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Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

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  • IX Li oppositori
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IX

Li oppositori

 

Si dimanderà che facessero in questo mezzo lo oppositori.

Li amici della libertà non si trovavano fin da principio ordinati in setta come i servili; i quali, essendo in sostanza li antichi seguaci dell'Austria, si erano fin dal 1814 congregati all'ombra del governo medesimo nella Pia Unione, e nel Casino di S. Giuseppe, e nelle Congregazioni, e in Corte, e altrove; e per l'esiguo loro numero, avevano unità d'interessi e di mire. Nella opinione libera s'incontravano uomini di diverse condizioni e d'interessi disparati, ignoti fra loro di persona e di costumi; poichè sotto la vigilanza austriaca non avevano potuto costituirsi chiarire mutuamente i loro pensieri; avevano stampa libera, o discussioni parlamentari, o comitati elettorali, o altre istituzioni che porgessero loro ansa a radunarsi e fare accordi e conoscenza.

Al momento dell'insurrezione, unica cura dei liberali fu cacciare il nemico; molti non si diedero altro pensiero mai che li esercizii militari o la guerra; erano li uomini d'impeto e di sacrificio. Alcuni partendo pel Tirolo e per la Venezia, lasciavano publica istanza ai cittadini di volere onestamente riservare fino al loro ritorno le deliberazioni politiche, e non tradire chi andava a perigliarsi per tutti.

Alcuni si erano associati colli ausiliarii svizzeri nella già mentovata protesta del 25 marzo. E al 29 avevano tenuto un’altra adunanza; ed eravi presente Cesare Correnti, ch'era già fatto secretario del governo, ma fu creduto per lungo tempo d'altra opinione. E vi avevano deliberato una nota, nella quale dimandavano la immediata convocazione d'un'assemblea preparatoria di deputati dei 127 distretti della Lombardia; per costituire un governo centrale con mandato di popolo; per conservare i vincoli attuali coi Veneti, Tirolesi, Istriani e Dalmati; per fare una legge elettorale.

Ma il governo provisorio, non volendo cose di popolo, si procacciò la qualifica di centrale, aggregandosi un membro da ogni provincia; e in ciò preferse li uomini già più devoti all'Austria; per esempio il conte Moroni da Bergamo, il consigliere Rezzonico da Como, il Turoni da Pavia, professore spregiato dai giovani per l'elogio che aveva stampato dell'imperatore Francesco. volle già una legge elettorale decretata da deputati dei popoli; ma solo uno studio di legge, elaborato a lume del governo da una commissione. La quale, avendo avuto l'incarico all'8 aprile, e avendolo già compiuto al 9 di maggio, ebbe a vedersi delusa la sua fatica dal turpe decreto della fusione. Il governo, per allucinare i cittadini, vi aveva compreso, fra li altri, De Boni, Berchet, Basevi, Robecchi, Pagnoncelli.Ma poi non vi badò altrimenti. E non avrebbe tampoco fatto stampare il loro rapporto, se non avessero minacciato di stamparlo essi medesimi. Compreso io pure in quella commissione, aveva appunto dimandato che i protocolli fossero ad ogni seduta publicati. Il che non essendosi consentito, me ne tenni fuori, persuaso che sarebbe una vana e insidiosa mostra.

In varie occasioni i cittadini dimandarono malleverie del futuro. La guardia nazionale ottenne promessa d'essere conservata, e che non si porrebbe limite alla libertà della stampa e al diritto d'associazione. Ma il governo non ne fece un patto perpetuo dell'unione col Piemonte. E ne diede sicurezza soltanto fino alla prima assemblea, che si sarebbe tenuta insieme alli altri sudditi del re; nella quale la illimitata libertà si sarebbe certamente diminuita.

 

Pregavano i cittadini che si demolisse il castello di Milano. Ma il governo stette sempre fermo a non demolirlo, pensando forse che il re avrebbe avuto di siffatti arnesi lo stesso bisogno che ne aveva a Genova. Già nella notte in cui Radetzki lo aveva sgombrato, il Casati parlava di mozzar solo due torrioni. Io gli dissi che appunto per l'altezza loro erano poco utili alla difesa, e che si potevano pur tollerare anche come monumenti; ma radere piuttosto tutto il rimanente; poichè un edificio vasto e solido, libero verso la campagna, e messo così nei fianchi della città, ad ogni occasione sarebbe sempre tornato una fortezza. Il Casati fece publicare (25 marzo) che in giornata il castello sarebbe reso inoffensivo; ma veramente levò solo qualche palmo dei torrioni.

In una nota di dimande da farsi al governo, essendosi poi toccato quell'argomento, e chiesta la demolizione di tutti i luoghi forti che potessero adoperarsi a spavento delle nostre città, il Fava, qualificandola come proposizione incendiaria, fece arrestare Pietro Agnelli che l'aveva stampata, e Giulio Terzaghi che dichiarò di avergliela data a stampare. Le assidue istanze dei cittadini, a quell'uopo associati da Pecchio e da Mauro Macchi, ottennero dopo tre mesi un nuovo decreto (26 giugno) che dichiarò "destinato il castello a uso civile". Ma furono baie; e il governo provisorio non accondiscese a disfarlo, nemmeno quando vide sovrastare il ritorno del nemico. Il quale può rendergli grazie d'aver trovato ancora quel nido, ove con poche opere esterne può farsi lungamente sicuri contro ogni sforzo dei poveri cittadini.

Fecero i liberali altre molte dichiarazioni e proteste; ma non procedevano in modo seguente e pertinace. La guerra sembrava essere in cima d'ogni loro pensiero; vedevano i retrogradi e i barbari solo in Austria; e non badavano ai retrogradi e ai barbari che erano in Italia; perchè ogni terra ha i suoi. Alle mene politiche non si pensava di proposito se non dalla gente del re. Inoltre i buoni temevano troppo delicatamente d'esser detti artefici di discordie al cospetto del nemico; e non pensavano, che l'arme più temuta dal nemico era quella parola di libertà che si lasciavano strozzare in bocca. L'Italia cadde altre volte per effetto delle dissensioni. Questa volta, pur troppo, ella cadde per un furore di concordia ad ogni costo.

Quando poi il governo ebbe spenta la fiamma popolare, e alienati li amici italiani e stranieri, e snervate le finanze, e consegnato l'esercito ai generali del re, e messa ogni cosa nostra in sua balia, e dato al nemico l'agio di riaversi, i servili andavano sussurrando che non conveniva offendere con atti troppo liberi l'unico nostro difensore. E l'abate Gioberti, nei discorsi che andava facendo qua e per l'Italia, non ebbe rossore di additare, quasi minacciando, l'esempio delle città venete, pei loro capricci republicani lasciate in preda a Radetzki8.

Li oppositori, evitando adunque ogni atto che potesse parer seme di discordia, si ristavano a sollecitare indefessi il governo, perchè operasse con vigore; e facesse fondamento sul popolo e sull'Italia, e spingesse con veemenza la difesa. E il generale Bava ne fa testimonio, ove si lagna che nel momento in cui Vicenza cadeva, "una deputazione del governo provisorio veniva dichiarando, che se non si fosse marciato avanti, tutto era perduto; ed essere necessario alla nazione vittorie su vittorie, quando non si volesse veder trionfare il partito republicano". E soggiunse: "Due giorni dopo, Sua Maestà mi annunciò che la deputazione lombarda assolutamente desiderava una marcia in avanti"9.

Una marcia! Si vede che il re non voleva fare; e il governo provisorio voleva solo che facesse mostra di fare. curava che si salvasse ad ogni rischio Vicenza combattente; ma che di facesse solo una marcia per far tacere i republicani. - E qui s'intende pur troppo quanta parte i terrori di Parigi ebbero sulle prime vittorie del popolo francese! e quanta parte la nostra mansuetudine e i rispetti umani ebbero sulla caduta!

Tuttavia quel modo d'opposizione, sì molle e inefficace a primo aspetto, aveva conciliato a poco a poco l'approvazione e la fiducia dei cittadini, e sventate le calunnie delli avversarii; poichè sembrava saggezza e virtù ; e infine i più accecati venivano ogni giorno capacitandosi che le cose nostre erano in mani infedeli. Frattanto la stampa aveva avuto tempo di metter radice; la guardia nazionale l'aveva fatta rispettare dai cagnotti del governo e del circolo costituzionale. I servili vedevano dileguarsi d'ora in ora la frodata popolarità; e molti dicevano loro sul viso che conveniva lasciarli fare, affinchè disingannassero essi il popolo così come l'avevano ingannato. E al pari delli altri prepotenti che cadono, erano già costretti d'appellarsi alle vecchie infamie di polizia; delle quali sarebbe troppo nausea istoriare i particolari. Essendone io, ad onta dell'assoluta mia immobilità, l'assiduo bersaglio, mi ridussi a chiudere a tutti la mia casa, ch'era sempre stata, anche sotto il governo austriaco, l'amichevole convegno d'uomini studiosi d'ogni opinione. E infine, per lo stomaco che mi faceva quell'influenza cadaverica di corte e di gesuitismo mi prese una smania di lasciare la patria, ch'io non aveva mai provato. Cercai con male parole al Fava un passaporto, che mi fu mandato l'8 giugno. Sì presso ancora ai cinque giorni! E poi non sapeva risolvermi; e di giorno in giorno prolungava miseramente quella vita da prigioniero.

Dirò che i liberali ebbero più longanimità o dignità che forza e coscienza. L'unica eccezione fu quella dell'Urbino, che al 29 di maggio il giorno in cui si chiudevano i registri della fusione, volle approfittare del fremito ch'era in molti buoni cittadini, e tentò costringere i membri del governo a dimettersi. Ma quelli ch'ei volle sostituire, non lo conoscevano, essendo egli tornato di Parigi da poco tempo; e perciò rimase naturalmente derelitto. alcuno di essi avrebbe accondisceso ad accettare il frutto della violenza. E quelli studenti e militari e membri della guardia nazionale ch'erano veramente presti, anzi desiderosi, di metter fine colle mani alla dappocaggine del governo provisorio e all'uopo si offrivano, vennero sempre con gravi parole dissuasi. Il male era profondo; era necessario lasciargli corso e sfogo. Il popolo non conosceva il pregio della libertà che gli era caduta fra le mani.

L'Urbino fece anzi buon'opera al governo, dandogli occasione d'interessare alquanto con una farsa l'imaginario pericolo la parte più fiacca e timorosa dei cittadini, e mettendo una convulsione di servilità nella guardia nazionale, che aveva già cominciato a rammentare al governo i suoi doveri.

Si annunciò ai cittadini che l'Urbino aveva con una mano strappata la fascia tricolore al Casati, e coll'altra imbrandito un pugnale. Lo sgraziato aveva una mano sola! Il Fava, sempre eguale a , stampò tosto ch'egli aveva "la consolazione d'annunciare che i fili della trama erano troncati. Speriamo, egli diceva, che il processo rivelerà quali siano stati li illusi, quali i compri dall'oro austriaco, che anche per questa volta, fu, come a Roma e Livorno, inutilmente gettato". E si cominciò, poi si ricominciò da capo, un processo, nel quale il presidente supremo Guicciardi, già fiscale austriaco, s'incaricò di far involgere nomi onorati; ma per l'onestà dei giudici, e specialmente di Caporali e Bazzoni, non riescì se non a disonorare se stesso. In sostanza si accusava l'Urbino d'aver tentato deporre il governo provisorio, salvo alcuni membri, credo Pompeo Litta, Anelli e Guerrieri, i soli che avessero mostrato più o meno renitenza a frangere la data fede; e d'aver voluto aggiungere altri cittadini, tra i quali dicevano mi avesse pur compreso. Insomma, ai promotori delli armistizii, delle dedizioni e delle fusioni preferiva li oppositori. Converrebbe che i servili accusatori spiegassero che cosa Radetzki vi guadagnasse, sicchè dovesse spendervi quel suo oro. In nessuna occasione poi, i Correnti, i Broglio, i Mauri e li altri scribi provisorii diedero più fratesco volo alla loro eloquenza10.

Si può rimproverare alli amici della libertà d'aver pensato troppo tardi ad una qualunque resistenza; di non essersi ordinati in numerose e popolari società; d'aver tolerato troppo a lungo che i rinegati della loro fede rimanessero intercessori e mezzani fra loro e un governo che tradiva la sua parola; d'aver lasciato troppo agio ai retrogradi d'intorpidire e avvilire i cittadini predicando l'opportunità di quella sommissione, il cui primo annuncio era parso favoloso, e aveva mosso ripugnanza e sdegno. Si può rimproverarli di non aver gridato immantinente alla lega d'Italia e al congresso di Roma, il quale sarebbe stato il custode della nostra padronanza e libertà; di non aver voluto appellarsi in tempo alla republica francese, perchè ammonisse l'alleato infedele a rispettare il patto col quale era venuto in casa nostra. Si può rimproverar loro d'essersi arresi a sacrificare il fatto della libertà per la speranza della vittoria; di non aver cercato l'indipendenza per la diritta via della libertà; di non aver detto in piazza tutto il vero; di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle campagne alla pratica delle armi, alla fraternità del bersaglio, a studiare le difese ne' suoi monti, nelle selve, nei fossi, nelle muraglie; di avergli lasciato fare un arcano della sua guerra e del suo governo e delle sue finanze; di non avergli nei giornali parlato subito e sempre collo stile patriarcale di Franklin, con modi semplici e forti come le sue barricate; ma d'avergli incartocciato il discorso di formule metafisiche e di circollocuzioni mistiche e di frondi e di fumo e di tenebre; sicchè dopo quella valanga di carte, poveri e ricchi rimasero in supina ignoranza dei fatti loro, e preparati a cadere eternamente nelli stessi lacci. Sì ; dovevasi ripetere ogni giorno alla nazione italiana l'istoria dei tradimenti passati, a torre quell'imbecille fiducia che si riponeva nei traditori. Si doveva mormorare e fremere ogni giorno contro la guerra svogliata e molle; e non si doveva lasciare che ogni scaramuccia, ogni ricognizione senza proposito e senza frutto, si celebrasse in battaglia napoleonica e più che napoleonica; si glorificasse tanto una spada che uscivamalvolentieri dalla vagina, e che nella prima battaglia campale rimase spezzata. I profeti della libertà non dovevano porsi a sedere e tacere, quasi neutri e forestieri, lasciando che le ambizioni cortigianesche prevalessero senza contrasto alla salvezza e alla gloria della nazione. Pur troppo in cuor loro essi fornicarono colla potenza regale; sperarono veramente più da quella che dalla forza del popolo, nel quale professavano di confidare unicamente. Tradirono li eterni principii per il piatto di lenti che la forza materiale aveva loro promesso. Erano pronti a soffrire, che, colla invasione della Lombardia, e colla diserzione della Venezia e del Tirolo e dell'Istria, e col furto della Sicilia, si ricominciasse una nuova e più durevole scissione delle terre d'Italia. Lasciarono mettere sulla santa bandiera il polveroso ragnatelo dei baroni di Savoia; e acconsentirono al patto che rimetteva la guerra del popolo in procura d'una corte, e dava in paga al mercenario la gemma della libertà.





8 Il discorso di Gioberti alli Anconetani dev’essere per intero nel giornale fiorentino La Patria del 20 giugno; ne raccolgo un brano nell’Italia del Popolo del 1 luglio. Il cortigiano e sofista non ricordava, o dissimulava, che Vicenza pur troppo aveva abbandonato Venezia e si era fusa nel regno fortissimo. – “Se è lecito il conghietturare con riserva li arcani consigli che reggono li umani eventi, IO MI CONFIDO che il caso di Vicenza SIA PER RIMETTERE SUL BUON SENTIERO una città nobilissima, ma SVIATA. Ben intendete, ch’io voglio parlar di VENEZIA, la quale sedotta dalle antiche glorie della sua repubblica, volle rinovarle fuori di tempo!”.



9 [Eusebio Bava, Relazione delle operazioni militari dirette dal generale Bava comandante il primo Corpo d’Armata in Lombardia nel 1848, s. i. l. e d. (ma Torino 1848), pp. 50, 51]



10 Vedi nella Raccolta delli atti del governo provisorio (vol. II. p. 98), il bollettino che comincia : - “Notizie. - Indipendenza, libertà, unione coll'Italia, nomi cari, e doni del cielo! Voi, già da secoli, siete il costante sospiro dei più nobili cuori e delle più elette intelligenze italiane. Ma per giungere a voi, l'uomo, figlio del dolore, deve percorrere una via di dolore! Noi però credevamo, che, espulso lo straniero, il sole della libertà avesse senza nubi tempestose a risplendere su questa terra... Ma noi provammo ancora un momento di terribile dolore, di quel dolore che getta l'abbattimento e la sfiducia nelli animi. Abbiamo veduto i provati amici della libertà, quelli che esposero per essa la vita, che patirono più lustri d'esilio, li orrori della prigionia, li abbiamo veduti sfiduciati, angosciosi. Vedemmo tremolare sui loro occhi la lagrima del dolore. E per un momento credemmo che l'anarchia fosse venuta a funestare la nostra patria; e dietro l'anarchia s'affacciava di già all'attonita imaginazione il funesto bagliore delle baionette tedesche ecc. ecc.”

le baionette tedesche tornarono; ma d’un’altra maniera; e Porta Romana non fu consegnata loro dall’anarchia, ma dalla monarchia.






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