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Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

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  • XI La guerra
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XI

La guerra

 

Il sollevamento del regno lombardo-veneto era universale. Senza accordi, inaspettato, divampava nello stesso giorno in Milano e in Venezia, per effetto contemporaneo delle novelle di Parigi e di Vienna. Zichy, comandante di Venezia, rese per capitolazione tutti i forti della laguna, e s'imbarcò per Trieste con sette mila uomini. I presidii di Osopo e Palma Nova furono disarmati; i montanari della Carnia e del Cadore interruppero le strade che vengono dall'Austria; il Tirolo si mostrava agitato; v'erano in Trento soli duecento soldati, e la nuova fortezza presso Bressanone era sguernita. I giovani di Lecco, di Bergamo, di Val Tellina, di Val Camonica occuparono i passi che vengono dal Tirolo nelle valli dell'Adda e dell'Ollio. La Rocca d'Anfo, nell'alta valle del Clisio, era presa. Il mare e le alpi erano chiuse al nemico.

Nell'interno, le città venete, che riputavansi tepide nella causa dell'Italia, insursero tutte arditamente. Schwartzenberg, comandante di Brescia, patteggiò l'andata. In Bergamo un figlio del vicerè, rimaso per un momento in potere dei cittadini, riescì appena a partire co' suoi. I volontarii liberarono Varese, Como, Monza, facendo prigioni tutti i soldati. A Cremona, tremila italiani disertarono e diedero sei cannoni; quattrocento ussari chiesero d'essere lasciati partire. I forti di Pizzighettone e Piacenza colle loro artiglierie furono abbandonati : ottocento ungaresi del presidio di Parma capitolarono a Colorno; i presidii di Modena e Reggio cercavano di rifugiarsi in Mantova. Colonne di volontarii, invano contrariate da Carlo Alberto, venivano da Genova, da Alessandria, da Casale, da Aqui, da Saluzzo. La Toscana, la Romagna, il regno di Napoli si apprestavano alla crociata nazionale.

Smarriti in quel vasto moto, i generali stranieri si chiedevano fra loro a vicenda un soccorso che non si potevano dare; i loro dispacci venivano portati a noi. Scriveva nel 20 marzo il comandante di Verona : "È verosimile che il reggimento Fürstenwerther sia rattenuto a Venezia dal tenente maresciallo conte Zichy; e finchè non arrivi, è impossibile lasciar partire di qui il reggimento Arciduca Ernesto; perchè da un minuto all'altro la ribellione può farsi aperta. Tutti portano nastri tricolori; si allettò il popolo con pane e con vino. L'autorità dei magistrati non ha più forza".

Scriveva nel 19 marzo un figlio del vicerè: "I signori distribuiscono denari e coccarde tricolori; tutti girano tumultuando, e gridando viva l'Italia. Abbracciano i Croati come fratelli; e lo stesso fanno al caffè Bra colli officiali, che sembrano assai titubanti. Portarono intorno sulle spalle un officiale delli ussari, gridando evviva ai fratelli ungaresi!". E nel seguente scriveva : "In casa abbiamo sempre due delle loro guardie. Oggi pretendevano già di mettere un posto ad ogni porta della città e ad ogni castello; e dicesi che invece di quattrocento, siano già armati mille e cinquecento; i quali alla prima occasione agiranno contro le truppe".

Così nelle grandi piazze d'armi di Venezia, di Verona, di Mantova i presidii consueti non potevano resistere all'impeto delle popolazioni; e se vi si rifugiavano altre forze, non vi era proporzionata copia di viveri; poichè la rapacità dei capi li aveva sviati.

 

L'esercito di Radetzki si travagliava intanto a trarsi fuori di Milano. Uscito all'alba del 23, si trascinò quel giorno fino al ponte di Marignano sul Lambro, e lo trovò rotto. Una mano di giovani, si dice che fossero quarantacinque, osò fargli fronte; e sulle prime avevano messo le mani sul generale Wratislaw; ma poi la soldatesca empì d'ogni parte il paese, incendiò molte case, scannò, saccheggiò; rimise il ponte. Vivendo essa omai da una settimana a cielo scoperto, sotto dirotte pioggie, tratto tratto senza pane, funestata notte e giorno dal furore dei popoli, appena toccò Lodi, appena vide salvo il ponte dell'Adda, si sdraiava in terra, appiè delle case, rotta di fatica e di fame. Li officiali erano avviliti; udendo della fuga di Metternich, dello sconquasso delle finanze, dell'agitazione universale in Boemia, in Polonia, in Ungaria, perfino nel santuario di Vienna, credevano disfatto l'imperio, pensavano allo scampo; molti abbandonavano i loro battaglioni. Nel basso Bresciano i sollevati presero uno stuolo di sessanta officiali fugitivi, con due colonelli e uno dei fratelli Schönhals, prussiani di nascita, credo, e predicatori all'esercito di furibonda teutomania. Mi si fece dimandare se si potesse per avventura procurare una pensione vitalizia a certi officiali dello stato-maggiore, ch'erano disposti a fare qualunque nostro desiderio. La somma richiestami poteva equivalere al capitale d'un mezzo millione; ma si dimandava che la promessa fosse firmata da tre membri del governo provisorio. Non mi riescì d'ottenere se non l'assenso di un solo; li altri mi significarono che quelle mie sollecitudini erano inopportune : l'esercito del re stava per arrivare; pareva, a giudicio loro, poca cortesia l'averlo invitato a guerra del tutto finita. - Il Radetzki lo prenderemo egualmente, diceva il Durini. Il Casati poi riputava che sarebbe stata una vittoria immorale; Casati, il facendiero della fusione.

Non intendevano che il momento era fugace. In verità Radetzki aveva perduto in Milano una vera battaglia; tant'è quando un esercito è costretto a cedere il terreno, avendo molti morti e feriti, e ritirandosi in disordine per insolite strade. Trovando intercette le tre strade militari di Lecco, Brescia e Cremona, era costretto a sfilare stentatamente da Crema verso Orzinovi e Leno, sopra una sola linea di tortuose e sconnesse vie provinciali, chiusa fra terre irrigue, palustri, ingombre di piante e di fossi. In quelle continue strette, una colonna lunga ventisette miglia, assalita di fianco, non avrebbe potuto concentrarsi; alcuna sezione dar pronto soccorso ad un'altra, per l'impaccio infinito dei carri, delle carrozze, dei feriti, delle donne, dei prigionieri, delli ostaggi, dei soldati italiani anelanti alla diserzione o alla rivolta, e delli altri diversi di lingua, tutti nemici fra loro, spaventati, famelici, derelitti dalli officiali. La caduta d'un cavallo, la rottura d'un carro, bastava a fare inciampo e disordine. L'urto d'un esercito regolare, e anche solo il fragore improviso e notturno del cannone, avrebbe potuto cagionarvi una confusione da Beresina. Se i comandanti piemontesi avessero avuto facoltà di risolvere, e impeto militare, avrebbero potuto lanciare i loro reggimenti per la via ferrata a Treviglio, al momento medesimo del loro arrivo che fu al 26. Ma il Casati, per fare dimostrazione di servile ospitalità, non badò al nostro consiglio; e ci ordinò di farli alloggiare nel Castello; inutile impaccio, perchè i nemici avevano lasciato quel luogo in un disordine indescrivibile. Così si consunsero ventiquattr'ore. Credo la vanguardia avesse quattromila fanti, quattrocento cavalli e qualche artiglieria. A Treviglio poi v'erano già tremila volontari con due cannoni. Si sarebbero dunque trovati la sera stessa del 26 sul fianco di Radetzki, alla distanza d'una marcia; potevano minacciargli il ponte dell'Ollio; continuare almeno a turbargli i sonni. E siccome era privo di cannonieri, e non aveva molta cavalleria; il luogo pieno di fossi e di piantagioni era agevole a quell'arme, non correvano molto pericolo nell'avvicinarsi. Anche il seguente, trovandomi alla via ferrata per dare alcune disposizioni di loro servigio, non mi feci riguardo di sollecitarli a profittar del felice momento; ma pur troppo quelli officiali non erano avvezzi a stimar parola che non venisse da uomini dell'arte loro, che poi così poco avevano praticata. E la guerra non era più nostra.

Il retrogrado austriaco stava ancora a Crema al mattino del 28; era il sesto giorno dacch'era uscito di Milano; e la distanza era di sole trenta miglia. Una marcia confortata da così lunghi riposi, invece di accrescere il disordine, lo aveva riparato; aveva dato anche il tempo di raccogliere d'ogni parte i distaccamenti vagabondi, e i presidii fugitivi di Pavia, Piacenza, Parma, Bergamo e Brescia. In quel momento di fortuna, Carlo Alberto avrebbe potuto inoltrarsi velocemente su l'uno o l'altro fianco dell'impacciato nemico, per le due libere strade militari di Brescia e Cremona, e per una via ferrata; aveva un'altra strada affatto sicura per Piacenza sulla destra del Po; poteva giovarsi dei molti attiragli che il lusso della città e l'agricultura opulenta delle basse, in quel momento di fervore non ancora guasto, gli avrebbe fornito; finalmente le vaporiere del Po potevano, in dodici ore, trasportare tremila uomini dalla foce del Ticino a quella del Mincio; potevano rimurchiare all'ingiù quante barche si volessero raccogliere dai nostri Canali. Gli era dunque agevole precorrere sotto Mantova, e anche sotto Verona, un nemico che appena si trascinava come serpe ferita. Non faceva più di cinque o sei miglia al giorno. Dando animo e braccio all'intestino moto delle agitate cittadinanze, poteva Carlo Alberto sorprendere un'entrata in quei vasti e mal difesi claustri. Infine, nel sollevamento universale d'Italia, e nella impotenza momentanea del nemico, poteva per qualche tempo far base di guerra ovunque, sull'Adda, sul Po, sulla Laguna, trovar pane e ospitali dapertutto. Ma lo ripeto, del Macedone al quale li adulatori lo paragonavano, altro non aveva avuto mai che l'odio della libertà

 

Quali erano le forze di Radetzki in quel momento?

Nella sua cancelleria si rinvenne la nota dei corpi che componevano il suo esercito; al 13 marzo. Le cifre nominali dei battaglioni e squadroni quivi indicati farebbero 85 mila uomini; ma le cifre vere, se si prende norma di quanto si accertò d'alcuni battaglioni, non potevano oltrepassare 70 mila. Aveva avuto incirca 10 mila disertori, 7 mila prigionieri e feriti, e 4 mila morti; onde coi 7 mila imbarcati a Venezia, la diminuzione avvenuta nei cinque gloriosi giorni saliva a 28 mila combattenti; erano due quinti dell'esercito. Vuolsi poi computare il molto materiale di guerra e di marina lasciato in Venezia, e nelle minori fortezze di Comacchio, Palma Nova, Osopo, Rocca d'Anfo, Piacenza, Pizzighettone, nonchè in Milano e tutte le altre città. Credo che in Piacenza fossero da cinquanta cannoni, perchè quei cittadini da principio ce li offersero; ma il governo provisorio non si curò di mandarli a prendere.

Restavano dunque al nemico in tutto il regno 42 mila uomini, fra i quali erano ancora molti italiani; una parte delle forze era avvinta alla custodia di Ferrara, Legnago, Mantova, Peschiera e Verona; una parte errava col Daspre intorno a Padova; una parte, uscita dalle diverse città, cercava raccozzarsi, ed era facile intercettarla. Infine le ferite e le infermità dovevano a guerra rotta, e sotto il nostro cielo, diradare ben presto ciò che rimaneva. Al contrario, le nostre forze dovevano accrescersi ogni giorno e per numero e per arte.

Lasciate a parte le forze regolari e irregolari conferite da tutta la rimanente Italia, giova indicare qual fosse la forza e composizione dell'esercito condutto in Lombardia dal re.

Nel primo corpo, comandato da Bava, le due divisioni Arvillars e De-Ferrère erano composte dalle brigate Regina e Aosta l'una, Casale e Aqui l'altra, rispettivamente sotto i generali Trotti, Aix di Sommariva, Passalaqua, Villafalletto. Ogni brigata aveva due reggimenti.

Nel secondo corpo, comandato da Sonnaz, le divisioni Broglia e Federici erano composte dalle brigate Savoia e Savona, Piemonte e Pinarolo; sotto il generale Usillon la prima, sotto Bès la terza, sotto Manno la quarta. Ma della brigata Savona vi era un sol reggimento.

La divisione di riserva era composta dalle brigate Guardie e Cuneo, sotto i generali Biscaretti e Avernioz.

Erano 19 reggimenti di fanteria. Una seconda divisione di riserva venne poi formata da quattro reggimenti provisorii, sotto il barone Visconti.

Ognuna delle quattro divisioni attive aveva un battaglione di bersaglieri. Inoltre colla prima divisione v'era il battaglione Real Navi.

I reggimenti di cavalleria erano sei: Genova nella prima divisione; Nizza nella seconda; Novara nella terza; Piemonte nella quarta; Aosta e Savoia nella riserva.

Ogni divisione aveva due batterie; dieci in tutto; tre delle quali a cavallo.

Vogliono che non fossero oltre ai 50 mila combattenti.

L'arrivo di Radetzki a Lodi represse il moto di quella città e di Crema, tanto più che a Brescia e a Bergamo, certi capi, essendosi impacciati a capitolare coi generali austriaci, non avevano ingiunto loro la condizione almeno di ritirarsi incontanente in Austria per la diretta via dei monti; il perchè poterono rivolgersi per l'opposta strada e ricongiungersi con Radetzki, che veniva a incontrarli in Crema. Questa città, già tumultuante, si trovò improvisamente presa tra due fochi; la spinta che avevamo data d'ogni parte ai popoli, d'interrompere in quella parte, inanzi alla colonna nemica i ponti e le strade, rimase sventata. Il generale Teodoro Lechi, anzichè recarsi di persona a spronare e guidare all'opera i suoi Bresciani e i Cremonesi, e i volontarii che piovevano d'ogni parte, si recava placidamente a Pavia, per far baciamano al magnanimo re. E mi ricorda d'averne fatto veemente lagnanza a' suoi veterani nel comitato di guerra, dicendo loro che veramente la gioventù li aveva cercati per cani da lupo, non per cagnolini d'anticamera. Il governo poi faceva già intendere a tutti che oramai l'esercito farebbe ogni cosa; epperò gli pareva meglio che il popolo non si mescolasse a impacciare la guerra del re. Così trovò Radetzki liberi per ottanta miglia tutti i ponti dopo quello del Lambro. Il 28 passò l'Ollio col centro della sua colonna; il 30 era a Ghedi, ch’è incirca al meridiano di Brescia; era già ingrossato a 26 mila uomini con 1500 cavalli; e inviava altri 6 mila soldati per Leno.

L'esercito regio, marciando intanto a suo bell'agio, raggiunse il nemico solamente al confine di Lombardia; ebbe il primo fatto d'armi l'8 d'aprile al ponte Goito sul Mincio. Ma giunto sopra i colli di Somma Campagna, che signoreggiavano l'altra riva, parve preso di repentina immobilità. La conquista della Lombardia pareva già compiuta, già finita la guerra, maturo il tempo del riposo e della mercede; a questa unicamente agognava il re. I suoi generali si accasarono nelle amene ville dei Veronesi e Mantovani; appena quei signori di corte degnavano lasciarsi vedere ai soldati. I quali intanto attendevano a imparare "il maneggio delle armi, di che avevano sommo bisogno". Tutti quei fatti d'arme di Rivoli, di Pastrengo, di Bussolengo, di Santa Lucia, di Goito, nei quali si prodigò senza disegno un sangue prezioso, e un tempo ch'era un dono di Dio si può sperare ad ogni volta, avvennero intorno a Peschiera, entro il raggio d'una giornata di cammino. Era il circolo magico segnato dalla politica del re.

 

Questo io scriveva in Parigi, temendo pur sempre che i rei, dall'inesorabile opinione dei popoli appellati a dar conto delle opere loro, potessero un giorno additare un pensiero qualsiasi che li avesse governati. Ma dopo ciò che i generali confessarono inanzi ai senatori e ai deputati, e ciò che diffusamente scrissero, si fa sempre più manifesto il vero di ciò che primamente dissi : non esservi stato in quella guerra pensiero militare; avervi dominato il solo pensiero politico, di tener occupata la Lombardia, finchè l'Austria fallita segnasse una nuova pace di Campoformio, e i popoli scorati e stanchi vi si rassegnassero.

Se si giudica dalle loro confessioni, i generali del re non abbracciarono mai colla mente tutto il campo della guerra. Il quale si spiegava in vasto cerchio, dal confine tra il Tirolo e i Grigioni, lungo lo Stelvio, il Tonale, i laghi d'Idro e di Garda, il Mincio, il basso Po, le lagune venete, e le fortezze di Palma Nova e d'Osopo al passo della Ponteba; e di , seguendo la cresta delle Alpi e involgendo la Carnia e il Cadore, ricongiungevasi al Tirolo, chiudendo in seno i campi tante volte insanguinati del Vicentino e del Trivigiano. In questo circuito, di quattrocento e più miglia, i generali del re, affatto rinunciando alli esempi della napoleonica agilità, si circoscrissero da principio a quel breve arco di venti miglia che segue il corso superiore del Mincio da Peschiera a Mantova; si allungano poi a sinistra fino a Rivoli, a destra sino alla foce del Mincio; ma sempre facendo immobile siepe inanzi alla Lombardia, con quel modo di guerra che soleva farsi un secolo addietro; e che non potendo essere offensivo, alla fine dei conti non riesce nemmen difensivo.

Dal lago di Garda ai Grigioni, la siepe rimase sempre formata dai soli volontarii, quantunque nelle antecedenti guerre lo stesso nemico avesse fatto sempre irruzione anco per quelle valli, a tergo della linea del Mincio. Alla prima partenza dei volontarii, avevamo raccomandata loro una pronta discesa in Tirolo, sì per propagare l'insurrezione sino ai naturali confini d'Italia, sì per assicurare a tergo e a fianco l'esercito regolare. Anzi se una parte considerevole dell'esercito vi avesse fatto subito impeto, poteva, traendo seco quei popoli sollevati e i montanari veronesi, discendere a rovescio sui colli di Verona, raccogliere a i crociati ch'erano a Montebello, sforzare la città tumultuante, certamente stringerla, torre al nemico la libertà di provedersi predando, e di ricever gente dalle alpi. Presa la piazza d'armi, nulla più importavano li angusti antemurali di Peschiera e di Legnago; e il cielo di Mantova avrebbe divorato quella qualunque moltitudine d'uomini che per lungo tempo vi dovesse rimanere.

 

Ad ogni modo i volontarii si dovevano mandare nel Tirolo in numero considerevole, anche per non ingannare e tradire i nostri amici; e tali erano stati li accordi fatti a Montechiaro. Conveniva poi dar loro capitani audaci e combattenti, e qualche scorta di regolari scelti, di cavalli e d'artiglierie. E per verità, quando si voleva poi fare stabile distaccamento a Rivoli col lago alla schiena, era meglio averlo fatto a Riva, a sommo il lago, ove sicuro della ritirata avrebbe potuto combattere più fermo. Conveniva infine munire i volontarii di denaro, di cappotti, di calzari, di pane; perchè il paese non è ricco, e non si doveva porsi a carico delli amici. Ma i generali del re, assentendo di mal animo all'impresa perchè non la intendevano, cominciarono a ritenere alla loro avanguardia le colonne Thannberg, di Torres, di Griffini, la Mantovana, la Pavese, e altre; e ridussero la spedizione a due mila volontarii, senza regolari, senza cavalli, senza cannoni49, senza polvere, senza pane, senza abito e calzatura da guerra; e ciò quando il primo impeto di marzo era già passato, e le forze nemiche da duecento uomini s'erano accresciute a quattromila con cannoni e cavalli; e perciò in quel popolo era rinato il timore.

Tuttavia, quando al 10 d'aprile passarono il confine, sopra il lago d'Idro, furono bene accolti. "In Tione ergevasi l'arbore della libertà col vessillo tricolore, e creavasi un governo provisorio"50. Alla sera del 13 si entrava nel forte castello di Sténico; il 14, si giungeva alle Sarche. "I nostri, dopo i primi colpi, spingevansi colla baionetta all'assalto del ponte, e in pochi minuti lo passavano vittoriosi; conquistavano in seguito, casa per casa, il paese delle Sarche, costringendo il nemico a rinserrarsi nel castello di Toblino. Non prevalendo il consiglio di assalire il castello la sera stessa, essendo noi privi d'artiglieria, la notte passavasi nel far barricate intorno, e nel tagliare i ponti che conducono a Trento e Riva. Alla mattina del 15 arrivava ai nemici rinforzo da Trento. Così rafforzato, il nemico tentava una sortita; ma dovette ritirarsi nuovamente in castello. Poco dopo tentava una nuova sortita, che veniva dai nostri, con egual valore della prima, respinta. Disperando allora di poter ricacciare i nostri al di qua delle Sarche, e vedendo di non poter più oltre sostenersi in castello, risolvevasi ad abbandonarlo, e piegavasi in ritirata verso Trento. I nostri inseguivano il nemico; gli toglievano due carri; ferivano parecchi dei fugitivi; indi una quarantina d'uomini si spingevano sin oltre Vezzano; e quivi piantava l'arbore della libertà, fra li applausi del popolo, e le benedizioni del curato in pompa sacerdotale. Giuntovi il resto del battaglione, si disponeva a quivi pernottare, avendo già collocati li avamposti di fronte al nemico; ma ricevuto l'ordine di ritirarsi, ripartiva verso mezzanotte, verso Toblino.

Il giorno 16, giungeva l'ordine di ritirarsi a Stènico. Trovava i soldati stanchi dalle fatiche campali di due giorni e due notti, malcontenti per la deficienza d'ogni materiale da guerra, circondati dal nemico, indeboliti dalla fame, dalle fatiche. Eppure questi soldati non volevano abbandonare il posto. Li officiali radunatisi fecero un indirizzo al comandante, pregandolo a non voler lasciare una posizione conquistata con tanti stenti e col sangue dei loro generosi soldati. Promettevano di difendere fino all'ultimo respiro la conquistata posizione tutto quel giorno e la notte successiva, sperando che in questo tempo arriverebbero le munizioni. Quei generosi avevano divisato in caso d'attacco di fare le poche scariche che avevano; poi in ogni modo spingersi colla baionetta fra le schiere nemiche". Al cadere della notte, una lettera del generale Allemandi, in data di Salò del 14 aprile, annunciava : "Non doversi far nulla senza il concorso dell'armata piemontese; e questo soccorso venir per ora rifiutato. Il 17 si metteva a disposizione d'Arcioni la colonna Beretta e due pezzi d'artiglieria, che dovevano essere a Tione la sera del 16. Ma Beretta non v'era; e il capitano Chiodi rispondeva, aver ricevuto ordine dall'Allemandi di non avanzarsi coi cannoni, oltre Tione. L'Allemandi chiamava in Tione a consiglio tutti i capi delle compagnie; e questi ricevevano per istrada l'avviso: Allemandi essere andato a Milano; non sarebbe quindi venuto a Tione"51.

Intanto le colonne Sedaboni e Molossi, volgendosi verso Arco e Tenno, erano assalite più volte. Faceva freddo, pioveva dirottamente, e le strade erano in pessimo stato. Il 19, seicento nemici con travestimento di volontarii e insegne tricolori, tentarono sorprendere 400 dei nostri; ma furono respinti dopo tre ore di combattimento, nel quale cadde dei nostri una ventina. Alcuni feriti che si mandarono verso Stènico, furono, per similitudine dei nomi, portati dai loro compagni a Sclemo, ov'erano i nemici. Il colonnello Zobel ne fece fucilare diecisette sotto le mura di Trento, fra le maledizioni dei cittadini. Zobel non è croato; non nacque nemmeno suddito dell'Austria. Qual biasimevole modo di provocarci alla vendetta ! qual modo di rimeritare la generosità del nostro popolo verso i prigionieri !

Si sapeva intanto il nemico aver ricevuto rinforzo d'alcune migliaia d'uomini. Stènico era difficile a difendere con poche truppe; quelli del paese supplicavano a non volerli perdere, restando più oltre fra loro; giacchè tutte le case essendo coperte di paglia, al primo colpo il paese sarebbe andato in fiamme. I soldati cominciavano a diffidare. "Dicevano ad alta voce d'essere non solo abbandonati, ma traditi dall'Allemandi, dal ministrerio della guerra e dai governi provisorii. I viveri erano in poca quantità; ritirandoci in castello, dopo due o tre giorni avremmo dovuto arrenderci per fame. Partimmo da Stènico. In Tione ci giungeva l'ordine del giorno, che annunciava lo scioglimento dei corpi franchi. L'intenzione del governo di Milano era di non agire più oltre in Tirolo"52. Il governo aveva adottato li avvedimenti diplomatici del re; era entrato secolui nella via della perfidia. I volontarii, fremendo e piangendo, uscirono il 21 da quella terra bagnata del loro sangue; videro li abitanti nascondere e ardere le insegne tricolori, cercare di salvarsi dalla vendetta austriaca col nero e col giallo; invano; poichè molti furono tratti prigionieri in Germania.

"La mattina del 24 si entrava in Brescia. Fummo accolti non già come Italiani, ch'erano stati a battersi per la libertà della patria; non già come fratelli dovevano essere accolti da fratelli; ma come si sarebbe potuto accogliere lo straniero, che venisse a imporre nuovo giogo. Dappertutto silenzio e freddezza. Alcuni impiegati insultarono perfino la colonna Manara. La marcia degli ultimi giorni erasi eseguita sotto una dirotta pioggia; facevano pietà li stenti e le fatiche che dovevano sopportare i nostri soldati; moveva sdegno il pensare, in quale stato d'abbandono ci avevano lasciati coloro che pretendono dirigere la rivoluzione; irritava il vedere come coloro che si mettono alla testa della novella Italia, trattavano quei generosi che per redimerla sacrificavano i loro interessi, li agi della vita, la vita stessa. Pochi erano muniti di cappotto o di mantello. Quasi tutti avevano le scarpe sdruscite, e pressochè inservibili; più di centocinquanta, non è esagerazione, più di centocinquanta viaggiavano a piedi nudi.

"In Brescia dimandammo come si potesse entrare in un'armata regolare. La sera del 25 aprile, si spediva per organizzarci il colonnello Cresia coll'uniforme delle truppe di sua Maestà Sarda; con officiali tutti com'egli, in abito e soldo di Carlo Alberto; e ci proponeva paga di Carlo Alberto, disciplina di Carlo Alberto. Questo fatto tolse il velo dalli occhi nostri; forse sciogliemmo allora l'enigma, del perchè eravamo così malmenati. All'ordine del giorno del colonnello Cresia, i nostri soldati rispondevano: voler essi bensì entrare in qualunque armata che italiana fosse; non volersi mai porre sotto li ordini di un re, di una frazione qualunque d'Italia; esser dessi colli Italiani, Italiani: in faccia ai Toscani, ai Piemontesi o a tutt'altra frazione d'Italia, Lombardi. Al grido di Sua Maestà il re, risposero con voce concorde: viva la Republica Italiana.

Il 28 la nostra colonna entrava in Milano; ed era accolta in modo che, se colmò di gioia i nostri soldati, fa grande onore ai Milanesi, mostrando che se sanno ben battersi di fronte al nemico, non sono sconosciuti a chi, come loro, espone vita e beni, per la commune libertà53.

Si voleva che la nostra colonna ritornasse in Lombardia coll'onta d' una sconfitta. - Noi avremo contro di noi, quelli che non hanno fede nella rivoluzione, che non hanno fede nel popolo lombardo, che sono contenti di cangiar basto, senza aver l'ardire di pensare a liberarsi: ma avremo con noi tutti i generosi. E questi generosi vedranno quali uomini abbiano ora in mano i destini di Lombardia, vedranno s'egli è in questa guisa che si procura l'alleanza di tutti li elementi atti a far trionfare la rivoluzione; che si inspira fiducia a coloro che denno abbandonare i loro focolari per combattere lo straniero. E conosceranno avere l'Allemandi, o il ministro della guerra, o chi altri ne ha colpa, fatto il loro possibile per allontanare questi generosi, per alienarli dalla nobile impresa, per denigrarli in faccia al popolo lombardo, e denigrare il popolo lombardo in faccia all'Europa. Voglia il cielo che la Lombardia non abbia mai più ad essere ridutta a ricorrere a loro contro l'invasore straniero"54.

L'abbandono del Tirolo era il primo passo alla nostra ruina; ma Carlo Alberto in quei medesimi giorni ci tradiva anche sulla frontiera illirica. Lasciava che Nugent raccogliesse tranquillamente al di quà delle Alpi, sulle pianure dell'Isonzo un esercito per soccorrere Verona; lasciava che attorniasse Udine; che riducesse i pusillanimi suoi magistrati ad aprirgli, nella disperazione d'ogni soccorso, le porte. Fu al 23 aprile; nel giorno in cui si compieva il primo mese dalla sua liberazione.

Dato per tal modo al nemico il Friuli e il Tirolo, cioè le valli del Tagliamento e dell'Adige, rimase isolato il Cadore, valle dell'alta Piave. Qui non è a tacersi che il veterano Giovanni Manzoni, ch'era stato a lungo per quei monti in opere censuarie, aveva proposto al ministerio della guerra di preparar chiusi tutti quei passi delle Alpi, facendo ripari e mine in pochi luoghi opportunissimi; dimodochè, per poca difesa di buone armi che vi si facesse, nemico veruno non potesse facilmente discendere in Italia, uscirne. Ed era spesa di nessun momento. Non vi si badò; i settarii del re portavano improntato nell'anima Campoformio. Tuttavia quei poveri alpini, senza soccorso alcuno, nemanco di buone parole, si sostennero per due mesi contro un nemico che tentò irrompervi da sette diverse vie, e che togliendo loro il commercio colla pianura veneta, potè affamarli. L'animo s'accende d'ira, al vedere si generosi popoli immolati a una politica di fango.

Fin dal 17 aprile, avendo ricevuto dal Tirolo e dal Friuli novelle che facevano presagire vicini quei disastri vinsi la ripugnanza, e mi recai presso il governo provisorio, palesando a quelli improvidi la gravezza del pericolo. Derelitto il Tirolo, diveniva topograficamente impossibile difendere la Venezia. Anche nel 1813 l'esercito italiano di Beauharnais l'aveva dovuto abbandonare, arretrandosi d'un tratto, e senza combattere, dalla Sava al Mincio, per effetto della defezione de' Bavari; eppure questi erano allora in possesso solamente della Merania, e non del Trentino, come ora li Austriaci. Aggiunsi, che se l'esercito regio non era sicuro del Trentino, non avrebbe nemmen potuto conservare a lungo quella sua posizione in aria tra il Mincio e l'Adige, vera isola fra quattro fortezze. Il nemico a cavaliere d'ambo i fiumi, avrebbe posizione sommamente offensiva, appenachè dal Tirolo e dall'Isonzo potesse ricevere soccorsi. E potrebbe pel Tirolo stesso discendere sopra Salò e Brescia, come aveva sempre fatto, e costringere l'esercito a lasciare il Mincio, o per lo meno a dividersi. Era posizione sotto ogni aspetto falsa. Perchè lasciare al nemico quelle pingui provincie da divorare? perchè tradire così Venezia? Qual principio di difesa era quello che abbracciava una sola metà del nostro regno? Carlo Alberto faceva la politica, non faceva la guerra. Gravi disastri si preparavano per noi. Era giusto che sapessimo almeno chi doveva risponderne alla nazione; era tempo che il governo dimettesse il principio austriaco della collegialità e ripartisse fra i suoi membri i ministerii. Il Casati mi rispose essere cosa impossibile; i membri del governo provisorio essersi già troppo esposti, e non volersi aggravar più oltre.

Mi ringraziò gesuiticamente del buon volere; ma con incredibile pervicacia e per decreto di quel medesimo giorni 17, richiamò tutti i volontarii dal Tirolo a Brescia e Bergamo, sotto colore d'ordinarli e vestirli. Le infelici famiglie trentine, spinte, solo una settimana inanzi, a sollevarsi contro l'Austria, abbandonate ora all'austriaca vendetta, e profughe dietro i passi dei volontarii, fecero udire per la prima volta fra noi quell'accusa di tradimento che si alzava a quei medesimi giorni in Udine, e che con più funesto suono si ripetè alla fine nella nostra città.

 

Nugent passava il Tagliamento e la Piave; pure, dovendo egli tener presidiate Udine e Belluno, e custoditi molti ponti, non avrebbe potuto fare grave impressione nella Venezia, derelitta dal re, ma soccorsa dai fratelli romani e napolitani. Ebbene, Carlo Alberto da una parte, colli inverecondi maneggi contro il Borbone di Piacenza, aveva inimicato il re Ferdinando; e dall'altra, era riescito a imporre per generale ai Romani uno dei Durando. Sì poco destri quei generali regii a condurre i proprii soldati, si arrogavano d'essere capitani e maestri d'arme a tutta l'Italia. Nei loro opuscoli e giornali s'intitolavano moderni Macedoni, destinati ad atterrare l'imperio dei barbari. Di Macedoni, avevano solo l'odio della libertà. Durando indugiò prima a passare il Po; indugiò poscia a munire il passo della Piave; indugiò a combattere; combattè divisamente; mancò all'intento della sua spedizione; cadde in sospetto; fu accusato. A torto. Era solamente il servo del suo re; il tradimento era nella guerra regia; poichè, mirandosi solo ad una pace di Campoformio, si era fisso che l'Austria ristaurasse il suo dominio nella Venezia. Non sarebbe stato prudente consiglio nel re, lasciar sopravivere colà una repubblica, sì presso a Milano, sì presso alla città che doveva essere inevitabilmente sede dell'opposizione.

Quelle infelici venete città erano nei calcoli del re già devote allo straniero; eppure egli frattanto simulava di volerle congiunte al suo regno; e dimandava loro fra quei terrori e quelle angoscie un libero voto di fusione col Piemonte. Era solo per disgiungerle da Venezia, e trarle sotto al comando d'alcuno de' suoi, che potesse all'opportunità capitolarle al nemico. Queste malizie non si potevano celare perfettamente; laonde il governo provisorio fu costretto a richiedere il marchese Pareto, agente del re, di dar qualche schiarimento di certe lettere scritte dal campo romano "nelle quali, deplorandosi i recenti fatti militari delle provincie venete (cioè l'abbandono della Piave e il passaggio di Nugent), si cercava di spiegarli, imputandoli più che a necessità di guerra, a ordini pervenuti dal quartier generale dell'esercito piemontese, quasi si volesse far cader dubio sul leale procedere del governo di Sua Maestà". E il Pareto, cortigianamente negando, confessava "non essere la prima volta che gli giungevano all'orecchie rumori di questo genere"55.

Fra queste brutture, era giunto il mezzo maggio; e Nugent era sopra Treviso e Vicenza. Per buona ventura, i nostri volontarii vi avevano apportato il disprezzo del nemico e la semplice arte delle barricate; erano stati come scintilla sull'accensibil esca popolare. La difesa fu bella e felice a Treviso e a Vicenza. Allora Nugent si rimise in via per Verona, e si congiunse a Radetzki. Il quale, così rinforzato, cominciò allora la sua guerra, tentando di nuovo Vicenza; e la fece assalire il 23 maggio da 18 mila uomini con quaranta cannoni, che la fulminarono per diciott'ore. Vi perdette duemila uomini, ma invano. Fu per l'Italia il più glorioso fatto di tutta la guerra56.

Il re frattanto non pensava intensamente se non a sollecitare, contro i patti, la sommissione della Lombardìa. E qui è tempo di dar cenno seguìto dei fatti del suo esercito; il che faremo valendoci delli scritti del Bava e del Ferrero.

Il 23 di marzo, passava il Ticino; entrava in Pavia; il 5 aprile, era all'Ollio; l'8 al Mincio; furono ottanta miglia in quindici giornate. Quando era a Lodi, il nemico era a Crema, lontano dieci miglia. Invece di passar l'Adda e andarlo a urtare nella sua confusione, si volse a destra verso Piacenza; era il rovescio preciso della marcia di Bonaparte. Sul Mincio, il nemico mal destro, nel far saltare il ponte di Goito, lasciò sussistere il parapetto. Privo poi, come già si disse, di cannonieri, fu costretto in breve dal foco superiore dei Piemontesi ad allontanarsi. "Fu allora che alcuni soldati ebbero il coraggio di passare sul parapetto, e inseguire il nemico che si ritirava a precipizio"57. Si fece un centinaio di prigionieri; ma rimasero feriti tre valenti officiali, Della Marmora, Maccaroni e Wright. Nel seguente, fu arso il ponte di Monzambano; ma venne tosto ristabilito dai regii, che vi ebbero due feriti. All'11 si prese senza contrasto anche l'altro ponte, tra Borghetto e Valleggio; poichè Radetzki, non potendo tener la campagna, e pensando ad assicurarsi nelle fortezze contro i cittadini ricalcitranti, e fornirle di viveri, aspettava i soccorsi dal Tirolo e dal Friuli58.

Per nostra disavventura i generali del re non incalzavano la fortuna. Il governo cominciò a disanimare i veggenti, dicendo fin dal 13 aprile: "l'esercito piemontese conserva la linea del Mincio". Pareva che non fosse il caso di conservare ciò che per noi già s'era preso; ma di prendere pur qualche cosa. Si fece, quello stesso giorno 13, un puerile tentativo di sgomentare il vecchio comandante di Peschiera col rumore di venti pezzi d'artiglieria da campo; poi gli si mandò un parlamentario a intimargli la resa, che fu naturalmente negata.

"Trovandosi intanto, dice il Bava, la guarnigione di Mantova mal proveduta di viveri, alcuni distaccamenti operavano frequenti sortite per procacciarsene nel dintorno; cosicchè rapivano alli abitanti, non solo cereali e bestiami, ma tuttociò che veniva loro alle mani."59. Condusse infatti il nemico a Mantova, in una sola razia, mille e duecento bovi. Perchè non avevano pensato i regii a porre quei bestiami in salvo? Perchè non perlustrarono tosto tutto il circondario della città, facendo rimovere a considerevole distanza i viveri e i veicoli, poi interrompendo le strade, e facendovi ripari, coll'opera dei popoli ancora infervorati? Solo il 19 d'aprile, pensarono essi "d'accostarsi alla piazza, per fare prigionieri alcuni posti, non senza lusinga che un tal movimento potesse risolvere la popolazione a sollevarsi contro il presidio"60. Ma non pensavano che un mese era stato troppo lungo intervallo per un popolo rinchiuso, in balia del truce nemico già riavuto dal digiuno e dallo spavento. Il generale si lagna a torto che quei popoli si mostrassero freddi; il freddo spirava dal campo del re. E i popoli che vivono intorno alle grandi fortezze, avendo per necessità e per tradizione certo intendimento delle cose militari, dovevano presentire in quelle esitanze, in quei riposi prima della battaglia, in quella toleranza delle ladronerie nemiche, l'esito della guerra.

La "ricognizione" fece rientrare il nemico nel Forte Belfiore, d'onde fece vivo foco; tentò qualche uscita; ma venne raffrenato dai bersaglieri. Sopravenne quindi il re; passò a rassegna la brigata; considerò attentamente la fortezza. Poi comandò di tornare alli alloggiamenti.

"Le nostre truppe, e particolarmente la cavalleria, prosegue il generale, avevano durante questo riposo, eseguito frequenti ricognizioni verso Roverbella e Villafranca. Alcuni vantaggiosi scontri provavano, non essere mente del nemico il contrastare la riva sinistra del Mincio; talchè il primo corpo non ebbe ostacolo da superare nel giorno 26 aprile, durante la sua marcia a Roverbella. Ebbi ordine di recarmi il 28 ad occupare le posizioni di Custosa, Somma Campagna e Sona, passando per Villafranca. In questa città fummo ricevuti come veri liberatori. Il secondo corpo passò parimenti il Mincio; cinse Peschiera sulle due sponde del fiume; e prese nel tempo stesso posizione a Castelnovo, Santa Giustina e nel dintorno. La divisione di riserva occupò Oliosi, e la cavalleria S. Giorgio in Salice. Così trovavasi condutto a pieno termine il blocco di Peschiera.

Tuttavia un corpo austriaco occupava ancora sulla diritta dell'Adige l'imboccatura delle valli del Tirolo. Ciò determinò a farlo attaccare; questo fu il combattimento di Pastrengo. Intanto che si combatteva, la linea da Sona a Somma Campagna fu attaccata da alcuni corpi nemici venuti da Verona; ma furono assai facilmente respinti"61.

Quei favorevoli scontri, avvenuti nei tre ultimi d'aprile, a Pacengo e Colà presso il lago di Garda, sui colli di Sandrà, Piovezzano e Somma Campagna, e finalmente a Pastrengo presso all'Adige, chiusero affatto al nemico l'intervallo tra il lago e il fiume, ch'è di sei miglia incirca; ma quei preludii di vittoria non furono coltivati62. Giungevano intanto anche cinque mila Toscani, e qualche migliaio di Napolitani; e venivano messi a far siepe presso al lago di Mantova. E prendevano parte alle pugne anche 1500 soldati parmigiani, giunti allora con 4 cannoni e 40 cavalli.

 

Il re, che aveva più intendimento a reprimere i popoli che non a sollevarli, sperava intanto che in Verona pure li abitanti dovessero insurgere al suo primo apparire. Deliberò dunque di fare, come a Mantova, uno di quei movimenti che si chiamano ricognizioni, quando però precedono le grandi battaglie e le preparano. Ma per poca esperienza dell'arte militare, e per non essersi in quel lungo riposo fatta alcuna prova di grandi combinazioni campali, i reggimenti ebbero li ordini solo alle sette ore del mattino stesso del 6 maggio, in cui dovevano combattere. "Di qui, dice il generale, spiegasi il ritardo dei corpi e la nessuna simultaneità dell'attacco. La sola brigata Aosta, seguita a gran distanza dalla divisione di riserva, si trovò al suo posto a S. Lucia. Al punto in cui stavano le cose, non era più possibile l'arrestarci, rimaneva che operare audacemente, e spingersi sempre avanti"63.

Così alla brigata Aosta toccò il glorioso quanto arduo officio di sostener sola l'impeto delle forze nemiche, non lungi dal cimitero ch'era alla nostra destra, occupato gagliardamente dall'avversario. Col battaglione dei cacciatori Guardie, mi resi padrone alla sinistra della Pellegrina, fortemente tenuta dal nemico. Ritornai quindi presso la brigata Guardie, intorno alla quale, nonchè a quella d'Aosta, avevano assai faticato e si adoperavano tutti li officiali del mio stato maggiore, onde fermare la mossa retrograda di qualche battaglione che fuggiva. Era circa un'ora pomeridiana, quando mi venne fatto di chiaramente distinguere l'attacco a destra di S. Lucia, eseguito da una parte della seconda divisione. Fatta battere la carica, in un subito fu assalito e conquistato il villaggio, d'onde prospettavasi Verona; ma nulla dava indizio del più piccolo movimento popolare nell'interno. E siccome si ebbe notizia che l'attacco di sinistra della terza divisione, a Croce Bianca, non era riuscito a buon termine, e che in ispecie il reggimento Savona si trovava in fuga, fu decisa la ritirata64.

In questo frattempo, un reggimento di Cuneo, lasciato a S. Lucia, respinse un vivo attacco. Fu allora che molti tiratori nemici riuscirono ad occupare inosservati alcune case avanti alle colonne della seconda divisione, che sorprese dall'attacco inatteso si diedero a fuggire, non valendo a rattenerle li sforzi e le preghiere delli officiali che si opponevano. Alcuni vennero fino a gettare il sacco; e senza l'intrepidezza dei loro capi, senza l'opposizione presentata al nemico dalla mezza batterìa del luogotenente Salino, e dalla compagnìa Griffini (di volontarii lodigiani), senza la natura boscosa del terreno, che impediva alla cavalleria (nemica) di vedere quanto succedeva, e di operare in conseguenza, la divisione avrebbe sofferto perdite immense"65.

Pare infatti che in quell'inutile e assurdo assalto di fronte, contro una fortezza che non si voleva assediare, si avessero quasi mille tra morti e feriti. E ciò ch'è peggio, si rivelò ai soldati l'imperizia dei generali; e si tolse loro quell'impeto che viene dalla coscienza d'essere ben guidati. Prima di ritirarsi, non pensarono nemanco a distruggere il recinto del cimitero e li altri ripari, che servivano d'antemurale alla fortezza66.

 

Il generale Bava interrompe qui la sua narrazione per querelarsi della stampa, che dava "relazioni così smilze, così fredde, così oscure". Sarebbe più giusto querelarsi dell'ingannevole sicurezza in cui si tenevano i cittadini con adulatorie notizie, le quali attribuivano la sconnessione delle mosse, non a dappocaggine dei capitani, ma bensì a smodato ardore dei soldati; e tacevano della fuga di cui le Guardie stesse avevano dato l'esempio; e tacevano dei volontarii lodigiani, che salvarono due cannoni dimenticati dai regolari fuggiaschi. Ora che il velo è caduto, non si può leggere senza sdegno il pomposo bollettino del generale Salasco: "Lo slancio, con cui le nostre truppe si spinsero all'attacco, sprezzando ogni pericolo, fu cagione che le ale del corpo d'armata, che dovevano coadiuvare la presa delle posizioni assalendole di fianco, non poterono giungere abbastanza in tempo". E non solo non accennava al disordine della ritirata; ma si vantava viceversa, che li Austriaci non avessero posa, se non quando giunsero sotto i cannoni di Verona67.

L'illusione cagionata nei cittadini da quella supposta vittoria, diede animo al governo di farsi fare da' suoi cagnotti una dimostrazione il giorno 11, per aver pretesto a dettare il 12 lo sleale decreto della fusione. Il Lombardo si era fatto tacere colla violenza; li altri giornali liberi cominciavano appena a spuntare. E chiunque avesse contradetto al vanto della vittoria, sarebbe parso strano e cattivo; e i faziosi avrebbero scritto sui muri ch'era spia del nemico. La cecità era insanabile ed erano irreparabili li effetti. Li avvenimenti che sembrano arbitrii della fortuna, hanno le secrete radici nell'animo dei popoli; officio dell'istoria si è di additarle.

Dal 6 di maggio alla fine, l'esercito stette immobile sui colli inanzi a Peschiera; già rallentato dall'ozio d'aprile, si contristava e snervava nell'ozio di maggio68. Peschiera difettava di vittovaglie; un presidio di 1200 Croati, senza cavalleria, non aveva forza di far prese di viveri intorno; aveva carri da trasportarli; e fin da principio, i nostri volontarii, dalle vaporiere del lago e dalla penisola di Sirmione, avevano interrotto le communicazioni col Tirolo. Li arrivi da Verona, mal provista per in quei primi giorni, furono tosto turbati dall'ardimento dei volontarii stessi; e col cader d'aprile furono finalmente intercetti dalle posizioni dei regii. Si dice che i Croati, avendo rubato in Milano, in Lodi, in Crema e in Peschiera medesima, un enorme valsente di denaro, argenti e gioie, desiderassero sopratutto di mettere la preda in salvo. Onde, dopo la metà di maggio, quando videro giunta finalmente l'artiglieria d'assedio, cominciarono a fare di mal animo il servigio, parlando sempre d'andare a difender le case loro dalli Ungari; e si dice ancora che nottetempo gettassero nel Mincio le farine che rimanevano. I cannonieri erano sempre stati pochissimi, come si è detto; e alcuni erano stati uccisi dalle carabine dei volontarii e dalle bombe piemontesi; non rimanevano più di 60, avendo in cura 127 cannoni. Laonde benchè le batterie dei regii in quel suolo palustre fossero riescite male, non reggendo alle pioggie dirotte e alla scossa delle artiglierie, epperò il recinto dei bastioni fosse perfettamente intatto, il vecchio generale Rath mandò a rendere la fortezza il maggiore Ettingshausen. Questi non trovò i pertinaci avversarii che aveva trovati in Milano, e potè patteggiare coi regii che i Croati fossero accompagnati salvi, colle spoglie del popolo, fino in Ancona; ove si restituirono loro anche le armi. L'onore voleva che quei ladroni non si dovessero accettare se non a discrezione; e si facessero restituire colle mani loro la roba a luogo a luogo ove l'avevano rapita. Ma in verità non v'era tempo a perdere. Se Peschiera avesse durato solamente un giorno di più, l'esercito regio sarebbe caduto due mesi prima. Peschiera fu la sola ed unica conquista di Carlo Alberto; e non è a dire qual prò ne facessero i suoi settarii, in quei giorni tanto infesti alla nostra libertà.

Li Austriaci, per fomentare nel re una falsa sicurezza, si facevano dipingere nei giornali tedeschi e inglesi come già rassegnati alla perdita della Lombardia. Ma credo che non ne avessero mai avuto il pensiero. E lo dissi fin d'allora, e più d'una volta, al corrispondente del Times, che fu lungamente a Milano, e da inglese, mostrava buon concetto di quel nuovo regno costituzionale. Gli dissi che l'Austria non cederebbe mai nulla; ma trastullerebbe il re, finchè ella non avesse adunato forze bastevoli per discacciarlo. Pare anzi che s'intavolasse qualche pratica. Nella Raccolta delli atti del governo provisorio, si legge: "alcuni giorni dopo la resa di Peschiera, un inviato austriaco, con credenziali del ministro di Sua Maestà l'imperatore al presidente del governo provisorio di Lombardìa, giungeva in Milano per trattare di pace; e offriva da parte del suo governo la ricognizione dell'indipendenza della Lombardìa sino all'Adige"69.

 

Intanto Radetzki, avendo avuto due mesi per riordinare i soldati, e reprimere in loro lo spirito di nazionalità e diserzione; ed avendoli confortati con assidue passeggiate militari che li empivano di cibo e di preda; e avendo infine ricevuti dal Veneto i rinforzi di Nugent, anzi già tentato il secondo assalto di Vicenza, fece passare il 27 maggio molte truppe per Isola della Scala a Mantova.

Attraversando per Mantova il lago, assalì con 16 mila uomini a Montanara e Curtatone i cinquemila toscani e napolitani; i quali, sotto il comando del De Laugier, si erano già onorevolmente provati contro due minori assalti, il 9 di maggio e il 13. Quantunque narri il general Bava d'aver preveduto ogni disegno dei nemici, e d'aver saputo nel 28 che il giorno inanzi erano partiti da Verona per Mantova, egli non mosse per tutto quel giorno un soldato. Al mezzodì del 29, quando i Toscani erano assaliti, egli era a Goito, sei o sette miglia lontano dal campo di battaglia. "Partecipai al generale De Laugier il mio arrivo a Goito con cavallerìa; gli annunciai prossimo il soccorso di fanteria : e dopo avere convenientemente appostati i bersaglieri, e il reggimento Nizza cavalleria colla batteria leggera, ritornai a Volta all'incontro delle truppe. Erano le tre pomeridiane, quando giunsi a Volta, dove trovai Sua Maestà. E da quella magnifica posizione noi rivolgemmo i nostri cannocchiali nella direzione di Mantova; dove si scopriva una casa in fiamme, ed il foco dell'artiglieria che pareva avvicinarsi a noi. Un officiale toscano arrivò nello stesso tempo; e prevenne il re che tutto l'esercito austriaco aveva attaccato le ridutte di Curtatone e Montanara; e che il suo generale, non potendo sperare di difenderle, andava a ripiegarsi sopra Goito. Sua Maestà giudicò prudente di non abbandonare la posizione di Volta, cui fece custodire dai nove battaglioni che avevamo con noi. E ritornò quindi al suo quartier generale, ch'era stato trasportato a Valleggio"70.

Nella politica del re li alleati erano un intoppo; ed era quindi espediente avvisarli dell'arrivo, prometter loro il prossimo soccorso, e lasciarli al macello.

Quei ragazzi intanto, come il vecchione nemico li chiamava, perchè molti erano studenti coi loro professori, gli fecero spendere su quei ridutti una lunga giornata, sempre aspettando il prossimo soccorso dell'infido amico. Ne caddero quattrocento morti o feriti. Tra quelli il geologo Pilla napolitano; tra questi il Montanelli, e molti altri dei capi, De Laugier, Campìa, Ghigi, Giovanetti, Caminati. Quasi tutti i cannonieri spirarono sulle loro batterie; fu ammirato Giuseppe Elbano che vedendo ardersi intorno le vestimenta, gettolle; e durò nudo ed impavido al suo cannone. L'indugio salvò il re; il quale, avviluppato nelle ambagi della sua politica, non pensava in qual pericolo egli medesimo fosse.

 

Infatti Wratislaw, passando sui cadaveri dei Toscani, e rimontando la riva destra del Mincio, riesciva dietro i Piemontesi, che stavano presso al fiume e al di ; ma per l'ostacolo trovato a Curtatone, non giunse a Goito il 29, in tempo d'opprimere quella stazione isolata, e d'intercettare il passo del ponte. Vi giunse solo alle tre dopo mezzodì del 30, quando il re aveva con tutto agio raccolti 24 mila uomini e 44 cannoni, in quella posizione preparata e forte.

Dopo un combattimento d'artiglieria sulla fronte, si impegnarono i bersaglieri; questi nel ripiegarsi trassero seco in disordine la brigata Cuneo; successero le Guardie; e queste pure ebbero a retrocedere; ma fiancheggiate dal maggiore Mollard colla brigata Aosta, ripresero l'offensiva valorosamente. A sera, il nemico si ritirò, inseguito a tiro di cannone dalla cavalleria d'Aosta e di Nizza. Si fecero onore li artiglieri Prié, Cuggia, Sallier, Giacosa, Bocca; e fra i pochi Toscani e Napolitani che quivi avevano potuto ripiegarsi, Abuderame e Bartolomei. Ebbero i regii 45 morti e 260 feriti; e pretendono che il nemico avesse una perdita ben dieci volte maggiore. A Milano, il governo, vanissimo e ignorante, annunciò che il nemico con 130 cannoni aveva fatto "tremenda battaglia per sette ore continue"; ch'era fuggito dirottamente, lasciando cinquemila morti; e che si era fatto parlamento, per sepellire i cadaveri accatastati, che facevano corrotta l'aria per lungo tratto di paese.

 

Ma quel combattimento era una sola parte della nemica impresa. Mentre Wratislaw tendeva a chiuder Goito, Daspre coll'ala sinistra si spandeva sulla pianura; e con ampio circuito pareva tendere ai colli dietro Peschiera; sulla quale nello stesso tempo s'indirizzava di fronte una colonna venuta dall'Alto Adige. Quivi ottocento Tirolesi, venuti il 28 sul lago di Garda, avevano desolata la terra di Bardolino. L'assalto avrà cominciato da quella remota estremità per trattenere colà le forze regie, lungi dal Mincio. Il 29, vi sopravenne altro corpo di quattro a cinquemila uomini, che discesi sino a Colmasino, si fortificarono nel cimitero. Ma vennero scacciati dal general Bes coi bersaglieri e li studenti Torinesi e la brigata Piemonte. I nostri ebbero 2 morti e 14 feriti. L'aver però fatto quivi il nemico con forze considerevolilieve spinta, fa credere che aspettasse il movimento del restante esercito. Ma il comandante di Peschiera, visto presso la riva del lago quel combattimento senza effetto, disperò del soccorso; e il seguente capitolò.

Ciò che più manifesta i disegni del nemico erano i grandi trinceramenti che presso Goito aveva preparati alle sue spalle. "Quantunque la pioggia cadesse a torrenti nella notte del 30, dice il generale, i nostri avamposti annunciarono d'avere inteso, dietro quelli del nemico e verso Sacca, un rumore distintissimo. Pareva che si atterrassero piante e si percotessero con martelli le muraglie;71. Si trovò poi che aveva atterrato più di trentamila piante, fatto barricate in ogni punto, per coprire la sua artiglierìa, e merlato (feritoiato) tutte le case e i villaggi"72.

Il nemico in quell'ardita e minaccevole posizione di Goito, veniva ad avere a destra e sinistra le sue fortezze di Mantova e Peschiera; alle spalle le vie di Cremona e Brescia; trincerava quella di Cremona con quella sollecitudine che il generale ha descritto; faceva occupare quelle di Brescia dal general Daspre. Nulla impediva che questi si spingesse quindi sino a toccar Peschiera; d'onde, valendosi anche di quel presidio, poteva facilmente congiungersi coi corpi che frattanto temporeggiavano a Bardolino e Colmasino. Compita quell'operazione, l'esercito regio riesciva intercetto sul Mincio, stretto ai fianchi dalle fortezze, malsicuro alle spalle. Era in necessità di sboccare da' suoi ponti di Goito e Valleggio, e vincere una battaglia per riaprirsi le strade di Cremona e Brescia. Non vincendo, rimaneva senza viveri e senza base. Vincendo, doveva su quelle trincere difese da tutto l'esercito nemico pagarecara la vittoria, che non avrebbe avuto più animo di guardarsi indietro, forza d'intraprender nulla. Ma la giornata di Curtatone diede tempo al re di farsi forte a Goito; la giornata di Goito gli diede tempo di chiamare a anche la brigata Savoia, e le altre ch'erano disseminate di dal Mincio. Potè adunque dopo la battaglia mettere in postazione ferma 40 mila uomini e 80 cannoni. Intanto Peschiera era aperta. Peschiera gli assicurò un imperturbabile passaggio dall'una all'altra riva del Mincio; egli poteva tentar Verona, mentre Radetzki non poteva più accorrervi se non pel lontano circuito di Mantova. Tutto il gioco del nemico era dunque disfatto; disfatto dal generoso sacrificio dei Toscani, e dall'avarizia dei ladroni Croati. Radetzki perdè Peschiera, perchè soffriva che i suoi soldati fossero ladri; come aveva perduta Milano, perchè li aveva sofferti assassini. E se Carlo Alberto fosse stato semplice guerriero, e non re e gesuita, sarebbe volato per impeto d'animo al soccorso di quella prode gioventù toscana; e ributtato in Mantova Wratislaw, e avrebbe potuto intercettar Daspre sulla strada di Brescia; poi attraversata rapidamente l'aperta Peschiera, sarebbe stato in tempo a investir Verona, ove il nemico aveva lasciata poca gente; l'avrebbe fatta assalire a tergo dai Romani e Vicentini, e al di dentro dal popolo, acceso dal grido della sua vittoria. Pare che pensieri di questa fatta circolassero nel suo esercito73.

In quei giorni di gravissimo e non creduto pericolo, non v'era tra l'esercito nemico e Milano un solo battaglione. Il frivolo governo e li abbindolati cittadini erano tutti assorti nei loro registri. Il Collegno, il Perrone e li altri estrani in cui mano era la difesa della nostra città, non avevano preparato il più lieve ostacolo. La cavalleria del Daspre si sparse sulla riva del basso Ollio e del Clisio; si mostrò impunemente ad Asola, a Castel Goffredo, a Mèdole; ridestò per la prima volta nelle terre bresciane e cremonesi l'obliato terrore del nome austriaco. Il generale Bava scrive che Radetzki aveva sperato una reazione austriaca dei popoli Lombardi; ma Radetzki non si pasceva di siffatte speranze, faceva sittatti sogni. E il ministro Collegno, ancora il 21 dicembre, ebbe a dire nel senato di Torino, che Radetzki avesse positivo accordo colli amici della libertà a Milano; e ciò, perchè nel medesimo del fatto di Curtatone, in Milano si chiudevano i registri dei voti; una cotanta perfidia potè compiersi senza qualche opposizione e qualche tumulto. Chi coi tumulti volle esigere l'osservanza della data fede, e difendere la sua padronanza e libertà, potè aver torto nel modo, ma non nella cosa. Ma per apporgli che avesse infame accordo col nemico, si vorrebbe additarne qualche prova, e ben chiara; massime da chi ebbe allora in mano sua la polizia e i tribunali. Quanto alla coincidenza del giorno 29 maggio, era quello il prefisso dal governo, che volle così profanare l'anniversario di Legnano, l'anniversario della vittoria d'una republica contro un re.

Bensì quel generale Bava che sapendo le mosse e la mente del nemico, e sapendo deserti sul campo i fratelli Toscani, e promettendo loro soccorso, e avendo sotto la mano cavalleria e artiglieria volante e nove battaglioni, se ne va sul colle magnifico di Volta a rimirar col cannocchiale le fiamme dei loro alloggiamenti, e lascia che il re se ne torni indietro a dormire placidamente a Valleggio, senza spezzargli inanzi la spada : - e quel ministro della guerra Collegno, che chiamato a ordinare la difesa d'un paese, non ha posto fra l'esercito nemico e la capitale un solo riparo, non un ponte minato, non un fosso, un cannone, un soldato : - costoro non possono farsi accusatori altrui; perchè stanno essi sul sedile delli accusati. Il generale almeno ha parlato, e ha confessato la colpa sua. E la nazione attende che il ministro pure confessi, o si scolpi.

Se Radetzki potesse acconciarsi mai con alcuno in Italia, ciò che non credo, non sarebbe poi certamente coi republicani; perchè v'è ripugnanza assoluta, e incompatibilità di vittoria. Non così coi servili; coi quali avrebbe solo a rannodare accordi antichi e diuturni. Dio nol soffra !

 

Il Daspre stava ancora sulla via di Brescia, anzi ancora il 3 di giugno, assaliva con truppe leggere la cavalleria del re, mentre molti drappelli della sua spaventavano impunemente il contado. Il 4, rientrava finalmente in Mantova, seguito sino a Curtatone dai regii, che tosto ritornavano ai loro alloggiamenti. Il re se ne andò a Rivoli, e pareva far pensiero di mettervi un ponte sull'alto Adige; ma spese poi meglio il tempo trattenendosi col Casati, che gli apportò in quei giorni con fanciullesco giubilo il trionfale estratto de' suoi registri. E in premio ebbe un bacio dal re.

Intanto Radetzki potè uscire di Mantova dalla parte opposta, varcare l'Adige in Legnago; proseguire fino ad Este; poi volgendosi a sinistra, e compiendo, come in paese senza nemici, l'imperturbato viaggio d'un centinaio di miglia, riescire dietro Vicenza da mezzodì e levante, con 32 mila soldati e 70 cannoni; intercettare ai difensori ogni communicazione colle città venete, e ogni rifugio. Perciò Durando non potè ritirarsi e fu costretto a combattere. E così non potè obedire all'inumano e infraterno comando del ministro della guerra, "che gli prescriveva di ricoverarsi a destra, mentre Vicenza non sarebbe nello stesso modo salvata; e in conseguenza era meglio lasciarla, com'era, in baìa del nemico"74.

E qui si consideri con quale atroce immoralità quei generali dimenticassero che questa non era solo guerra di principi, ma eziandío di popoli e di ribellione; e che le città, dovendo aspettarsi crudeli vendette, non erano da prendere e lasciare, come se fossero mere posizioni militari, selve o sassi, e pezzi da scacchiera.

Col sanguinoso sacrificio di qualche migliaio d'uomini, il nemico espugnò il monte Berico che signoreggia Vicenza da mezzodì. Il Durando, non avendo avuto forse intenzione vera di combattere, aveva accumulato soverchia parte delle sue forze entro la città; il nemico, potè farsi perciò padrone del monte,75. e di fulminarla irresistibilmente, per sette ore continue. Durando aveva dichiarato potersi difendere per otto giorni; doveva dunque essersi accertato d'aver quanto era necessario. Ma, cme tutti i generali del re, amava meglio le capitolazioni che le battaglie disperate; amava meglio salvare le città che difenderle; e mise fuori per la prima volta quella brutta formula, che, dopo simiglianti promesse, venne applicata similmente a Milano : non esservi munizioni nel magazzino; il generale aver pensato a salvare la città, assicurando alli abitanti la vita e i beni e la licenza di partire coi soldati. Similmente come poscia a Milano, si videro i soliti strepiti e furori, che nelle città tradite succedono alla cieca e tracotante fiducia nei traditori. I cittadini, che avevano disertato l'antica madre Venezia, per fondersi nel regno fortissimo, e mettersi in mano di generali che sentenziavano esser meglio lasciarli in balìa del nemico, uscirono a turbe, colle donne, e li infanti e i feriti, piuttosto che soffrire entro le loro case l'arroganza dei barbari, e vederli depredare e contaminare la gentile loro città. E li altri Veneti, che poche settimane prima, avevano trovato nella coscienza della libertà il coraggio di resistere, or quasi snervati e fatati da servile e immorale influenza, cedettero con inopinata facilità.

 

Il governo provisorio aveva narrato, che l'attacco di Vicenza non poteva esser fatto se non coll'intento di coprire la ritirata del nemico verso la Piave e la Germania; poichè davvero s'imaginava d'averlo messo alla disperazione co' suoi registri. Narrando poi freddamente l'avvenuta ruina, aggiungeva che il re, non avendo per allora giudicato di salvare Vicenza, ben presto però prenderebbe Verona, anzi anche tutto il rimanente76.

Vantarono i regii, a compenso del grave danno, l'incruento abbandono che il nemico aveva fatto del colle di Rivoli; e allora, dicevano ch'era stato per paura e viltà sua. Al presente dicono ch'egli era perchè non fosse prezzo dell'opera contrastarlo. "Lo splendido nome di Rivoli; dice il generale, fu famoso all'esercito d'Italia, perchè allora era il solo sbocco per l'austriaco; ma oggi quel nome era per noi senza alcuna importanza"77. E poteva ben aggiungere, come il fatto dimostrò poi, che padrone il nemico del Tirolo e di Verona, poteva farsi di Rivoli una insidia, da prendere i nostri soldati tra il monte, l'Adige e il lago.

Carlo Alberto aveva lasciato spaziare a beneplacito il nemico, anzichè vigilarlo, e sovrastargli assiduamente; e se avesse accennato d'assalir Verona, lo avrebbe forse richiamato a difendere il nido; e sviata almeno in parte la procella di Vicenza. "L'arrivo nostro sull'Adige, confessò il ministro della guerra nella camera dei deputati, non avrebbe potuto a meno di produrre l'effetto di liberare Durando, perchè avrebbe richiamato Radetzki sull'Adige". Forse tentando almeno in qualunque luogo il passo dell'Adige, si sarebbe costretto il nemico a raccogliersi, e a dissolvere il cerchio che aveva teso intorno a Vicenza, e lasciare una qualche uscita a Durando; sicchè almeno non fosse costretto a ritrarsi dalla guerra con tutti i combattenti Vicentini e Pontificii. Ma il re aveva per un guadagno il liberarsi dalli alleati.

Volendosi poi affacciare all'Adige, era inutile il farlo a Rivoli, tanto sopra Verona e sì lontano dal nemico; ma sì sotto Verona, presso la foce dell'Alpone, e più presso che si poteva a Vicenza, in modo di fargli temere del ritorno in Verona, Non v'è in faccia il glorioso argine d'Arcole e il colle di Caldiero? Che se i nemici si ritorcevano ad assalirlo con tutte le forze, poteva rinovare al ponte dell'Adige la difesa già fatta al ponte di Goito. E avrebbe avuto un vantaggio che a Goito non aveva, d'essere sulla giusta sua base, col Mincio alle spalle e Peschiera sua. In quel giorno 10 di giugno, l'esercito italiano, computati i Veneti, Romani, Svizzeri, Parmigiani, Modenesi, Napolitani, Toscani era doppio per lo meno di quello del nemico, e ancora pieno di spiriti generosi. E il nemico, facendo pur troppo grandissimo assegnamento sulle titubanze del re, e sull'imperizia strategica e topografica de' suoi consiglieri, aveva dimenticato in quel giorno tutte le consuetudini della prudenza militare; e aveva abbandonato sprezzantemente ogni base di guerra. Se i regii lo avessero prevenuto dietro l’Alpone, egli avrebbe dovuto assalirli a condizioni sfavorevoli; poichè, se non vinceva subito e appieno, non rientrava in Verona. Perduta Verona, era impossibile rimanere in Italia; poichè Mantova, nella stagione che correva, gli avrebbe consunto l'esercito in pochi mesi.

Vicenza fu attorniata il 9, cannoneggiata il 10, aperta l'11. "Il re ordinò, dice il generale, alle nostre truppe di riunirsi nel successivo giorno 12 presso Roverbella, Valleggio e Sona; onde concentrarsi il 13 presso Villafranca, per marciare sopra Verona, e tentare colà un colpo di mano, durante l'assenza del nemico"78. Ora, fin dal 13, il nemico vi era già tornato vittorioso. Senonchè i Veronesi in quei giorni, per la debolezza del presidio, s'erano messi in pensiero d'assalirlo dal di dentro, e sforzare qualche parte del vasto recinto; e si erano tanto infervorati, che mandarono persona a dire al re, che lo avrebbero tentato, ancora il seguente, "se noi, come dice il generale, avessimo fatto impeto con forze considerevoli, non ostante che il maresciallo nella mattina stessa fosse entrato con rinforzi. - Sua Maestà aderiva a così lusinghiere speranze; e ordinavami d'impartire all'esercito le disposizioni necessarie, per l'attacco nel mattino vegnente. - Sulle due del matino, fui dimandato dal re. - Vi trovai il sopradetto abitante; il quale mi disse che essendosi trasferito a Villafranca, per dare ai cittadini il noto segnale consistente in un gran falò, il comandante della piazza non glielo aveva voluto permettere. - Sua Maestà, a fronte di questo malaugurato contratempo, e del ritorno in Verona del maresciallo, m'impose d'ordinare il ritorno delle truppe ai loro alloggiamenti"79. Fa poi sdegno il vedere la perfida loquacità, colla quale i regii manifestano colla stampa al nemico la congiura dei settecento veronesi, come se questi infelici non fossero ancora in potere del nemico e il loro secreto non fosse in balìa delle sue torture. Italiani, se volete liberarvi, non vi affidate a quelli uomini e ai loro tarlati e depravati sistemi.

 

Intanto Zucchi, chiuso in Palma Nova, non faceva quanto aspettavasi dal combattente di Raab, dal capitano che nella campagna di Sassonia aveva sempre sostenuto i pericolosi onori dell'avanguardia o della retroguardia. Non raccolse in tempo vittovaglie; non oppresse i nemici quand'erano deboli e spaventati; non preparò militarmente il circondario della fortezza; infine attese, prima di arrenderla, che la breccia fosse aperta. Reo di stato, vecchio prigioniero, pareva solamente ansioso di non lasciarsi levare ogni uscita. Palma Nova doveva essere affidata a un militare al quale non si potessero, nell'ultimo caso, contendere i diritti della guerra e delle genti. O almeno doveva il re, colla minaccia delle rappresaglie, costringere li Austriaci a trattar giusta le consuetudini della buona guerra anche i Lombardi e i Veneti, ch'essi mandavano al supplicio come masnadieri. Aveva egli inviato in Palma Nova per unico soccorso una compagnia di cannonieri; si è poi publicata in varii giornali d'Italia una dichiarazione di molti cittadini ch'erano allora in Palma, i quali attestano "che in ogni circostanza si mostrò scaltro e fervido maneggiatore della resa, assediando lo Zucchi, il cavalier Cuggia, capitano delli artiglieri Sardi"80. Come appare dalla capitolazione, alla quale si sottoscrisse anche il Cuggia, la città si arrese anzi tempo, e se ne fece merito col nemico. Il Cuggia operava da servitore del re, non da cittadino. E perciò i giuramenti o non si devono fare, o si devono fare alla patria e alla legge; non alle persone dei principi81.

 

Con siffatti comportamenti, il nostro capitano ci aveva perduta in due mesi la metà del regno. Gli restava da perdere l'altra metà; e già i nemici accennavano di traboccare a destra e sinistra del suo esercito. Discendevano sul Po a interrompere la navigazione per Venezia, e sommovere in Modena i settarii del Duca; e dal Tirolo, troppo stoltamente lasciato loro in preda, salivano ogni istante a tentare l'entrata delle nostre valli, annidandosi omai stabilmente sopra il lago d'Idro. Eppure, dopo la caduta di Vicenza, il re stette per più d'un mese marmoreamente immobile. L'esercito, stagnante nelle sue trinciere, non aveva più l'ardore primamente concepito nel tocco d'una rivoluzione e nella coscienza di combattere una guerra generosa. Era indebolito anche di numero per i molti feriti e infermi. Allora apparve quanto avesse errato il re nell'attraversare l'ordinamento dell'eserciti lombardo, nell'umiliare i volontari, anzichè disciplinarli e guidarli, nel ributtare li ausiliarii stranieri, nell'abbandonare senza soccorso i combattenti veneti, toscani e romani.

I liberali, che finalmente avevano impugnato li strumenti dell'opinione, additavano nei giornali il pericolo della patria; un moto universale di riprovazione surgeva contro il governo; il quale, vaglia il vero, mostrava più sgomento delle invettive del Cernuschi nell'Operaio, che non della ruina dei Veneti. Infine quei signori, dopo tre mesi di facinorosa ignavia, si atteggiarono a repentina e convulsiva sollecitudine; e il 25 giugno, con una simultanea salva di ordinanze, decretarono che andasse immantinente e per battaglioni al campo; decretarono leva straordinaria di coscritti; richiamo di tutti i veterani che avevano dispersi, e non solo dei giovani, ma dei quadragenarii, offrendo anzi a tutti lo stipendio di caporali; rinovarono la logora promessa di smantellare il castello di Milano; fecero allocuzioni ai parochi; dimandarono in prestito li argenti delle chiese; congedarono il ministro Collegno, benchè accettassero poi nel generale Sobrero un successore egualmente svogliato; protestarono, e quasi giurarono in nome del magnanimo re, non esser vero che si tramassero armistizii sul Mincio. Finalmente acconsentirono ad istituire, fuori del ministerio della guerra, e senza mescolarvi gente del re, un Comitato d'Armamento, che dovesse avere una diramazione in ognuno dei 127 distretti; e sia per onorevole ammenda, sia per necessità di prender li uomini dov'erano, vi ammisero alcuni dei più aperti republicani. E uscivano con un ampolloso piagnisteo a confessare che "l'inesperienza politica e il fascino della fortuna li potevano aver condutti in errore; e invocando e pregando pace e concordia cittadina, chiedevano il consiglio e l'aiuto di tutti i buoni. Pregavano il popolo a mostrarsi eroico per riflessione, com'era stato per entusiasmo". E datavano l'era della patria, non più dal 22 marzo, cioè da medesimi; ma dal primo giorno del combattimento, dal giorno del popolo.

Si videro finalmente partire i nuovi battaglioni; ma in quale stato! Vestiti di tela, con valigie di tela, con giberne di tela, che non salvavano dalla pioggia le polveri; i più con berretto; alcuni con cappelli di feltro, di paglia, d'ogni foggia; alcuni dragoni a cavallo, per lo più senz'elmo; quelli che non avevano cavallo, si davano il nome di veliti, e andavano alla guerra a piedi. Il popolo, che le arroganze dei faziosi avevano veramente rivocato dall'entusiasmo ad austera e sdegnosa riflessione, vedendo pompeggiare ancora per le vie la carrozze dei grandi, gridava: i cavalli al campo! Quei reggimenti informi, che parevano alli stipendii del più pitocco popolo del globo, sotto officiali improvisati, - molti dei quali s'erano procacciati per male strade il titolo; altri per l’onesta via di liberalità fatta alla patria, ma senza capacità di condurre i cittadini al tremendo gioco della vita e della morte, - marciavano in battaglioni slegati, senza cannoni, senza stato- maggiore, senza ordine di viveri e di carriaggi, senza bandiera; e andavano a mangiare poco utilmente il pane dei soldati, collocandosi a destra e a manca della linea piemontese.

 

Al 13 luglio l'esercito, che, dopo la presa di Peschiera, sembrava non aver più nessun disegno di guerra, e rimaner quasi ad aspettar le risoluzioni del nemico, cominciò ad allungare la sua destra fino alla foce del Mincio. Poi, come se una linea immobilmente stesa dal monte Baldo al Po, non fosse già in pericolo su tutti i punti, prese ad attorniare Mantova anche da settentrione e levante. Si voleva intraprenderne il blocco, ora che i predatori nemico avevano avuto più di tre mesi per empirla di vittovaglie.

Li Austriaci avevano già preso animo di passare il Po, e ritentare il ducato di Modena, ove li scandali della fusione avevano scorato i generosi, e rimesso in credito i tristi. Perlochè il general Bava, il 17 luglio, si offerse al re di recarsi a quella volta. Ma mentre stava presso Borgoforte, studiando il luogo opportuno a fare un ponte, il comandante nemico Lichtenstein si ritirò di qua del fiume, accampandosi presso Ostilia. Pensò allora il Bava di liberare anche la foce del Mincio. Fatti pertanto imbarcare celatamente sul Po i bersaglieri del capitano Lions, s'incamminò egli stesso lungo l'argine con tre battaglioni, fiancheggiato a poca distanza dal general Trotti con un reggimento. Giunti al Mincio, intanto che i feritori e cannonieri impedivano al nemico di demolire il ponte di Governolo, i bersaglieri sbarcarono inaspettati dietro il ponte, e assalirono alle spalle il nemico; il quale, fuggendo allora verso Mantova, si trovò sotto i colpi del reggimento che il general Trotti aveva schierato lungo la destra del Mincio; e fu perseguitato inoltre da tre squadroni di cavalleria che passarono di corsa il ponte. Furono presi quattrocento Austriaci, con otto officiali, due cannoni e una bandiera del reggimento Rukavina. Fu quello il fatto d'armi meglio pensato e più destramente eseguito di tutta la guerra; e fu l'ultimo raggio della fortuna. Il general Bava, che aveva pure comandato al passaggio del Mincio in Goito, mostrò in ambo i casi la perizia d'un generale di brigata; ma non appena era scorsa quella settimana, mostrò pur troppo di non saperne più oltre. E qui siamo ormai giunti alla battaglia che conchiuse infelicemente la guerra.

 

Il 22 luglio, una moltitudine di nemici, che nel giorno antecedente erasi raccolta nell'alta valle dell'Adige, assalì alla Corona le brigate Pinarolo e Savona; le quali difesero per alcune ore quel posto, altretanto forte, quanto isolato e assurdo; e vista poi la sproporzione del numero, e il pericolo d'essere intercette, si ritirarono in buon ordine. Anzi strada facendo, il maggiore Danesio con rapida mossa avviluppò i Tirolesi, e sconcertò tutta la colonna nemica. Sopravenuto allora Sonnaz col rimanente di Savona, ripigliò la pugna; e quantunque non avesse ancora se non cinquemila uomini contro dodicimila, riprese Caprino; nel qual fatto un generale austriaco cadde ucciso. Ma Sonnaz, sospettando forse che il nemico cedesse non senza insidioso proposito il terreno, deliberò ritirarsi verso Peschiera.

Infatti, quella stessa sera, sotto furioso temporale, uscivano tacitamente di Verona ventiquattro mila Austriaci, indirizzandosi in tre colonne verso il Mincio. Allo spuntare del 23, non aspettati dai regii i quali non avevano servizio di cavalleggeri d'avamposti, arrivavano appiè dei colli, da Sona fino a Somma Campagna; e li trovavano difesi da soli sei mila uomini. A Somma Campagna, un reggimento di Pinarolo e uno di Toscani rimasero oppressi dal torrente nemico, che continuando l'impeto occupò tutta la catena delle colline. A Sona, ove la strada era chiusa con riparo bastionato, Savoia e Parma poterono tener fermo alcune ore. E intanto Sonnaz sollecitava la sua ritirata, quantunque per via gli cadessero molti uomini, vinti dalla fatica, dal digiuno, dalli ardori. A notte s'accampò sul poggio di Cavalcaselle inanzi a Peschiera, facendo fronte verso li Austriaci, che si erano già distesi fino al Mincio.

Al matino del 24 il barone Visconti ch'era in riserva dietro al fiume, e aveva fatto levare i ponti di Monzambano e Valleggio, tentò contrastare il varco con due soli cannoni che aveva, e due battaglioni della riserva provisoria "ch'erano in grave difetto d'istruzione e d'abbigliamento." Ma il nemico, da Saliunce, spazzò con dieci cannoni la riva, mitragliò un drappello di studenti, mise un ponte di battelli, tragittò diecimila uomini, occupò Ponti e Monzambano. Intanto Sonnaz, passava il fiume in Peschiera, e scendeva lungo la riva destra, per ricongiungersi verso Volta col centro dell'esercito, del quale ignorava le sorti; perocchè le communicazioni erano affatto intercette, essendo il nemico, a giorno tardo, disceso dietro i colli ad occupare Valleggio.

Il momento era supremo; era mestieri che il centro salvasse Valleggio e Volta per riannodarsi a Visconti e Sonnaz. Ma vi furono due ostacoli; l'uno che il re, incerto de' suoi pensieri, tenne a mezza giornata un consiglio di guerra che durò cinque ore; l'altro che la brigata Aosta, la quale era primamente destinata a difender Valleggio, e poscia a ricuperarlo, si trovava già sul matino "estremamente stanca, venendo essa fin da Castellaro (al di di Mantova), dopo una marcia di tutta la notte; e stava ancora a Mozzecanne; i viveri appena giungevano; ed importava inoltre evitare le ore calde, che nel giorno prima avevano cagionato la morte di molti soldati"82.

Non badando a questo, il re volle far operare subito e isolatamente le altre tre brigate che teneva presso Villafranca. E non già per ricuperare Valleggio e rannodarsi, e acquistar tempo all'arrivo del rimanente esercito; ma per riprendere le antiche sue posizioni di Somma Campagna, che pel momento, e dopo la ritirata di Sonnaz, nulla importavano. La brigata Guardie si diresse a sinistra, e occupò Monte Torre; quindi Cuneo in mezzo, prese del Sole; e Piemonte, a destra, potè allora impadronirsi del castello di Somma Campagna. Si combattè da tre ore fino a notte; il nemico raccogliendosi dietro i colli; lasciò prigionieri due mila uomini con quarantotto officiali e una bandiera. Sul terreno pareva una vittoria, sulla carta era un precipizio.

Al mattino del 25 , si volle continuare il movimento e discendere dai colli verso il Mincio. Ma i combattenti, per difetto di cibo, non poterono moversi prima di mezzodì. La brigata Aosta andò finalmente allora verso Valleggio; ma fece duro incontro, giacchè l'avversario aveva avuto un intero giorno per munirsi e ricever gente. E anche sui poggi, la linea nemica si faceva sempre più fitta, per l'arrivo dei rimanenti battaglioni. La brigata Piemonte fu assalita di fianco, minacciata da tergo. "Il caldo era soffocante; si respirava appena; i nostri soldati soccombevano alla fatica; il numero dei feriti cresceva smisuratamente. Alle quattro pomeridiane l'offensiva non era più per noi"; pag. 69.

Rimaneva speranza che frattanto Sonnaz, venendo da Peschiera, scendesse in riva al fiume, di fronte a Valleggio, e aiutasse a rimovere l'ostacolo che fendeva in due l'esercito. Ma egli avendo parimenti stanchi i soldati, mandò un annuncio di poter giungere solo alle sei. "Si durò qualche tempo in penosa rassegnazione"; poi non si potè più tener fermo; e fu forza abbandonare i colli indarno recuperati. ciò solo; ma fu necessario pensare a ritirarsi di qua dal Mincio, avanti che il nemico vi tragittasse tutte le sue forze. Bisognava dunque fare un circuito di quindici miglia; cioè, raccogliersi prima in Villafranca, allontanandosi dal fiume; poi avvicinarvisi di nuovo, e passarlo a Goito.

 

È forse che il re non avesse equipaggi di ponte, come li aveva il nemico, sicchè non potesse passare, in qualunque luogo, e immantinenti, un fiume di sì mediocre larghezza? Non lo sappiamo. Ma il male non era in siffatte cose di seconda mano. Il re nel giorno precedente ponendo la mira, non a Valleggio, ma a Somma Campagna, all'estrema destra, aveva voluto, con un esercito sorpreso e sconnesso, anzi con un terzo dell'esercito, assalire di fianco e intercettare le colonne compatte, uscite allora allora, in ordine di parata, dalle agiate stazioni di Verona. E così spingendo troppo a destra e troppo poco a sinistra, si allontanava sempre più dalle rimanenti sue truppe; e si volgeva sempre più colle spalle verso l'Adige e le fortezze nemiche, ove non vi era per lui luogo di riposo, ritirata verso i suoi paesi, base di viveri, d'ospitali e di communicazioni. Quanto più incalzava quella fallace vittoria, tanto più si metteva in forza del nemico. Se avesse fatto impeto verso Valleggio, si sarebbe ricongiunto a Sonnaz; il quale invece di marciare tutto il giorno, avrebbe potuto ripigliare il combattimento; e uniti avrebbero potuto da Peschiera e Valleggio stringere ai fianchi il corpo nemico che si era avventurato al di qua del Mincio. E ad ogni modo, si sarebbero trovati sui colli di Volta, in luoghi forti, col fiume inanzi, e il lago e Peschiera a sinistra, e Brescia alle spalle; d'onde si poteva communicare anche colla linea dei volontarii che faceva riparo verso il Tirolo. Il nemico non avrebbe osato allargarsi gran fatto sulla pianura; e per soggezione di Peschiera, sarebbe forse tornato a' suoi quartieri. È vero che la forza del nemico era omai preponderante anche in campagna aperta; ma era perchè il re aveva voluto, per una falsa politica, isolarsi. Ora che vedevasi il frutto dei pravi consigli, era il tempo omai d'ascoltarne altri più savii e più onesti.

La ritirata sopra Villafranca, non ostante qualche molestia del nemico, fu fatta in buon ordine la sera stessa del 25. L'esercito era come un uomo che non sente ancora l'effetto d'una ferita mortale; egli è nella ritirata che siffatti mali si manifestano e si aggravano. Non si potè pigliar respiro. A mezzanotte si avviavano già verso Goito i meno affaticati, coi prigionieri, i feriti e li infelici abitanti di Villafranca. Alle due, tutto il campo era mosso colle sue salmerìe. Giunto in dodici ore al Mincio, vi s'incontrava col generale Sonnaz; il quale per un arcano ordine di cui nessuno si riconobbe autore, aveva lasciato senza contrasto ai nemici il posto di Volta83.

Il re non gli concesse riposo; gli comandò d'andare a riprender Volta. A qual prò? Vi giunse a sera, dopo tre ore di marcia; trovò annidati i nemici nelli orti e nelle case; li assaltò risolutamente con Savoia a sinistra e Savona a destra; li cacciò di muro in muro da tutta quella terra, combattendo fino a mezzanotte; molti soldati uscirono dalla mischia colle baionette infrante; si trovarono i cadaveri di cinquecento nemici. In mezzo alle tenebre e al fumo del combattimento e delli incendii, Novara cavalleria aveva urtato la nostra fanteria, e ferito e rovesciato in un fosso Broglia, generale della divisione. Un officiale tedesco si era avvisato d'ingannare i Savoiardi, gridando loro: a me, Savoia; e se li aveva condotti fin sotto la mitraglia; ma fu sterminato con tutti i suoi. Non è a dirsi quante volte li Austriaci tesero di siffatte insidie; i nostri non mai. Tanto l'esercito di Radetzki, per la mescolanza delle genti e la crudeltà e perfidia dei generali, quanto il nostro, per la dappocaggine dei capi e l'ingenuo valore dei combattenti, ricordarono più volte i primi fatti della guerra cartaginese.

Arrivavano intanto li altri battaglioni austriaci. Sonnaz, inferiore di forze, abbandonò a due ora dopo mezzanotte l'inutile acquisto. Senonchè avendo ricevuto in soccorso la brigata Regina con un reggimento d'Aqui, che giungevano allora allora dal blocco di Mantova, tornò sull'alba all'assalto. Ma traboccava omai d'ogni parte, contro quel frammento d'esercito, tutta la mole nemica. Fu necessità lasciare l'impresa : "Si videro al mattino del 27 a Goito molti fuggiaschi delle brigate Savoia e Regina; si cercò rannodarli; ma fu senza frutto, perchè tutti protestavano il bisogno di nutrimento; e noi eravamo privi di viveri"84.

 

Il giorno 27 era già il sesto, dacchè i singoli corpi dell'esercito accorrevano dalle sparse loro stazioni, secondo le varie distanze a frangersi senz'arte contro la moltitudine serrata, che procedendo colla lenta continuità d'una lava, aveva potuto venire dall'Adige fino a Volta. Solamente quella mattina erano giunte sul campo le brigate Aqui e Regina; e non era ancor giunta la brigata Casale, che coi battaglioni lombardi e altri corpi era al vano blocco di Mantova. In quell'immensa confusione, i soldati passavano a poco intervallo dai magazzini, e non lo sapevano, potevano averne ristoro; i convogli giacevano privi di scorta, e talora di carrettieri e di cavalli; i feriti non trovavano le ambulanze; le batterie non trovavano la munizione. L'esercito si scioglieva. I generali, conoscendosi pur troppo fra loro, non si fidavano; facevano da , immoralmente, come avevano imparato dal loro capo. Aix di Sommariva colla brigata Aosta, e De Ferrère colle brigate Casale e Aqui, ch'erano le più intere e fresche, sia per ordini arcani, sia per turpe infedeltà, lasciarono le altre in faccia al nemico, e se ne andarono all'opposta riva dell'Ollio. A sera, il re passò in rassegna il rimanente; verso mezzanotte, levò il campo; e in tre colonne si avviò verso Cremona.

Il 28 si fecero dodici ore di marcia; molti cadevano spossati sulla strada; la terza divisione, giunta all'Ollio, e udito nuovamente il cannone, cominciava a disfarsi. Ma li officiali di Savoia, raccolti li uomini intorno alle insegne, li esortavano a non abbandonarle; li schierarono in quadro dietro il fiume; trassero a col forte esempio l'artiglieria e la cavalleria; imposero rispetto al nemico; serenarono presso Piàdena. Frattanto interi battaglioni, nella funesta persuasione della sfortuna e della mala direzione, e nella licenza delle marce notturne, gettavano armi e valigie, e si spargevano per le strade a sgomento e confusione dei popoli.

I generali, chiamati a consiglio, deliberarono d'aprire al nemico tutta la loro sventura, e chiedergli che sospendesse il corso della vittoria, e concedesse loro di ritirarsi in pace. "Volevano, dicono essi, pur con qualche condizione onerosa, aver tempo di riposare le truppe, e riordinare un servigio di viveri più regolare e più esatto"85. Erano le ragioni per le quali Radetzki, alla volta sua, aveva pur chiesto armistizio ai Milanesi; e per le medesime ragioni ora doveva negarlo. Andarono a quel miserabile officio i generali Bes e Rossi e il colonnello Della Marmora. Dicono i generali che il nemico dimandasse d'occupare tutto il paese sino all'Adda; e ch'essi riputarono cosa esorbitante. E cominciarono tosto una ritirata, la quale poi non finì all'Adda, al Po; ma giunse senz'altra battaglia sino al Ticino; e diede in conquista al nemico anche il paese che non era mai stato suo, sino alli Appennini di Toscana. Ciò che segue non appartiene più al capitolo della guerra.





49 “Dietro a concerti, presi a Montechiaro il giorno 6 aprile, risultava, doversi tutti i corpi di volontarii spingere nel Tirolo.

Ci era data certezza che il generale Allemandi avrebbe in persona ispezionato la truppa in Salò, che noi saremmo stati provisti di munizioni, d'abiti, di denaro. Eppure noi dovemmo partire da Salò, senza che il generale si fosse tampoco mostrato, e avendo penuria di tutto”. - Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. Italia, maggio 1848, p. 4



50 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. cit., p. 5]



51 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. cit., p. 17]



52 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. cit., p. 23]



53 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. cit., p. 23,25]



54 [Relazione non officiale della spedizione militare in Tirolo. cit., p. 30,31]

Il generale Allemandi mi scrive la seguente lettera, per emendare due punti che lo concernevano nel mio opuscolo francese.

Il si è ch'egli non fosse nominato dal re Carlo Alberto, ma dal governo provisorio. - Noi per le cose dette non facciamo intrinseco divario tra la diretta nomina del ministerio piemontese e quella indiretta del governo provisorio: lumen de lumine.

Il si è che il generale si trovasse co' suoi volontarii sul campo. - La spedizione stette sul territorio tirolese 12 giorni, dal 10 aprile al 21 inclusivamente. Sarebbe semplice e chiara giustificazione, se il generale indicasse, giorno per giorno, il luogo ove egli era, e quello ov'erano i combattenti, e la rispettiva distanza in ore di viaggio.

Finora è dimostrato che fu sempre sul territorio bresciano, a Salò, Vestone., Rocca d'Anfo, ecc., ove da settimane non v’erano nemici! Solo alla sera del 13 toccò il suolo tirolese, senza oltrepassare Tione; e ripartì alla mattina seguente, senza nemmeno aver veduto i soldati, i quali frattanto combattevano alle Sarche.

L'opuscolo publicato nel successivo maggio dai suoi volontarii ha questa dimanda a pag. 26: «E perchè il generale Allemandi destinato specialmente a compire l'impresa del Tirolo, NON SI È MAI MOSTRATO in mezzo alle colonne a tal uopo spedite? ».

Quando si consideri che non v'era altro official generale che facesse frattanto le sue veci al campo; e che in quel corpo fortuitamente raccolto, e non collegato da militar disciplina, la presenza d'un capo era di suprema e continua necessità, tanto più flagrante appare la colpa del generale, e tanto più ammirabile il valore dei volontarii.

Se l'autorità militare non fosse stata in mani inette, il generale disertore avrebbe espiato il suo fallo colla vita.

A siffatti casi proveda per la prossima guerra la Costituente ltalica.

Ecco la lettera del generale Allemandi:

 

Turin, 4 Janvier 1848 [ma 1849]

Monsieur Cattaneo!

En parcourant votre livre sur les événemens de Milan, j'ai trouvé, à la page 89, quelques lignes qui me concernent et qui sont, en partie, inexactes. Comme j'ai appris qu'une nouvelle édition en langue italienne se fera de ce livre, je viens, Monsieur, vous prier de vouloir bien y faire les rectifications que j'ai l'honneur de vous adresser, et cela dans l'intérét de la vérité, et pour rendre justice à un de vos compatriotes, qui saisit cette circostance pour vous témoigner, Monsieur, ses sentimens d'estime, de sympathie et de dévouement. Vous dites, monsieur, à la dite page 89 de votre livre, que:

Monsieur Allemandi, général envoyé par Charles Albert aux volontaires, et qui n'était pas même avec eux, leur écrivait de ne rien entreprendre sans le concours de l'armée piemontaise, et ce concours lui avait été refusé, etc.

- Il est faux que j'aie été envoyé aux volontaires par Charles Albert;

-Il est faux que je ne me sois trouvé avec eux;

- Il est vrai que Charles Albert m'a refusé le secours de quelques bataillons piémontais et de l'artillerie, pour seconder les opérations militaires de me volontaires.

Voici mes explications:

 

Au prernier signal de l'indépendance italienne, je quittais la Suisse et mon grade de colonel fédéral que j'y occupais, pour accourir à Milan offrir mon bras et mon épée à la cause de ma patrie.

Le gouvernement provisoire me nomma aussitôt général dans l'armée de ligne italienne avec brévet du 30 mars 1848; et par un second brévet de meme date, me nomma commandant suprême de tous les corps des volontaires suisses, piémontais, lombards, génois, etc. etc.

Je partis de Milan muni de pleins pouvoirs de la part du gouvernement provisoire, qui, à cette époque (30 mars) avait, il faut du moim le croire si j'en juge d'après mes instructions, de bonnes intentions pour poursuivre l'ennemi et faire la guerre d'insurrection, guerre qui était la seule capable de mous sauver.

C'était donc le gouvernement provisoire et non Charles Albert qui m'avait donné le commandement en chef des volontaires.

 

Depuis le moment j’ai accepté le commandement des volontaires jusqu'à celui je l'ai quitté, c'est à dire, du 30 mars au 30 avril, je n'ai jamais cessé un seul instant d’être au milieu d’eux, en partageant leur bonne ou mauvaise fortune et depuis Brescia jusqu'aux porte de Trento; nous avons partant chassé l’ennemi (!!!) à Salò, à Vestone, Rocca d’Anfo, Caffaro, Condino et Tione etc. Mes ordres du jour et mes proclamations datés de ces differents endroits le prouvent suffisamment.

La ville de Trento était le point le plus important et qui devait devenir le centre de mes opérations militaires pour couper la retraite à l'ennemi et l'empècher de recevoir del renforts, comme il les reçut en effet plus tard par cette route. Mais pour m'emparer de Trento il me fallait quelques bataillons de troupes regulières piémontaises pour appuyer mes volontaires, qui manquaient d'organisation, d'armes, d'habillement, de munitions et méme de nourriture! C'est alors que je me transportai au quartier général de Volta, était le roi, pour lui demander avec instance ce secours, lui exposant avec chaleur toute l'importance qu'aurait pour notre guerre la prise de Trento. Charles Albert, qui d'abord avait paru être de mon avis, me fìt répondre quelques instans après par le général Franzini ministre de la guerre, qu’il ne pouvait pas m’accorder les 4 pièces d’artillillerie et les 4 bataillons des troupes que javait demandées, qu'ils s'attendait à une grande bataille campale, et que par conséquent il ne pouvait pas détacher del troupes pour le Tyrol.

Ne pouvant exécuter mon attaque contre Trento, et d’après les instructions que m’avait données le gouvernement provisoire, de ne rien entreprendre sans le concours de l’armée piémontaise, me voyant ainsi réduit à l’inaction, abandonné dans les gorges étroites du Tyrol, avec mes volontaires qui manquaient de tout le nécessaire pour faire la guerre, leurré, bercé de promesses de secours de la part du gouvernement provisoire qui n'arrivaient jamais, je me rendis à Milan, pour protester avec indignation contre l’abandon dans lequel on laissait des braves qui mouraient pour la patrie. C'est à cette époque que j'acquis la certitude de la complète incapacité de ce gouvernement provisoire pour conduire les affaires de la guerre, dont il ne s’occupait nullement, son temps étant absorbé par l’intrigue politique pour la prochaine fusion des deux Etats.

Ne voulant pas être complice d'un sistème que je reprouvais, et qui ne pouvait que nous conduire à la ruine de a patrie, je demandai mes démissions avec instance; et on me les accorda enfin, tout en m'exprimant les régrets les plus vifs, si j'en juge par la lettre que le gouvernement m'écrivit à cette époque.

Voilà, monsieur, l'exacte vérité sur les affaires qui me concernent. Je défìe que l'on puisse les controuver en aucuns points, et vous serai très obligé de vouloir bien en faire mention, s'il est encore possible, dans l'édition italienne de votre intéressant livre. Je saisis cette occasion, monsieur, pour vous faire agréer l'assurance de ma haute considération, avec laquelle je vous prie de me croire

 

Votre tout dévoné

Général Allemandi



55 Vedi Raccolta del governo provisorio. I, p. 540.



56 Lo riconobbero anche li officiali piemontesi : "Cette héroïque défense est jusqu'à présent le plus beau fait d'armes de l'armée italienne ". ( Ferrero, p. 50).



57 [E. Bava, op. cit., p. 13]



58 «Il parait que Radetzki, en quittant Milan, avait déjà l'intention de se retrancher sur l'Adige ». ( Ferrero, p. 17).



59 [E. Bava, op. cit., p. 15]



60 [E. Bava, op. cit., p. 15]



61 [E. Bava, op. cit., p. 19, 21]



62 Si nous avions poursuivi les Autrichiens sur la rive gauche, notre succès aurait été complet; car ils étaient si démoralisés, qu'ils n'auraient opposé qu'une très-faible résistance. Nous avons passé la nuit sur les hauteurs de Pastrengo; les feux du bivouae ennemi, situé sur la rive gauche de l'Adige, étaient fort près de nos avant-postes". (Ferrero, p. 32, 36).



63 [E. Bava, op. cit., p. 22]



64 [E. Bava, op. cit., p. 23, 24]



65 [E. Bava, op. cit., p. 25]



66 Je puis certifier que l'armée a eu dans cette expédition près de 1000 hommes hors de combat. L'attaque des avant-postes de Vérone a été une tentative téméraire et mal dirigée; les différents corps d'armée ont complétement manqué d'ensemble; il est évident que l'on n'avait pris aucunes mesures pour connaitre le terrain sur lequel les opérations devaient s'exécuter; l'on nous a fait assaillir des rétranchement munis d'artillerie, tandis que l'effet de nos batteries était nul, ne pouvant approcher à cause des difficultés du terrain. Il est fâcheux qu'au lieu d'effectuer notre retraite comme à la suite d'une grande manoeuvre, on n'ait pas détruits les ouvrages de Santa Lucia, dont nos troupes s'étaient emparées ". (Ferrero, p. 42, e 43).



67 Raccolta, vol. I; p. 482.



68 23 Avril. Ce triste état d'inaction, l'on épreuve toutes les privations et les fatigues de la guerre, sans en avoir les émotions saisissantes ". (Ferrero, p. 27).



69 [Raccolta, cit., II, p. 355]



70 [E. Bava, op. cit., p. 33, 34]



71 [E. Bava, op. cit., p. 40]



72 [E. Bava, op. cit., p. 43]



73 4 Juin. Deux jours de pluie continuelle, mirent obstacle à la poursuite de l'ennemi; du moins l'on objecta au quartier général, qu'il était impossible de conduire l'artillerie à travers des chemins fangeux et des terres détrempées. Cependant c'est à travers ces mêmes chemins que l'ennemi vaincu avait sauvé la sienne. Aussitôt après la bataille on aurait donc pu couper la retraite aux Autrichiens, et par le moyen d'émissaires instruire les habitants de Vérone, Radetzki n'avait laissé qu'une faible garnison ". (Ferrero, p. 61).



74 V. la risposta del ministro della guerra Franzini al deputato Brofferio nella seduta del 4 luglio.



75 In uno scritto di Valentino Pasini, inserto nell’opuscolo: Les derniers événements de Milan. Paris, Dumanine, 1849, trovo intorno ai fatti dei volontarii, nel Veneto i seguanti passi, dei quali non fui intempo a giovarmi nella mia narrazione:

Pugnarono l’8 e il 9 maggio a Molinette e Cornuda; e benché fossero per la prima volta al foco, e assaliti da forza maggiore, e il durando, per ragioni che qui non cerchiamo, non li avesse soccorsi, e fossere privi d’artiglieria, fecero eroica resistenza. Ritirati poscia a Treviso, respinsero con quelle guardie nazionali più assalti. Deluso quivi il nemico, e vedendo abbandonato dal Durandoil passo della Brenta a Fontanaviva, si mosse con 18600 uomini e 35 cannoni; e giunse, un’ora dopo mezzodì del 20 maggio, a Vicenza; la quale munita solo di barricate, resisté sette ore. Consta che fu difesa da duemila volontarii romani, colle guardie nazionali della città e un centinaio di Lombardi; in tutto da 3000 a 3500 combattenti.

Radetzki, rimproverato acerbamente il generale che si fosse lasciato respingere da un pugno di volontarii e da una città aperta, lo rimandò, dandogli artiglieria grossa e tre o quattromila tirolesi. Così con 20 mila soldati e 42 cannoni, sorprese Vicenza a mezzantte del 22. I Croati, che conoscevano il luogo, circuirono non visti la prima barricata; ma non ebbero altro vantaggio. Si si bombardò terribilmente fino alle nove del mattino. E’ vero che il Durando era venuto il 21 con 5 mila uomini, per metà Svizzeri e metà regolari Romani; e che lo stesso giorno  era giunto da Venezia Antonini con cinque o sei cento uomini, e che li Svizzeri e i carabinieri Romani fecero arditi assalti di baionetta ai Croati; e l’artiglieria regolare fece il suo dovere. Ma ciò non toglie che i volontarii abbiano difeso la città verso Verona colla stessa intrepidezza come tre giorni prima verso Treviso.

Dopo la battaglia di Goito del 30 maggio, il generalissimo austriaco passò l’Adige a Legnago con 40 mila uomini, sostò a Montagnana per accertarsi se l’esercito piemontese fosse ritornato alle stazioni di Valleggio; poi assalì Vicenza non solo verso Verona e Treviso ma eziandìo da mezzodì. Aveva  imparato a sue spese, che i volontarii supplivano coll’ardimento al numero ed all’arte; e divisò esser meglio impadronirsi dei colli a mezzodì della città; perché poteva quinci sconquassarla, senza che i fucili dei volontarii potessero colpire la sua gente colassù. Il Durando poi, anziché interrompere la strada accessibile all’artiglieria che sale sul dorso dei colli, fu contento a collocarvi alcuni cannoni e li Svizzeri; insomma, lasciò che li Austriaci mettessero le artiglierie al medesimo livello. Non mi fo giudice dei divisamenti di quel generale; certo è però che i nemmici dovettero a questa circostanza la vittoria.

Il combattimento s’accese la matina del 10. I volontarii difendevano tutto il circuito della città; e fecero imperterrita resistenza dall’alba alle quattro dopo mezzodì. Sui colli li Svizzeri fecero fronte lodevolmente fino a mezzodì, e vi si distinse un piccolo corpo di volontarii; ma li Austriaci vi presero posizione, e ogni resistenza divenne inutile; e quando si furono ritirati li Svizzeri, si affacciarono le artiglierie nemiche sopra la città pronte a incendiarla. Durando spiegò bandiera bianca, persuaso di poter solo con una capitolazione salvare la sua gente, e togliere la città alli orrori d’una pugna disperata. Ma i volontarii, fermi ancora in tutte le loro posizioni, non volevano cedere. Furibondi strapparono dalle barricate le bandiere bianche, e insieme alle guardie nazionali e a tutto il popolo tempestarono di palle quella ch’erasi posta sulla torre del palazzo. Allora si sospesero le trattative, fino a notte. Per distogliere i volontarii e il popolo dall’opporsi alla capitolazione, fu d’uopo spiegar loro che il Durando non aveva più munizioni, e che aveva dichiarato per iscritto ai municipali di riputare impossibile ogni resistenza.” Pag. 70-73



76“La caduta di Vicenza è una grande sciagura; ma è sciagura riparabile. L'esercito del re Carlo Alberto tiene ancora le sue forti posizioni, che non poteva, doveva abbandonare. A Verona, è il nerbo della guerra. Presa Verona, tutte le città della Venezia sono nostre!" (Bollett. 13 giugno).



77 [E. Bava, op. cit., p. 52]



78 [E. Bava, op. cit., p. 46]



79 [E. Bava, op. cit., p. 47, 48]



80 Vedi l'Alba del 16 dicembre 1848.



81 § 4. La compagnia delli artiglieri sardi potrà ritornare in suo paese, conservando le armi proprie e li onori militari.

§ 17. La città conoscendo di aver mancato, e benchè avente mezzi di difesa e viveri, si sottomette, cedendo la fortezza all'autorità di S. M. e implora la clemenza della M. S. onde il debito publico, incontrato durante il blocco, abbia a essere ripartito in tutta la provincia.



82 [E. Bava, op. cit., p. 64]



83 Le roi, ne nous attendait pas à Goito; il exprima son étonnement au général De Sonnaz, qui lui répondit, qu'il avait quitté Volta sur un ordre écrit au crayon, et signé par le Colonel Cossato de l'état major. Le roi interpella les généraux Bava et Salasco, qui nièrent l'autenticité de cet ordre, ainsi que le colonel Cossato. (Ferrero, par. 193).



84 [E. Bava, op. cit., p. 78]



85 [E. Bava, op. cit., p. 79]






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