d'aver avuto mano in qualche frivola dimostrazione: uscirono fra i publico stupore rivestiti improvisamente di cospicui titoli militari. Li stessi officiali piemontesi non dissimulavano una giusta disistima per quelle maschere militari, benchè di loro fattura.

Ma per essere più certi dell'intento loro, i ministri di Carlo Alberto, avevano per convenzione col governo provisorio intercetti i denari che dovevano sopperire alla fondazione del nostro esercito.

E qui viene necessario accennare anche i diportamenti del governo provisorio. Il che poi fa sempre continuazione alla politica del re, essendo stato quello il suo più docile istrumento.





3Fidando dell'aiuto di quel Dio ch'è visibilmente con Noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da “. Manifesto del 23 marzo .



4 Vogliamo che le Nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovraposto alla bandiera italiana". Manifesto del 23 marzo .



5 La veille encore ce prince a protesté de son amitié pour l'Autriche. Alm. de Gotha.

Deposizione fatta di mano propria dal sig. F. Simonetta di Milano, presso il Comitato di Guerra. - "Francesco Simonetta, trovandosi lunedì sul battello a vapore del lago Maggiore con uomini armati N.° 80 in circa, fece avvertire, per mezzo del conte Gilberto Borromeo, il vice intendente Sardo d'Arona che intendeva sbarcarvi, per andare a unirsi coi volontarii; ed anche in ogni caso colle truppe reali sarde, per recarsi al soccorso di Milano. Ciò gli venne negato. Onde lasciate a bordo tutte le armi, si recò tosto a Novara a quel Comitato presieduto dal sig. Gantieri, per dimandare se vi fossero delle disposizioni; e gli fu risposto che gli conveniva dirigersi verso Pavia, dove si univano altri volontarii al confine del Gravellone. Ritornato al battello, gli venne intimato dal vice-intendente che si doveva evacuare dagli armati il battello e consegnare le armi, tenendone egli responsale il conte Gilberto Borromeo".

"Il che visto, il Simonetta virò di bordo e andò a sbarcare colla sua gente ad Angera ove fu bene accolto".

Il lunedì era il giorno 20, già il terzo del nostro combattimento!






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