IX
Li oppositori
Si dimanderà
che facessero in questo mezzo lo oppositori.
Li amici della
libertà non si trovavano fin da principio ordinati in setta come i servili; i
quali, essendo in sostanza li antichi seguaci dell'Austria, si erano fin dal
1814 congregati all'ombra del governo medesimo nella Pia Unione, e nel Casino
di S. Giuseppe, e nelle Congregazioni, e in Corte, e altrove; e per l'esiguo
loro numero, avevano unità d'interessi e di mire. Nella opinione libera
s'incontravano uomini di diverse condizioni e d'interessi disparati, ignoti fra
loro di persona e di costumi; poichè sotto la vigilanza austriaca non avevano
potuto costituirsi nè chiarire mutuamente i loro pensieri; nè avevano stampa
libera, o discussioni parlamentari, o comitati elettorali, o altre istituzioni
che porgessero loro ansa a radunarsi e fare accordi e conoscenza.
Al momento
dell'insurrezione, unica cura dei liberali fu cacciare il nemico; molti non si
diedero altro pensiero mai che li esercizii militari o la guerra; erano li
uomini d'impeto e di sacrificio. Alcuni partendo pel Tirolo e per la Venezia, lasciavano publica istanza ai cittadini di volere onestamente riservare fino al loro
ritorno le deliberazioni politiche, e non tradire chi andava a perigliarsi per
tutti.
Alcuni si
erano associati colli ausiliarii svizzeri nella già mentovata protesta del 25
marzo. E al 29 avevano tenuto un’altra adunanza; ed eravi presente Cesare
Correnti, ch'era già fatto secretario del governo, ma fu creduto per lungo
tempo d'altra opinione. E vi avevano deliberato una nota, nella quale
dimandavano la immediata convocazione d'un'assemblea preparatoria di deputati
dei 127 distretti della Lombardia; per costituire un governo centrale con
mandato di popolo; per conservare i vincoli attuali coi Veneti, Tirolesi,
Istriani e Dalmati; per fare una legge elettorale.
Ma il governo
provisorio, non volendo cose di popolo, si procacciò la qualifica di centrale,
aggregandosi un membro da ogni provincia; e in ciò preferse li uomini già più
devoti all'Austria; per esempio il conte Moroni da Bergamo, il consigliere
Rezzonico da Como, il Turoni da Pavia, professore spregiato dai giovani per
l'elogio che aveva stampato dell'imperatore Francesco. Nè volle già una legge elettorale
decretata da deputati dei popoli; ma solo uno studio di legge, elaborato a lume
del governo da una commissione. La quale, avendo avuto l'incarico all'8 aprile,
e avendolo già compiuto al 9 di maggio, ebbe a vedersi delusa la sua fatica dal
turpe decreto della fusione. Il governo, per allucinare i cittadini, vi aveva
compreso, fra li altri, De Boni, Berchet, Basevi, Robecchi, Pagnoncelli.Ma poi
non vi badò altrimenti. E non avrebbe tampoco fatto stampare il loro rapporto,
se non avessero minacciato di stamparlo essi medesimi. Compreso io pure in
quella commissione, aveva appunto dimandato che i protocolli fossero ad ogni
seduta publicati. Il che non essendosi consentito, me ne tenni fuori, persuaso
che sarebbe una vana e insidiosa mostra.
In varie occasioni
i cittadini dimandarono malleverie del futuro. La guardia nazionale ottenne
promessa d'essere conservata, e che non si porrebbe limite alla libertà della
stampa e al diritto d'associazione. Ma il governo non ne fece un patto perpetuo
dell'unione col Piemonte. E ne diede sicurezza soltanto fino alla prima
assemblea, che si sarebbe tenuta insieme alli altri sudditi del re; nella quale
la illimitata libertà si sarebbe certamente diminuita.
Pregavano i
cittadini che si demolisse il castello di Milano. Ma il governo stette sempre
fermo a non demolirlo, pensando forse che il re avrebbe avuto di siffatti
arnesi lo stesso bisogno che ne aveva a Genova. Già nella notte in cui Radetzki
lo aveva sgombrato, il Casati parlava di mozzar solo due torrioni. Io gli dissi
che appunto per l'altezza loro erano poco utili alla difesa, e che si potevano
pur tollerare anche come monumenti; ma radere piuttosto tutto il rimanente;
poichè un edificio vasto e solido, libero verso la campagna, e messo così nei
fianchi della città, ad ogni occasione sarebbe sempre tornato una fortezza. Il
Casati fece publicare (25 marzo) che in giornata il castello sarebbe
reso inoffensivo; ma veramente levò solo qualche palmo dei torrioni.
In una nota di
dimande da farsi al governo, essendosi poi toccato quell'argomento, e chiesta
la demolizione di tutti i luoghi forti che potessero adoperarsi a spavento
delle nostre città, il Fava, qualificandola come proposizione incendiaria, fece
arrestare Pietro Agnelli che l'aveva stampata, e Giulio Terzaghi che dichiarò
di avergliela data a stampare. Le assidue istanze dei cittadini, a quell'uopo
associati da Pecchio e da Mauro Macchi, ottennero dopo tre mesi un nuovo
decreto (26 giugno) che dichiarò "destinato il castello a uso
civile". Ma furono baie; e il governo provisorio non accondiscese a
disfarlo, nemmeno quando vide sovrastare il ritorno del nemico. Il quale può
rendergli grazie d'aver trovato ancora quel nido, ove con poche opere esterne
può farsi lungamente sicuri contro ogni sforzo dei poveri cittadini.
Fecero i
liberali altre molte dichiarazioni e proteste; ma non procedevano in modo
seguente e pertinace. La guerra sembrava essere in cima d'ogni loro pensiero;
vedevano i retrogradi e i barbari solo in Austria; e non badavano ai retrogradi
e ai barbari che erano in Italia; perchè ogni terra ha i suoi. Alle mene
politiche non si pensava di proposito se non dalla gente del re. Inoltre i
buoni temevano troppo delicatamente d'esser detti artefici di discordie al
cospetto del nemico; e non pensavano, che l'arme più temuta dal nemico era
quella parola di libertà che si lasciavano strozzare in bocca. L'Italia cadde
altre volte per effetto delle dissensioni. Questa volta, pur troppo, ella cadde
per un furore di concordia ad ogni costo.
Quando poi il
governo ebbe spenta la fiamma popolare, e alienati li amici italiani e
stranieri, e snervate le finanze, e consegnato l'esercito ai generali del re, e
messa ogni cosa nostra in sua balia, e dato al nemico l'agio di riaversi, i
servili andavano sussurrando che non conveniva offendere con atti troppo liberi
l'unico nostro difensore. E l'abate Gioberti, nei discorsi che andava facendo
qua e là per l'Italia, non ebbe rossore di additare, quasi minacciando,
l'esempio delle città venete, pei loro capricci republicani lasciate in preda a
Radetzki8.
Li oppositori,
evitando adunque ogni atto che potesse parer seme di discordia, si ristavano a
sollecitare indefessi il governo, perchè operasse con vigore; e facesse
fondamento sul popolo e sull'Italia, e spingesse con veemenza la difesa. E il
generale Bava ne fa testimonio, ove si lagna che nel momento in cui Vicenza
cadeva, "una deputazione del governo provisorio veniva dichiarando, che se
non si fosse marciato avanti, tutto era perduto; ed essere necessario alla nazione
vittorie su vittorie, quando non si volesse veder trionfare il partito
republicano". E soggiunse: "Due giorni dopo, Sua Maestà mi annunciò
che la deputazione lombarda assolutamente desiderava una marcia in
avanti"9.
Una marcia! Si
vede che il re non voleva fare; e il governo provisorio voleva solo che facesse
mostra di fare. Nè curava che si salvasse ad ogni rischio Vicenza combattente;
ma che di facesse solo una marcia per far tacere i republicani. - E qui
s'intende pur troppo quanta parte i terrori di Parigi ebbero sulle prime
vittorie del popolo francese! e quanta parte la nostra mansuetudine e i
rispetti umani ebbero sulla caduta!
Tuttavia quel
modo d'opposizione, sì molle e inefficace a primo aspetto, aveva conciliato a poco
a poco l'approvazione e la fiducia dei cittadini, e sventate le calunnie delli
avversarii; poichè sembrava saggezza e virtù ; e infine i più accecati venivano
ogni giorno capacitandosi che le cose nostre erano in mani infedeli. Frattanto
la stampa aveva avuto tempo di metter radice; la guardia nazionale l'aveva
fatta rispettare dai cagnotti del governo e del circolo costituzionale. I
servili vedevano dileguarsi d'ora in ora la frodata popolarità; e molti
dicevano loro sul viso che conveniva lasciarli fare, affinchè disingannassero
essi il popolo così come l'avevano ingannato. E al pari delli altri prepotenti
che cadono, erano già costretti d'appellarsi alle vecchie infamie di polizia;
delle quali sarebbe troppo nausea istoriare i particolari. Essendone io, ad
onta dell'assoluta mia immobilità, l'assiduo bersaglio, mi ridussi a chiudere a
tutti la mia casa, ch'era sempre stata, anche sotto il governo austriaco,
l'amichevole convegno d'uomini studiosi d'ogni opinione. E infine, per lo
stomaco che mi faceva quell'influenza cadaverica di corte e di gesuitismo mi
prese una smania di lasciare la patria, ch'io non aveva mai provato. Cercai con
male parole al Fava un passaporto, che mi fu mandato l'8 giugno. Sì presso
ancora ai cinque giorni! E poi non sapeva risolvermi; e di giorno in giorno
prolungava miseramente quella vita da prigioniero.
Dirò che i
liberali ebbero più longanimità o dignità che forza e coscienza. L'unica
eccezione fu quella dell'Urbino, che al 29 di maggio il giorno in cui si
chiudevano i registri della fusione, volle approfittare del fremito ch'era in
molti buoni cittadini, e tentò costringere i membri del governo a dimettersi.
Ma quelli ch'ei volle sostituire, non lo conoscevano, essendo egli tornato di
Parigi da poco tempo; e perciò rimase naturalmente derelitto. Nè alcuno di essi
avrebbe accondisceso ad accettare il frutto della violenza. E quelli studenti e
militari e membri della guardia nazionale ch'erano veramente presti, anzi
desiderosi, di metter fine colle mani alla dappocaggine del governo provisorio
e all'uopo si offrivano, vennero sempre con gravi parole dissuasi. Il male era
profondo; era necessario lasciargli corso e sfogo. Il popolo non conosceva il
pregio della libertà che gli era caduta fra le mani.
L'Urbino fece
anzi buon'opera al governo, dandogli occasione d'interessare alquanto con una
farsa l'imaginario pericolo la parte più fiacca e timorosa dei cittadini, e
mettendo una convulsione di servilità nella guardia nazionale, che aveva già
cominciato a rammentare al governo i suoi doveri.
Si annunciò ai
cittadini che l'Urbino aveva con una mano strappata la fascia tricolore al
Casati, e coll'altra imbrandito un pugnale. Lo sgraziato aveva una mano sola!
Il Fava, sempre eguale a sè, stampò tosto ch'egli aveva "la consolazione
d'annunciare che i fili della trama erano troncati. Speriamo, egli diceva, che
il processo rivelerà quali siano stati li illusi, quali i compri dall'oro
austriaco, che anche per questa volta, fu, come a Roma e Livorno,
inutilmente gettato". E si cominciò, poi si ricominciò da capo, un
processo, nel quale il presidente supremo Guicciardi, già fiscale austriaco,
s'incaricò di far involgere nomi onorati; ma per l'onestà dei giudici, e
specialmente di Caporali e Bazzoni, non riescì se non a disonorare se stesso. In
sostanza si accusava l'Urbino d'aver tentato deporre il governo provisorio,
salvo alcuni membri, credo Pompeo Litta, Anelli e Guerrieri, i soli che
avessero mostrato più o meno renitenza a frangere la data fede; e d'aver voluto
aggiungere altri cittadini, tra i quali dicevano mi avesse pur compreso.
Insomma, ai promotori delli armistizii, delle dedizioni e delle fusioni
preferiva li oppositori. Converrebbe che i servili accusatori spiegassero che
cosa Radetzki vi guadagnasse, sicchè dovesse spendervi quel suo oro. In
nessuna occasione poi, i Correnti, i Broglio, i Mauri e li altri scribi
provisorii diedero più fratesco volo alla loro eloquenza10.
Si può
rimproverare alli amici della libertà d'aver pensato troppo tardi ad una
qualunque resistenza; di non essersi ordinati in numerose e popolari società;
d'aver tolerato troppo a lungo che i rinegati della loro fede rimanessero
intercessori e mezzani fra loro e un governo che tradiva la sua parola; d'aver
lasciato troppo agio ai retrogradi d'intorpidire e avvilire i cittadini
predicando l'opportunità di quella sommissione, il cui primo annuncio era parso
favoloso, e aveva mosso ripugnanza e sdegno. Si può rimproverarli di non aver
gridato immantinente alla lega d'Italia e al congresso di Roma, il quale sarebbe
stato il custode della nostra padronanza e libertà; di non aver voluto
appellarsi in tempo alla republica francese, perchè ammonisse l'alleato
infedele a rispettare il patto col quale era venuto in casa nostra. Si può
rimproverar loro d'essersi arresi a sacrificare il fatto della libertà per la
speranza della vittoria; di non aver cercato l'indipendenza per la diritta via
della libertà; di non aver detto in piazza tutto il vero; di non aver chiamato
il popolo dei sobborghi e delle campagne alla pratica delle armi, alla
fraternità del bersaglio, a studiare le difese ne' suoi monti, nelle selve, nei
fossi, nelle muraglie; di avergli lasciato fare un arcano della sua guerra e
del suo governo e delle sue finanze; di non avergli nei giornali parlato subito
e sempre collo stile patriarcale di Franklin, nè con modi semplici e forti come
le sue barricate; ma d'avergli incartocciato il discorso di formule metafisiche
e di circollocuzioni mistiche e di frondi e di fumo e di tenebre; sicchè dopo
quella valanga di carte, poveri e ricchi rimasero in supina ignoranza dei fatti
loro, e preparati a cadere eternamente nelli stessi lacci. Sì ; dovevasi
ripetere ogni giorno alla nazione italiana l'istoria dei tradimenti passati, a
torre quell'imbecille fiducia che si riponeva nei traditori. Si doveva
mormorare e fremere ogni giorno contro la guerra svogliata e molle; e non si
doveva lasciare che ogni scaramuccia, ogni ricognizione senza proposito e senza
frutto, si celebrasse in battaglia napoleonica e più che napoleonica; nè si
glorificasse tanto una spada che usciva sì malvolentieri dalla vagina, e che
nella prima battaglia campale rimase spezzata. I profeti della libertà non
dovevano porsi a sedere e tacere, quasi neutri e forestieri, lasciando che le
ambizioni cortigianesche prevalessero senza contrasto alla salvezza e alla
gloria della nazione. Pur troppo in cuor loro essi fornicarono colla potenza
regale; sperarono veramente più da quella che dalla forza del popolo, nel quale
professavano di confidare unicamente. Tradirono li eterni principii per il
piatto di lenti che la forza materiale aveva loro promesso. Erano pronti a
soffrire, che, colla invasione della Lombardia, e colla diserzione della
Venezia e del Tirolo e dell'Istria, e col furto della Sicilia, si ricominciasse
una nuova e più durevole scissione delle terre d'Italia. Lasciarono mettere
sulla santa bandiera il polveroso ragnatelo dei baroni di Savoia; e
acconsentirono al patto che rimetteva la guerra del popolo in procura d'una
corte, e dava in paga al mercenario la gemma della libertà.
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