Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

IntraText CT - Lettura del testo

  • VIII Il Governo Provvisorio
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

VIII

Il Governo Provvisorio

 

Un articolo della convenzione medesima del 26 marzo, che aveva chiamato ad ammaestrare il nostro esercito li officiali disimpegati dal re, mise a nostro carico "ogni sussistenza dell'esercito".

Inoltre, un decreto del aprile, con insolito esempio, autorizzò senza verun confine tutti i comuni ad incontrare le spese che occorressero pel mantenimento delle truppe sì di stanza che di passaggio, a prender denaro a mutuo senza limite alla misura dell'interesse, e a requisire le derrate necessarie; bastava che le somministrazioni all'esercito del re fossero giustificate con ricevute dei capi; l'ammonto verrebbe poi rimborsato ai comuni dalla nazione.

Una sì larga promessa, contratta senza determinare il numero dei soldati, senza necessità, senza ponderazione, anzi all'insaputa dei cittadini e senza facoltà sufficienti, dai municipali d'una città del regno, - poichè le provincie avevano ancora in quei giorni separati governi - fu la chiave di quella pubblica povertà d'un paese ricco, di quella fondamentale impotenza della Lombardia, che parve ai cittadini inesplicabile arcano, e più d'ogni altra cosa contribuì a disarmarli ed avvilirli.

Senza qui mentovare le ingenti somme che vennero contribuite dai municipii e dai comuni, costò direttamente al tesoro quella promessa, in quattro mesi, più di 15 millioni di lire correnti. Ora, il nostro incasso ordinario essendo di 77 millioni incirca, non poteva ne suddetti quattro mesi riuscire se non da 25 a 26 millioni. Perlochè, difalcata la sussistenza dell'esercito piemontese, rimaneva una decina di millioni; e questa pure andava in gran parte a smarrirsi nelle spese di percezione. E così non v'era denaro nemmeno per le spese ordinarie di pace. E inoltre era ad aspettarsi che pel turbamento generale dei traffici e degli officii, inaridisse notabil porzione anco delle solite entrate; tanto più che il nemico depredava barbaramente la provincia di Mantova, e vi poneva ostacolo al commercio colla Venezia e coll'Adriatico onde viene parte dell'introito alla finanza.

 

Solamente per l'interesse quadrimestre del Monte dello Stato necessitava poco meno di tre millioni. Il governo provisorio si era dunque reso impossibile il pagamento delli interessi. E in conseguenza, non tardò due giorni a palesare il paese in fallimento. Senonchè il Casati, colla circollocuzione gesuitica a lui consueta, significò la cosa come affatto innocente, dichiarando coll'avviso del 28 marzo, che "la prefettura del Monte dello Stato era conservata, e che verrebbe con apposito decreto fatto conoscere il giorno in cui ripiglierebbe il corso delle ordinarie sue operazioni". Queste operazioni ordinarie, vale a dire i pagamenti, non si ripigliarono più!

Nessun disordine poteva esser maggiore. Il governo austriaco, per appuntellare il malfermo suo credito, aveva fatto impiegare in quelle carte i capitali dei luoghi pii, di molte altre publiche instituzioni, dei pupilli, e di quanti avessero a fare depositi e sicurtà per pubblici contratti. E non era un valsente di Borsa scaturito da imprestiti venturosi. La rendita del Monte derivava per lo più da risarcimenti con difficili prove avverati, e spesso iniquamente mutilati, e da altri buoni titoli; ed era assicurata nel trattato di Vienna sul regno lombardo-veneto, col patto medesimo della sua fondazione.

Poco invero doveva importare a Carlo Alberto, che, colla fermata delli interessi, i pupilli rimanessero improvisamente affamati, e i luoghi pii lasciassero destituiti e vagabondi i loro clienti. Ma doveva bene importargli alquanto di non guastarci a bella prima il credito, senza il quale, nei tempi difficili che correvano, non era a sperare imprestito; , senza imprestito ben pronto e ben largo, potevamo improvisare il nostro esercito. Ora, il tenerci privi d'esercito era il punto al quale tendeva in quel tempo la politica insulsamente scaltra del re. Il quale mirava sempre fisso alla servitù della Lombardia; non alla libertà dell'Italia.

 

Ma ben più strano era che il governo provisorio, assediato da ogni maniera di bisogni, con una lega di principi resa vana dall'ambizione del re, col regno per metà occupato dal nemico, colla guerra lasciata crescere ogni giorno, senza soldati proprii, senz'armi, senza finanze, senza credito, si studiasse d'aggravare ancora più le pubbliche difficoltà, coll'abolire il testatico, il lotto, il dazio della catena, il dazio di transito, l'esazione delle tasse arretrate, il bollo delli avvisi, e in gran parte il dazio del sale e del zucchero, il porto delle lettere, la tassa della caccia, il dazio di magazzino, il bollo della carta, e il dazio dei vini piemontesi, delle lane e di molte altre derrate. Sarebbe bastato il decretare tutti codesti alleviamenti per il primo dopo la guerra vinta; e tener sempre l'animo del popolo confitto in questa meta suprema.

Qual era in ciò la mente dei membri del governo?

Avevano essi dichiarato il 29 marzo di voler "alleggerire il peso delle publiche imposte a favore delle classi men doviziose". Pareva a tutta prima che volessero solamente accettar l'aura popolare, allettare a con quei vani ristori la moltitudine credula, sicchè non avesse a prestar orecchio alli amici della libertà. Pareva a tutta prima che volessero solamente attaccar l'aura popolare, allettare a con quei vani ristori la moltitudine credula, sicchè non avesse a prestar orecchio alli amici della libertà. Ma venne poi chiaro che volevano proprio avviluppare i cittadini in una rete d'inestricabili angustie, per costringerli assolutamente a darsi subito al re. E infatti, nel preambolo al decreto del 12 maggio, nel quale comandavano al popolo, contro la data fede, di votare intorno all'immediata sommissione a Carlo Alberto, gli provavano la necessità di quel duro e vile sacrificio, citando appunto la guerra grossa, le sussistenze dovute alli alleati, le finanze bisognevoli di rimedio pronto ed efficace, le influenze ostili della diplomazìa, le provincie venete in gran parte già rioccupate dai barbari. - Le quali cose tutte provenivano dalla convenzione del 26 marzo, dalla maliziosa dissipazione delle finanze e del credito, dall'usurpazione di Piacenza, dall'abbandono del Tirolo e del Friuli, e dalla sciagurata subordinazione della guerra del popolo alla politica del re.

Dopo avere colla succitata convenzione svuotato il tesoro e spolpati i communi, il governo, nel seguente, 27 marzo, aveva proveduto a rendere impossibile ogni considerevol prestito, dimandandone bensì uno di 24 millioni, ma soggiungendo che non intendeva pagare interessi. Allontanò così tutte le serie ed efficaci esibizioni sì dei cittadini che dei forestieri; e mutò il prestito in un'elemosina alla patria.

Gli dava poi la forma più infesta all'opinione del paese, cioè quella d'una carta moneta. La suddivideva in minutissimi viglietti da venticnque lire; i quali furono sempre considerati di pericolosa circolazione, anche nei paesi accostumati a siffatti valori. Offriva d'accettarli come denaro sonante, in conto delle imposte. E non pensava, che, rientrati una volta nelle publiche casse, difficilmente troverebbero la via d'uscirne ancora; dimodochè il faticoso prestito si riduceva in fine a una mera anticipazione d'imposte. Pare che questi avvedimenti scaturissero dal conte Giuseppe Durini; il quale aveva voce di gran pratico, principalmente pel disprezzo che professava ai libri.

Il rimborso doveva cominciare entro un anno, e compiersi nei due seguenti; promessa che non poteva non esser vana; epperò feconda a maturo tempo di discredito.

Si accettava poi come denaro ogni maniera d'oggetti preziosi. Si vedevano le giovinette offrire un fermaglio, un monile; i vecchi una posata, un candeliere d'argento, un acquasantino. A chi considerava la tremenda gravità delle circostanze e dei pericoli, pareva in verità che si facesse doloroso scherno della generosità e della fiducia del popolo. Con siffatte bricciole non potè giungere a compiere nemmeno la decima parte della proposta somma. E le importunità che a tal uopo si facevano, e l'assidua lista delle donate cianfrusaglie che si sciorinava ogni giorno nella gazzetta, e i ringraziamenti del governo colla seguente preghiera per una più abondante elemosina, costituivano un sistema nuovo e strano nella istoria delle finanze e della guerra; e davano a quei signori aspetto, non so, se di mendicanti o di frati.

Persone d'ogni ceto, si diceva a nome suo, accorsero ed accorrono, a deporre sull'altare della patria il loro òbolo. Pie ed esemplari concittadine si spogliano volontariamente delli stessi preziosi arredi... Vogliano dunque tutti coloro, cui la Providenza concedeva cospicue fortune, vogliano affrettarsi a sorreggere con benefica mano una causa la più giusta, la più santa.” Si pregavano i cittadini "a offrire i loro cavalli per la causa santissima". Si faceva "appello ai facoltosi a radunare i cavalli da sella per l'esercito sardo". Lo stesso ministerio della guerra, deposta la militare truculenza, confidava nella generosità delli agiati cittadini, i quali volessero donare le selle per l'artiglierìa, o almeno imprestarle! Si chiedeva alle donne tela per la biancheria; si chiedeva ai communi "nella generale scarsità della tela, di supplire almeno col fustagno greggio per l'allestimento dei sarrò". Si faceva dimandare dall'arcivescovo alle chiese, in via di prestito, una porzione dei sacri argenti. Mai non si vide altro governo regnar così ginocchione. Per mandare un battaglione a soccorrer Venezia, fece fare la cerca dei fucili. Per comperare altri duemila fucili, fondò una società anonima. Infine volle sapere quante posate d'argento ciascuna famiglia avesse.

Il paese rimaneva stupefatto e avvilito. Aveva sempre avuto un'opinione dell'opulenza sua, maggiore anche del vero. Cadeva ora nel più profondo discredito di medesimo. A ottener il qual fine sempre più, il governo sospendeva la liquidazione dei debiti antichi dello Stato; e ad ogni istante dimandava misere anticipazioni d'un mese o di due sulle imposte prediali; il che dava impaccio alle famiglie, senza recare stabile sollievo allo Stato; poichè, in capo al mese o ai due mesi, doveva risorgere la stessa difficoltà. Laonde, quando si volle rianimare il languore del prestito coll'offerta dell'interesse, non si trovò più chi volesse affidare allo Stato i suoi capitali. Il credito era spento.

 

In procinto di far votare l'unione col Piemonte, il governo volle far sentire ai cittadini tutto il peso delle circostanze con un cumulo d'insolite gravezze. Il decreto del 13 maggio impose d'un solo fiato un'anticipazione sul censo, una sovrimposta pure sul censo, una sulle arti e il commercio, una tassa sulle arti liberali, e una sui crediti ipotecarii. Si aggiunse poco dipoi una diminuzione alli stipendii delli impiegati e alle pensioni; se ne mutilò in certi casi perfino la metà. L'imposta sulle ipoteche, oltre al rompere la fede dei contratti, e preparare una generale alterazione nella misura delli interessi, scompigliava il credito privato, propalando le secrete afflizioni delle famiglie; e destava una selva inestricabile di dubii e di liti, per ragioni evidentissime ch'è lungo riandare.

L'aggravio sul censo non raggiungeva nemanco un'ottava parte del solito tributo annuale; dimodochè le borse delli ottimati non venivano tampoco a conferirvi un mezzo millione. Per pudore, venne poco di poi cresciuto; e allora pesava troppo sui possidenti poveri. Un'indulgenza ancora maggiore per medesimi avevano avuto quei signori, eziandío nel riformare la legge sulla carta bollata; poichè, a cagion d'esempio, un'eredità di ventimila lire era tassata nell'uno per mille; e un patrimonio di seicentomila lire, solamente nell'uno per diecimila!

Col suddescritto ripiego delle offerte volontarie li ottimati scampavano dal flagello delle tasse proporzionali. Famiglie da trecentomila lire d'entrata, che si sarebbero potute tassare di centomila lire, senza scemar loro alcuna morbidezza del vivere, si traevano d'impaccio col dono d'un paio di cavalli o di un cannone. E il popolo, che non poteva fare altrettanto, li ammirava e li benediceva.

Non appena fu votata la fusione, essendo conseguito il fine di sgomentare la moltitudine, il governo, col decreto del 1 giugno, trasformò le tasse del 13 maggio in un prestito fruttifero. Nuova assurdità. Ogni più povera famiglia, che possedesse un tugurio censito a una dozzina di scudi, e che perciò riescisse tassata in meno d'una lira, doveva ricevere dal governo un documento, portante la rendita annua di meno di un soldo ! Erano divisamenti puerili e impraticabili. Nelli imprestiti ordinarii, le famiglie che hanno capitali accumulati, li sovvengono all'erario; e tutto il paese, ossia tutte le altre famiglie, ed esse medesime, devono poi fornire l'interesse; ognuno fa ciò che può. Ma il governo provisorio, composto quasi solo di signori o di umili loro clienti, non volendo prendere i capitali dov'erano, offriva impiego fruttifero a chi non li aveva. Quei cortigiani, immemori e improvidi del tremendo pericolo, erano con tutto l'animo in quelle misere avarizie. Sognavano di ripristinare anche fra noi le esenzioni e le ineguaglianze d'ogni maniera, che la corte di Torino così stentatamente ha trascinate seco fino a questo secolo; come se noi dovessimo aver combattuto, non per avere la libertà, ma per discendere più basso nel pendìo della servitù.

 

Fino dal suo nascere, il governo provisorio aveva abolite le delegazioni, cioè i governi delle provincie, e le aveva concentrate nelle congregazioni; ch'è quanto dire, aveva messo tutti li abitanti in balia delle rappresentanze delli ottimati. ciò era perchè le delegazioni avessero origine austriaca, poichè le congregazioni erano pure nominate dalli Austriaci, e fra li uomini più ossequiosi.

Conculcava nello stesso nello stesso tempo il principio sacrosanto dell'indipendenza e inamovibilità dei giudici, sciogliendo d'un tratto tutti i tribunali, per poi rifarli a beneplacito del presidente Guicciardi, e d'altri antichi capi e disertori della fazione austriaca.

Le congregazioni e i presidenti ebbero facoltà di scacciare, senza forma alcuna di giudicio e nemmeno d'accusa, tutti li impiegati che loro paressero non confermabili. Era quello un render laude all'Austria, la quale, per far contenti al miserissimo stipendio i suoi impiegati, voleva, se non altro, che fossero difficilissime e di rarissimo esempio le destituzioni.

 

Declamava il governo contro la polizia austriaca; ma non adoperava la publicità per dibarbicare le sue radici e rivoltarle al sole. Anzi per cupidigia di raccorre quella fetida eredità, fin già dal 27 marzo, sporgeva alle vecchie spie il mantello del secreto; faceva fede ai cittadini che "le liste delle spie non esistevano, e non potevano esistere". E i servili così salvavano intatte e secrete al nemico quelle armi, dopo essersi pur troppo imbrattati a maneggiarle.

Fingeva il governo provisorio, quando millantava abolita la polizia; poichè in effetto conservò la polizia vecchia nel suo nido di S. Margarita, sotto nome di Publica Vigilanza; e ne fece una nuova nel suo palazzo del Marino, sotto nome di Publica Sicurezza. Dalla quale dovevano poi uscire altre diramazioni in ogni provincia e distretto e commune, giusta il decreto del 13 aprile, che proponeva circa tremila nuovi funzionarii per quella sterile e malvagia istituzione. Dapertutto ella doveva innestarsi sul fusto della polizia vecchia, potendo i suoi comitati "utilizzare il personale delli officii soppressi; il quale perciò sarebbe stipendiato". Ora come annunciare abolito e soppresso un personale che si stipendiava e si adoperava?

Verso la fine di giugno, si aggiunse una terza polizia di stato, una specie di consiglio di dieci; e vi furono chiamati il conte Francesco Arese e Alfonso Litta Modigliani. E doveva "scoprire le corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni nemici". Non scoperse mai nulla; o in verità era intesa unicamente a vessare li uomini liberi, che non si potevano comprare infamare. Le corrispondenze secrete colli esterni nemici non erano se non tra i guerrieri gesuiti del quartier generale del re, come la prova delli effetti dimostra.

Al 5 aprile, quand'era più che mai necessario di profittare della vittoria, e spingere a Verona e Mantova, in Tirolo, in Friuli, tutti li uomini atti alle armi, e confidare per l'ordine interno nelle guardie nazionali, e in quella nobile esaltazione del popolo che aveva quasi fatto sparire i delitti : il ministerio della guerra, non solo non si valeva del reggimento dei gendarmi per la difesa del paese; ma per rinforzarlo agli usi della polizia, vi chiamava "ottocento volontarii di nuova leva".

E il governo infliggeva poi tosto a quel corpo una degradazione che l'Austria gli aveva sempre risparmiato, poichè sottraeva al comando militare il suo ordinamento, per farlo dipendere dalla nuova polizia (13 aprile).

Si tentò avvilire per egual modo la guardia nazionale, scegliendo nel suo seno un corpo prima di seicento uomini e poi di mille, sotto nome di guardia di publica sicurezza (28 e 29 marzo); e doveva esserne colonnello il Fava, presidente della nuova polizia; e i suoi assistenti dovevano formare lo stato maggiore. E ognuno di quei mille doveva essere "di noti principii politici e di specchiata moralità", degno insomma, secondo il § 6, "d'essere comandante delle guardie di publica vigilanza "cioè, dei vecchi poliziotti austriaci, dei quali si vagheggiava la risurrezione. Ma questa non si poteva così tosto operare; i cittadini della guardia nazionale tolerarono poi che il colonnello presidente della polizia venisse a fare sopra ciascun di loro l'impertinente scrutinio "dei noti principii e della specchiata moralità".

Per cacciare fino tra la feccia delle prigioni le influenze e il favore della fazione dominante, la quale per atterrire i buoni voleva guadagnare i tristi, s'instituì una commissione di grazia. Doveva "liberare le infelici vittime di pessime leggi e d'arbitrarie procedure". E il presidente di essa, e pertanto emendatore delle procedure e delle leggi, venne fatto ancora il Fava, ch'era medico o chirurgo. Vi fu allora un Carcano, giureconsulto e praticante di tribunale, ch'ebbe la facezia di chiedere in vista di ciò al governo provisorio d'esser messo direttore di un ospitale di partorienti.

Dal corpo dei 160 officiali di pace si fecero uscire, colle buone o colle cattive, quasi tutti li uomini d'animo libero; e perchè non si potevano cacciar tutti senza aprire li occhi alla ammaliata cittadinanza, vi si aggiunse quietamente un corpo aggregato, d'altri quaranta officiali. E delli uni e delli altri sempre presidente il Fava.

Tutto questo labirinto di vigilanza, di pace e di sicurezza era piantato a inciampo e spavento dei liberi cittadini. La delazione, che sotto l'Austria scorreva solo per meati immondi, cominciò sotto li auspicii dei gesuiti torinesi a infilarsi entro le vene della società. Per bassezza d'animo, e per furor di setta, vi si arruolarono persone cospicue; e addestravano a farci la guardia i loro servi e i nostri. Uomini di nobil nome ci facevano arrossire per loro, quando li vedevamo inseguire alle tavole rotonde i viaggiatori francesi e svizzeri. Dissigillavano le lettere, anche ai consoli delle potenze; correvano matutini a frugar nelle carte del canonico Ambrosoli; correvano notturni ad arrestare, una volta Giulio Terzaghi e due volte Enrico Cernuschi. Dissi un giorno ad una di quelle anime depravate, che davvero "rigeneravano questa volta il popolo, poichè avevano già nobilitato il mestiere della spia!".

La delazione porgeva la mano alla diffamazione e alla minaccia. Uomini frivoli e sleali, intrinsecati colla nuova polizia, spargevano le più odiose voci fra un popolo che, per naturale ingenuità, e per manco d'esperienza politica, era tuttora facile ad allucinare. E non pensavano, che, rotto una volta a quelle male pratiche, non tarderebbe guari ad accorgersi ch'era ben altro l'interesse suo da quello dei cortigiani di qualsiasi re. Mani abiette, ma non sempre callose, scrivevano sulle pareti delle case note d'infamia; e con lettere cieche turbavano la pace domestica, consigliando l'esilio, e minacciando la morte. Questa brutta guerra, fatta all'ombra delle armi regie, rimase privilegio di quella sola setta. Servi, servite, è il peggio che rispondessero loro sui muri li amici della libertà. Poichè i più di questi parevano immemori d'ogni cosa fuorchè dell'esercizio delle armi; e parecchie migliaja stavano a militare sui confini del Tirolo, e sotto Mantova, o alla difesa di Vicenza e di Treviso; e li altri miravano con disprezzo, e quasi con pietà, una fazione che faceva col popolotemerario gioco, e sì poco durevole. Il primo respiro di libera stampa, la prima contradizione alle opere dei governanti, fu repressa coll'invasione violenta della stamperia del Lombardo; il quale ebbe tosto a cessare. Molti onesti giovani furono fatti perseguitare dalla polizia con bastoni e coltelli. I garzoni che vendevano per le strade i giornali liberi, furono vilmente manomessi. Ma le radici della libertà erano già fitte nelli animi; la stampa libera metteva un nuovo ramo ogni giorno; e la stampa servile si faceva ogni giorno più fiacca e melensa. E la guerra intanto nelle mani a Carlo Alberto languiva; e i barbari, non che fuggire, ritornavano d'ogni parte; onde ogni giorno era più chiaro, che, se la dedizione a Carlo Alberto doveva farsi a guerra vinta , non si sarebbe fatta mai.

Perlochè i suoi satelliti si agitavano; e mentre da un lato tentavano incuter timore, si studiavano dall'altro d'adescare i creduli con fallaci speranze. Mandavano narrando ai trafficanti che stava in fresco un imprestito di sessanta millioni; ma che i capitalisti, in gran parte genovesi, ponevano per condizione anticipata che Milano si desse prima a Carlo Alberto. E ciò fatto, non solo i rivi dell'oro avrebbero inaffiato il paese e ristorato il commercio, ma la guerra avrebbe sollecita fine. Poichè intenerito il re da un tal pegno di fiducia e d'amore, avrebbe tosto fatto venir di Piemonte tutte le sue riserve; e impugnando risolutamente la spada, la spada d'Italia, come li adulatori dicevano, avrebbe messo i nemici veramente alle strette. Il che dicendo, non s'avvedevano di confessare che il re faceva pertanto di poca fede e di mezza voglia la guerra.

Il governo provisorio non solo aveva detto di nuovo al suo popolo: "attendete che ogni terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti (29 marzo)"; ma aveva detto al popolo veneto che "a causa vinta la nazione avrebbe deciso"; aveva detto al popolo genovese : "prepariamoci ad assestare tranquilli, dopo la vittoria, le sorti della patria italiana (29 marzo)"; l'aveva perfino promesso al sommo pontefice: "a causa vinta la nazione deciderà". Aveva finalmente istituito una commissione, che studiasse un progetto di legge sulle assemblee popolari, "avendo egli fisso di convocare nel più breve termine possibile una rappresentanza nazionale, affinchè un voto libero, che fosse la vera espressione del poter popolare, potesse decidere i futuri destini della patria (8 aprile)". Alle quali promesse del governo consonava la regale parola di Carlo Alberto, che nell'atto d'intimare la guerra aveva detto ai Lombardi e Veneti: "le mie armi vengono a recarvi l'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, l'amico dall'amico"6. E appena posto il piede sulla nostra terra, aveva in Lodi protestato generosamente: "Io vengo fra voi, non curando di prestabilire alcun patto; vengo solo per compiere la grand'opera dal vostro valore incominciata. Le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno fra voi quella sicurezza, che vi permetterà d'attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento".

Ma come mai poteva compiere, sulle alpi Giulie, la grande opera italiana, egli, da una pedestre politica incatenato sul Mincio? - Mai non sarebbe dunque giunto il momento, nel quale avrebbe potuto dire al popolo: la causa è vinta; richiedergli il premio della corona ferrea. Gli era dunque mestieri fare il suo contratto anzi tempo; e farsi conferire un diritto su quella metà del regno che teneva, affinchè il popolo non potesse costringerlo a perigliarsi nel difficile acquisto dell'altra metà. Ed era mestieri farlo incontamente; e prima che la languida guerra, e l'immobilità dell'esercito, e le sventure alle quali la sua diplomatica astinenza condannava le città venete, manifestassero il crudele inganno.

 

Senonchè, doveva egli sembrare sollecitato dai popoli stessi a prendersi anticipata la sua mercede; ed il suo governo provisorio doveva sembrare costretto dal voto publico ad offerirla. A tale intento, i suoi facendieri facevano mover l'onda da lontano. La movevano perfino da Firenze, d'onde il Salvagnoli e il Ricasoli, col pretesto di conferire il premio della cittadinanza fiorentina al Casati e al Borromeo e alli altri indomiti, che avevano "diretto il valor milanese nella gran lutta", scrivevano che i fiorentini (Dio lo perdoni), anzi "tutti i veri italiani, desideravano ardentemente che fosse formato lungo le Alpi un altro baluardo più solido, contraponendo per sempre alli Austriaci un grande e fortissimo Stato, il quale divenisse il vero custode dell'indipendenza e libertà d'Italia". - Quel bell'ingeno del Salvagnoli aveva davvero la febre e il delirio del regno fortissimo e della custodia sempiterna. Egli non pensava che le cose nuove e grandi si fanno colle forze morali, e non col vano tumore e ingombro della materia militare.

Altri facendieri intanto, Leopoldo Bixio, e Paolo Farina, e il Pareto, e un Doria che forse non aveva letto le istorie di casa sua, brigavano a nome del popolo genovese, pregando Milano a farsi suddita di quel re sì poco a Genova accetto; e promettevano, senza fondamento alcuno di verità, di farla capitale del nuovo regno: "Il nostro cuore si slancia verso di voi. Uniti ai fratelli sardi, piemontesi e savoiardi, vi protendiamo le braccia anelanti all'amplesso fraterno colla vostra città, fatta nuovamente capitale di floridissimo regno, libero e costituzionale". E la guardia civica di Genova rinovava poscia la tentazione; e prometteva nuovamente al popolo milanese, in luogo della libertà, i regni del mondo :"Due vie vi stanno inanzi. L'una vi primato su tutti i popoli della penisola; vi apre una fonte larghissima di ricchezze e di forze. L'altra vi riporta inevitabilmente alla guerra civile; schiude nuovamente l'adito al barbaro. In quali vene scorre un sangue più republicano del nostro? Eppure noi soffochiamo con ogni possa i nostri istinti republicani; e facciamo di buon grado un olocausto, affine di cooperare alla unificazione italiana". E citavano anche la Sicilia, che voleva essere governata da un re costituzionale. Ma quel desiderio dei Genovesi d'esaltare Milano, veniva dall'odio loro contro Torino; e putiva assai più di guerra civile, che non l'attendere onoratamente a cacciare il barbaro dalla Venezia, e tener sacra la data promessa. Era poi falso che non vi fosse per il Lombardo-Veneto e i Ducati cispadani veruna alternativa fuori di quella della republica o della sommissione a Carlo Alberto. Perocchè nulla impediva che costituissero più principati: o un solo: o che aderissero alla Toscana; il qual ultimo disegno avrebbe rimosso parecchie difficoltà diplomatiche; poichè la casa d'Austria non rimarrebbe spossessata, ma solo distribuirebbe in nuovo modo i suoi possedimenti. E perciò vi sarebbe stato meno a combattere prima, e meno a temer poi; e otto millioni d'anime, da Venezia all'Elba, facevano un regno bastevolmente forte per terra e per mare, e certamente meno gesuitico, e men feudalesco, e più libero, e anco più italiano. dico che ciò fosse a fare, ma dico che il dilemma Bixiano era fallace e sleale. Ed era sempre indecoroso che i cittadini di Genova confessassero di tradire il loro sangue e rinegare la nobile loro natura; dovevano tacere, o combattere. O almeno, lasciarci combattere da noi, così come s'era incominciato.

Da ogni città d'Italia i regii sollecitatori si davano ricapito in Milano; e coll'aiuto del governo, convocavano, senza pudore, a publiche deliberazioni nel circolo costituzionale di S. Redegonda i loro seguaci. Di mandavano offrendo impiego e patrocinio ai bisognosi; agli agiati, nobiltà di corte e spallini d'argento e d'oro; titoli più sonori e più buffi ai già titolati; accuse e minacce ai ritrosi. Facevano venire con grande aspettazione l'abate Gioberti, che, per mezzo d'un Massari da Napoli suo portavoce, teneva dal balcone della locanda quaresimali contro la republica e contro l'alleanza francese. Partiva deriso. Mandavano satelliti ad annunciare alle provincie la decisa volontà della capitale; e li facevano ritornare per le poste nella capitale ad annunciare il volere imperioso delle provincie. E il governo, dopo aver consunto nell'indegna comedia i pensieri e l'autorità che doveva spendere contro il nemico, usciva a lagnarsi ipocritamente : "che li animi non si fossero contenuti nei limiti d'una discussione nel suo ardore già pericolosa; che in molte provincie si fossero raccolte firme a migliaia, preludendo al voto della nazione con propagande fra loro contrarie, suscitando passioni, alimentando speranze; popoli, governi, città esortarlo a uscire di quel campo in cui si era trincerato". - Ma invece di frenare i perturbatori cittadini, e dare lo sfratto ai non cittadini, e rivocare con gravi parole i popoli al supremo intento della guerra, archietettava nel decreto del 12 maggio un dilemma, più storto ancora di quello di Bixio: "o il popolo riprenda il suo impegno di non voler parlare di politica; o si decida per quella fusione, che sola è naturale, sola possibile". O bisognava pertanto ammutolire: o giurarsi sudditi di Carlo Alberto. In questo grido stava pel governo provisorio tutto il possibile della politica.

Ripeteva poi l'esortazione - "a fare dell'Alta Italia un inespugnabile baluardo, sotto quella augusta casa a cui la storia aveva assegnato il glorioso titolo di guardiana delle porte d'Italia". - Trista raccomandazione invero, quando l'istoria d'Italia dimostrava come non vi fosse stata terra mai con più sciagurata e vana guardia custodita. Infine il governo, dandoci a mordere l'esca genovese, si millantava che i fratelli di Torino "non altro anelando che d'aver consorti i Milanesi, fossero pronti a rimoversi in lor favore delle più legitime ambizioni".

Composto il governo provisorio con frammenti di congregazioni e municipalità, scaturito pertanto dall'Austria e non dal popolo, si era patteggiato la tolleranza dei combattenti col promettersi neutrale. Era come una sicurtà lasciata dalla parte forte e generosa alla greggia delli imbelli e delli avari, non ansiosi della patria, ma solo della quiete e della roba. Erano corsi dalla promessa soli cinquanta giorni; la guerra non era vinta, anzi volgeva manifestamente al peggio; era chiara l'impotenza del re; la questione della forma di governo non era discussa, tampoco proposta; la rappresentanza nazionale non era convocata; la legge elettorale era ancora un secreto d'officio. Il decreto adunque che infliggeva ai cittadini il perentorio precetto di votare entro due settimane, contro la fede, senza lume di discussione, senza sussidio alcuno di rappresentanti del popolo, e prima che la condizione suprema della pace e della vittoria si avverasse, era flagrantemente invalido. Venne poi a constare invalido dal fatto; poichè non solo non adempì "alla suprema necessità che l'Italia intera fosse liberata dallo straniero, e continuata la guerra dell'indipendenza"; non solo non apportò indipendenza, libertà; ma disfatta, e ignominia, e tradimento. E il "guardiano glorioso" non vide mai tampoco quelle porte delle Alpi che doveva difendere; e riconsegnò di persona al barbaro le porte stesse della nostra città.

 

La questione dal deliberarsi non era una sola; e perciò non poteva onestamente ridursi a una semplice alternativa d'un sì o d'un no. Prima si voleva interrogare i cittadini se consentissero o no a sciogliere così tosto il solenne patto di guerra vinta; poi qual forma di reggimento preferissero; e qualora avessero anteposto il principato, se lo amassero commune ad altri stati, come si voleva a Napoli: o veramente solo e separato, come si voleva in Sicilia; e qualora lo avessero voluto commune con altri Stati, era a vedere quali e quanti fossero gli Stati; e se consentissero; e a quali patti d'unione; e sopratutto con quali riserve pel congresso generale d'Italia e per la nazionale unità. Ed era ben possibile che il Piemonte non volesse ai nostri patti accettare; e che ai patti suoi non potesse venire accettato. Onde finalmente poteva rimanere ancora la scelta del principe, o in quella medesima casa, o in altra.

Se tutte codeste questioni non erano regolarmente discusse e deliberate, in seno a una rappresentanza d'uomini giudicati capaci dai cittadini e da loro deputati a ciò, potevano i servili raffazzonare a forza di male pratiche una vana immagine di votazione; potevano li uomini liberi, per amore di concordia, e per odio supremo al nemico, e per pietà e pudore della patria, e sopratutto per fiducia nel corso ineluttabile del secolo, tacere un momento e soffrire. Ma dissipato un istante quel misero polverìo, avrebbersi veduto accorrere d'intorno il popolo disingannato, e la gioventù sempre sincera e magnanima; e allora non avrebbero potuto rimanere inoperosi, senza farsi giudicare codardi. La votazione dei 12 maggio era dunque, presto o tardi, un patto di guerra civile.

Ella era peggio. Poichè, ponendo il paese in arbitrio altrui, facendolo roba di re, da darsi e torsi a piacimento, al gioco della guerra politica e della diplomazia, e sopratutto consegnandolo a mano istoricamente perfida, lo diede fin d'allora al nemico. Il governo provisorio, per quanto era in lui, consumò sin da quel giorno il tradimento.

I contadini, i quali dal del loro nascere non avevano sotto il governo dell'Austria udito mai verbo di politica, furono chiamati d'un tratto al suffragio universale presso i curati, ai quali i vescovi, non eletti dai fedeli ma dall'Austria, avevano comandato di fare ciò che il governo avrebbe detto. Si lasciarono votare i forestieri, e le tante migliaia di Piemontesi e Genovesi ch'erano in Milano (compreso il mio cuoco ch'era da Gambolò). Si fecero votare li officiali piemontesi, intrusi allora allora nei nuovi reggimenti, e in presenza loro e sotto le loro monizioni e minacce i soldati; l'ordine del ministerio della guerra era così villanamente imperioso che si dovè mutare. Per affettazione di puntualità si fecero votare perfino i condannati in presenza dei loro carcerieri, e con promessa d'indulgenze. I mendicanti ebbero a far la croce, sì se volevano aver poi l'elemosina o l'entrata all'ospedale, come publicamente loro si diceva. Alli avventori del confessionale, in certe parochie si minacciò il rifiuto dell'assoluzione; alli avari minacciarono multe; ai timidi si scrisse morte sul muro della casa. I facendieri misero tanta solerzia in codesti imbrogli, che in parecchi luoghi v'ebbero più voti che non vi fossero abitanti. V'erano uomini talmente infervorati nella fusione, che correvano a votare in più parochie: in quella della casa e in quella della bottega: in città e in villa, e in quante ville riescivano a farsi inscrivere. Altri toglievano i registri ai curati esitanti; e li portavano per le case, incaricandosi di firmare per chi non voleva o non sapeva; centinaia di voti erano scritti da una stessa mano; e molti erano nomi ignoti e imaginarii. Il numero materiale dei voti non era il terzo di quello che venne asserito; e i voti veramente deliberati e validi non furono molti. Infatti sull'oggetto del sì e del no si dicevano ai votanti le più strane cose; si diceva che da una pagina era il regno, e dall'altra la republica; dall'una i Tedeschi, e dall'altra Pio Nono; dall'una la republica, e dall'altra la vera religione! Ai riluttanti per istinto di libertà si diceva a rovescio che il regno sarebbe scala alla republica; che il re sarebbe soltanto strumento di guerra; e a pace fatta si caccerebbe con tutta la sua gente; e quei sacrileghi aggiungevano: quando tempo verrà, rifaremo le barricate.

L'alternativa veramente posta ai votanti si fu: darsi a Carlo Alberto immantinenti, o aspettare a guerra vinta. Chi avesse voluto rispondere; ora mai, non aveva pagina ove scrivere il suo nome. Ed erano molti; e quasi tutti coloro che sarebbero stati li eletti dal popolo a deliberare; e uomini anche di diverse opinioni, purchè solo avessero senso di fede publica e di privata dignità. E tutti questi ebbero a schifo di accostarsi al turpe registro; e perciò la pagina della guerra vinta rimase deserta. Nella provincia di Cremona, che ha più di duecento mila abitanti, si trovarono scritti nella pagina negativa soli 24 nomi; in quella di Pavia 9; nella Valtellina 3. Ov'erano dunque "le firme raccolte a migliaia, dalle propagande loro contrarie, con ardore pericoloso, alimentator di speranze, suscitator di passioni?" Nella provincia di Como si votò sopra un'altra formula, nella quali si poneva a patto l'unione coi Veneti; onde, attesa la politica del re incompatibile con quell'unione, il voto della provincia sarebbe caduto indarno. Infine, a togliere quella gravità colla quale i magistrati devono deliberare della salvezza e dell'onore d'un popolo al cospetto delli altri popoli, il governo provisorio, fattosi letteralmente eunuco, brigò uno squittinio di donne; le quali volevano "presiedere al connubio di due frazioni di nazione".

All'ombra dell'occupazione militare, i brigatori poterono con poco pericolo proprio far minacciare la vita alli oppositori, all'istorico Vignati in Lodi, al Campana in Brescia, allo Scalini in Como, al Rota in Bergamo, a molti e molti in Milano. A Calcio, sotto pretesto d'incendio, si fece suonare a stormo per atterrire l'arciprete Lombardini, il quale non voleva che uno Scotti portasse fuori dal presbiterio i registri; e il governo non fece arrestare lo Scotti, ma l'arciprete; e il vescovato di Cremona voleva interdirlo dalle sue funzioni. Le ribalderie di questa fatta furono innumerevoli; e non sarebbe senza castigo dei colpevoli, senza beneficio della patria, l'andarle raccogliendo e publicando. Spargendo nelli animi onesti e liberi un senso di sdegno e di fastidio, contribuirono più d'ogni altra cosa a rendere possibile il ritorno del nemico.

Le città che i soldati del re, al loro arrivo, avevano trovato pronte a valorosa difesa, al loro ritorno dal Mincio erano cadute in profonda inerzia.7





6 Prima ancora che alcun soldato piemontese toccasse il nostro confine, erano già in corso premeditati maneggi per assoggettare al re, non solo Milano, ma lo stato di Parma e le Legazioni in via di preludio all'acquisto del rimanente. Tutti i principi d'Italia erano per tal modo inimicati a noi, riconciliati all'Austria; compromessa la guerra; resa impossibile la lega dei principi; resa necessaria la unione dei popoli.

 

Ecco brano di lettera scrittami in tali sensi da Torino, fin dal 24 marzo, e col soprascritto: preme!

 

« E perciò che vi scrivo. - Potete col vostro voto influire moltissimo sul pubblico, e segnatamente sulli altri compatrioti che coadjuvano con voi alla grand'opera. La sicurezza di tutta la penisola vuole, che l'Italia settentrionale costituisca un regno di circa 12 millioni di abitanti; il quale colla sua forza materiale e morale, colle sue ricchezze, colla sua intelligenza, si ponga alla testa della nazionalità italiana, e sia il custode della commune indipendenza. La confederazione italiana, composta allora di pochi stati, sarà più compatta; potrà adunarsi e intendersi meglio, che non se fosse composta di molti, essendo vizio delle confederazioni la lentezza e la irresoluzione. Li ex-ducati di Parma e Modena potranno facilmente far parte del nuovo regno d'Italia. Col tempo, e senza violenza, vi verranno le Legazioni. E quando per base del nuovo jus publico italiano si ponga, che i matrimonii non danno alcun diritto ai principi forestieri di succedere ai principi italiani di cui la linea finisce, credo che avremo una sicurezza anco per l'avvenire e con essa un elemento di unificazione. Ma non tocca a me di dire a voi.» ecc., ecc.

 

Siano grazie a Dio, che l’unificazione e la servitù di tutta l'Italia a' gesuitai torinesi erano differite sin dopo che si fossero fatti tutti i matrimonii, e fossero finite tutte le linee! Frattanto l'Italia doveva tacere e dormire per non so quante generazioni. Nel medesimo giorno 24 marzo, io riceveva da Torino altra lettera in senso opposto, la quale mi diceva come a Torino si fosse sparso che i Milanesi viceversa non avessero altra voglia che di farsi sudditi del re. Questa decrepita politica dei Torinesi ha due becchi come l'aquila di Vienna.

 

"Qui da tutti si dice che la Lombardia voglia buttarsi in braccio al Piemonte. - Per amor di Dio, se siamo ancora in tempo, adoperi tutta la sua influenza, perchè non si faccia. Ho conosciuto abbastanza il paese, e so quel che dico. Appena arrivato volerò da lei, e gliene parlerò a lungo. Ella procuri intanto, almeno di tirare in lungo, e di far prima molti conti e chiari. Grazie all'inesplicabile inerzia del governo piemontese, queste truppe non sono arrivate in tempo di prestare il benchè menomo aiuto nell'eroica lotta. Dunque si può avere il diritto e il coraggio di fare gran patti. Per carità, tenga conto di questa mia preghiera, e mi creda per la vita. tutto suo» ecc., ecc.



7 Troviamo nel Journal d'un officier del Ferrero, a pag 15, in data del 5 aprile: «Nous arrivons à Crémone; les routes aux environs de cette ville étaient coupées par des fossés et des barricades. Dans l'intérieur on avait fait quelques préparatifs de défense, afin d'opposer une vive résistance a l'ennemi, s'il en avait tenté l'attaque; nous y reçumes le plus gracieux accueilTroviamo a pag. 103, in data del 30 luglio: «Le calme régnait dans la ville; tout l'appareil militaire et belliqueux du mois d'avril avait disparu, pour faire place à la tristesse et à la résignation!» I padroni erano tornati servi.






Precedente - Successivo

Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License