XI
La guerra
Il
sollevamento del regno lombardo-veneto era universale. Senza accordi,
inaspettato, divampava nello stesso giorno in Milano e in Venezia, per effetto
contemporaneo delle novelle di Parigi e di Vienna. Zichy, comandante di
Venezia, rese per capitolazione tutti i forti della laguna, e s'imbarcò per
Trieste con sette mila uomini. I presidii di Osopo e Palma Nova furono
disarmati; i montanari della Carnia e del Cadore interruppero le strade che
vengono dall'Austria; il Tirolo si mostrava agitato; v'erano in Trento soli
duecento soldati, e la nuova fortezza presso Bressanone era sguernita. I
giovani di Lecco, di Bergamo, di Val Tellina, di Val Camonica occuparono i
passi che vengono dal Tirolo nelle valli dell'Adda e dell'Ollio. La Rocca d'Anfo, nell'alta valle del Clisio, era presa. Il mare e le alpi erano chiuse al
nemico.
Nell'interno,
le città venete, che riputavansi tepide nella causa dell'Italia, insursero
tutte arditamente. Schwartzenberg, comandante di Brescia, patteggiò l'andata.
In Bergamo un figlio del vicerè, rimaso per un momento in potere dei cittadini,
riescì appena a partire co' suoi. I volontarii liberarono Varese, Como, Monza,
facendo prigioni tutti i soldati. A Cremona, tremila italiani disertarono e
diedero sei cannoni; quattrocento ussari chiesero d'essere lasciati partire. I
forti di Pizzighettone e Piacenza colle loro artiglierie furono abbandonati :
ottocento ungaresi del presidio di Parma capitolarono a Colorno; i presidii di
Modena e Reggio cercavano di rifugiarsi in Mantova. Colonne di volontarii,
invano contrariate da Carlo Alberto, venivano da Genova, da Alessandria, da
Casale, da Aqui, da Saluzzo. La Toscana, la Romagna, il regno di Napoli si apprestavano alla crociata nazionale.
Smarriti in
quel vasto moto, i generali stranieri si chiedevano fra loro a vicenda un
soccorso che non si potevano dare; i loro dispacci venivano portati a noi.
Scriveva nel 20 marzo il comandante di Verona : "È verosimile che il
reggimento Fürstenwerther sia rattenuto a Venezia dal tenente maresciallo conte
Zichy; e finchè non arrivi, è impossibile lasciar partire di qui il reggimento
Arciduca Ernesto; perchè da un minuto all'altro la ribellione può farsi aperta.
Tutti portano nastri tricolori; si allettò il popolo con pane e con vino. L'autorità
dei magistrati non ha più forza".
Scriveva nel
19 marzo un figlio del vicerè: "I signori distribuiscono denari e coccarde
tricolori; tutti girano tumultuando, e gridando viva l'Italia.
Abbracciano i Croati come fratelli; e lo stesso fanno al caffè Bra colli
officiali, che sembrano assai titubanti. Portarono intorno sulle spalle un
officiale delli ussari, gridando evviva ai fratelli ungaresi!". E
nel dì seguente scriveva : "In casa abbiamo sempre due delle loro
guardie. Oggi pretendevano già di mettere un posto ad ogni porta
della città e ad ogni castello; e dicesi che invece di quattrocento,
siano già armati mille e cinquecento; i quali alla prima occasione agiranno contro
le truppe".
Così nelle grandi
piazze d'armi di Venezia, di Verona, di Mantova i presidii consueti non
potevano resistere all'impeto delle popolazioni; e se vi si rifugiavano altre
forze, non vi era proporzionata copia di viveri; poichè la rapacità dei capi li
aveva sviati.
L'esercito di
Radetzki si travagliava intanto a trarsi fuori di Milano. Uscito all'alba del
23, si trascinò quel giorno fino al ponte di Marignano sul Lambro, e lo trovò
rotto. Una mano di giovani, si dice che fossero quarantacinque, osò fargli
fronte; e sulle prime avevano messo le mani sul generale Wratislaw; ma poi la
soldatesca empì d'ogni parte il paese, incendiò molte case, scannò, saccheggiò;
rimise il ponte. Vivendo essa omai da una settimana a cielo scoperto, sotto
dirotte pioggie, tratto tratto senza pane, funestata notte e giorno dal furore
dei popoli, appena toccò Lodi, appena vide salvo il ponte dell'Adda, si
sdraiava in terra, appiè delle case, rotta di fatica e di fame. Li officiali
erano avviliti; udendo della fuga di Metternich, dello sconquasso delle
finanze, dell'agitazione universale in Boemia, in Polonia, in Ungaria, perfino
nel santuario di Vienna, credevano disfatto l'imperio, pensavano allo scampo;
molti abbandonavano i loro battaglioni. Nel basso Bresciano i sollevati presero
uno stuolo di sessanta officiali fugitivi, con due colonelli e uno dei fratelli
Schönhals, prussiani di nascita, credo, e predicatori all'esercito di furibonda
teutomania. Mi si fece dimandare se si potesse per avventura procurare una
pensione vitalizia a certi officiali dello stato-maggiore, ch'erano disposti a
fare qualunque nostro desiderio. La somma richiestami poteva equivalere al
capitale d'un mezzo millione; ma si dimandava che la promessa fosse firmata da
tre membri del governo provisorio. Non mi riescì d'ottenere se non l'assenso di
un solo; li altri mi significarono che quelle mie sollecitudini erano
inopportune : l'esercito del re stava per arrivare; pareva, a giudicio loro,
poca cortesia l'averlo invitato a guerra del tutto finita. - Il Radetzki lo
prenderemo egualmente, diceva il Durini. Il Casati poi riputava che sarebbe
stata una vittoria immorale; Casati, il facendiero della fusione.
Non
intendevano che il momento era fugace. In verità Radetzki aveva perduto in
Milano una vera battaglia; tant'è quando un esercito è costretto a cedere il
terreno, avendo molti morti e feriti, e ritirandosi in disordine per insolite
strade. Trovando intercette le tre strade militari di Lecco, Brescia e Cremona,
era costretto a sfilare stentatamente da Crema verso Orzinovi e Leno, sopra una
sola linea di tortuose e sconnesse vie provinciali, chiusa fra terre irrigue,
palustri, ingombre di piante e di fossi. In quelle continue strette, una
colonna lunga ventisette miglia, assalita di fianco, non avrebbe potuto
concentrarsi; nè alcuna sezione dar pronto soccorso ad un'altra, per l'impaccio
infinito dei carri, delle carrozze, dei feriti, delle donne, dei prigionieri,
delli ostaggi, dei soldati italiani anelanti alla diserzione o alla rivolta, e
delli altri diversi di lingua, tutti nemici fra loro, spaventati, famelici,
derelitti dalli officiali. La caduta d'un cavallo, la rottura d'un carro,
bastava a fare inciampo e disordine. L'urto d'un esercito regolare, e anche
solo il fragore improviso e notturno del cannone, avrebbe potuto cagionarvi una
confusione da Beresina. Se i comandanti piemontesi avessero avuto facoltà di
risolvere, e impeto militare, avrebbero potuto lanciare i loro reggimenti per
la via ferrata a Treviglio, al momento medesimo del loro arrivo che fu al 26.
Ma il Casati, per fare dimostrazione di servile ospitalità, non badò al nostro
consiglio; e ci ordinò di farli alloggiare nel Castello; inutile impaccio,
perchè i nemici avevano lasciato quel luogo in un disordine indescrivibile.
Così si consunsero ventiquattr'ore. Credo la vanguardia avesse quattromila
fanti, quattrocento cavalli e qualche artiglieria. A Treviglio poi v'erano già
tremila volontari con due cannoni. Si sarebbero dunque trovati la sera stessa
del 26 sul fianco di Radetzki, alla distanza d'una marcia; potevano
minacciargli il ponte dell'Ollio; continuare almeno a turbargli i sonni. E
siccome era privo di cannonieri, e non aveva molta cavalleria; nè il luogo
pieno di fossi e di piantagioni era agevole a quell'arme, non correvano molto
pericolo nell'avvicinarsi. Anche il dì seguente, trovandomi alla via ferrata
per dare alcune disposizioni di loro servigio, non mi feci riguardo di
sollecitarli a profittar del felice momento; ma pur troppo quelli officiali non
erano avvezzi a stimar parola che non venisse da uomini dell'arte loro, che poi
così poco avevano praticata. E la guerra non era più nostra.
Il retrogrado
austriaco stava ancora a Crema al mattino del 28; era il sesto giorno dacch'era
uscito di Milano; e la distanza era di sole trenta miglia. Una marcia
confortata da così lunghi riposi, invece di accrescere il disordine, lo aveva
riparato; aveva dato anche il tempo di raccogliere d'ogni parte i distaccamenti
vagabondi, e i presidii fugitivi di Pavia, Piacenza, Parma, Bergamo e Brescia.
In quel momento di fortuna, Carlo Alberto avrebbe potuto inoltrarsi velocemente
su l'uno o l'altro fianco dell'impacciato nemico, per le due libere strade
militari di Brescia e Cremona, e per una via ferrata; aveva un'altra strada
affatto sicura per Piacenza sulla destra del Po; poteva giovarsi dei molti
attiragli che il lusso della città e l'agricultura opulenta delle basse, in
quel momento di fervore non ancora guasto, gli avrebbe fornito; finalmente le
vaporiere del Po potevano, in dodici ore, trasportare tremila uomini dalla foce
del Ticino a quella del Mincio; potevano rimurchiare all'ingiù quante barche si
volessero raccogliere dai nostri Canali. Gli era dunque agevole precorrere
sotto Mantova, e anche sotto Verona, un nemico che appena si trascinava come
serpe ferita. Non faceva più di cinque o sei miglia al giorno. Dando animo e
braccio all'intestino moto delle agitate cittadinanze, poteva Carlo Alberto
sorprendere un'entrata in quei vasti e mal difesi claustri. Infine, nel
sollevamento universale d'Italia, e nella impotenza momentanea del nemico,
poteva per qualche tempo far base di guerra ovunque, sull'Adda, sul Po, sulla
Laguna, trovar pane e ospitali dapertutto. Ma lo ripeto, del Macedone al quale
li adulatori lo paragonavano, altro non aveva avuto mai che l'odio della
libertà
Quali erano le
forze di Radetzki in quel momento?
Nella sua
cancelleria si rinvenne la nota dei corpi che componevano il suo esercito; al
13 marzo. Le cifre nominali dei battaglioni e squadroni quivi indicati
farebbero 85 mila uomini; ma le cifre vere, se si prende norma di quanto si
accertò d'alcuni battaglioni, non potevano oltrepassare 70 mila. Aveva avuto
incirca 10 mila disertori, 7 mila prigionieri e feriti, e 4 mila morti; onde
coi 7 mila imbarcati a Venezia, la diminuzione avvenuta nei cinque gloriosi
giorni saliva a 28 mila combattenti; erano due quinti dell'esercito. Vuolsi poi
computare il molto materiale di guerra e di marina lasciato in Venezia, e nelle
minori fortezze di Comacchio, Palma Nova, Osopo, Rocca d'Anfo, Piacenza, Pizzighettone,
nonchè in Milano e tutte le altre città. Credo che in Piacenza fossero da
cinquanta cannoni, perchè quei cittadini da principio ce li offersero; ma il
governo provisorio non si curò di mandarli a prendere.
Restavano
dunque al nemico in tutto il regno 42 mila uomini, fra i quali erano ancora
molti italiani; una parte delle forze era avvinta alla custodia di Ferrara,
Legnago, Mantova, Peschiera e Verona; una parte errava col Daspre intorno a
Padova; una parte, uscita dalle diverse città, cercava raccozzarsi, ed era
facile intercettarla. Infine le ferite e le infermità dovevano a guerra rotta,
e sotto il nostro cielo, diradare ben presto ciò che rimaneva. Al contrario, le
nostre forze dovevano accrescersi ogni giorno e per numero e per arte.
Lasciate a
parte le forze regolari e irregolari conferite da tutta la rimanente Italia,
giova indicare qual fosse la forza e composizione dell'esercito condutto in
Lombardia dal re.
Nel primo
corpo, comandato da Bava, le due divisioni Arvillars e De-Ferrère
erano composte dalle brigate Regina e Aosta l'una, Casale
e Aqui l'altra, rispettivamente sotto i generali Trotti, Aix di
Sommariva, Passalaqua, Villafalletto. Ogni brigata aveva due reggimenti.
Nel secondo
corpo, comandato da Sonnaz, le divisioni Broglia e Federici
erano composte dalle brigate Savoia e Savona, Piemonte e Pinarolo;
sotto il generale Usillon la prima, sotto Bès la terza, sotto Manno la quarta.
Ma della brigata Savona vi era un sol reggimento.
La divisione
di riserva era composta dalle brigate Guardie e Cuneo,
sotto i generali Biscaretti e Avernioz.
Erano 19
reggimenti di fanteria. Una seconda divisione di riserva venne poi formata da
quattro reggimenti provisorii, sotto il barone Visconti.
Ognuna delle
quattro divisioni attive aveva un battaglione di bersaglieri. Inoltre
colla prima divisione v'era il battaglione Real Navi.
I reggimenti
di cavalleria erano sei: Genova nella prima divisione; Nizza
nella seconda; Novara nella terza; Piemonte nella quarta; Aosta
e Savoia nella riserva.
Ogni divisione
aveva due batterie; dieci in tutto; tre delle quali a cavallo.
Vogliono che
non fossero oltre ai 50 mila combattenti.
L'arrivo di
Radetzki a Lodi represse il moto di quella città e di Crema, tanto più che a
Brescia e a Bergamo, certi capi, essendosi impacciati a capitolare coi generali
austriaci, non avevano ingiunto loro la condizione almeno di ritirarsi
incontanente in Austria per la diretta via dei monti; il perchè poterono
rivolgersi per l'opposta strada e ricongiungersi con Radetzki, che veniva a
incontrarli in Crema. Questa città, già tumultuante, si trovò improvisamente
presa tra due fochi; la spinta che avevamo data d'ogni parte ai popoli,
d'interrompere in quella parte, inanzi alla colonna nemica i ponti e le strade,
rimase sventata. Il generale Teodoro Lechi, anzichè recarsi di persona a
spronare e guidare all'opera i suoi Bresciani e i Cremonesi, e i volontarii che
piovevano d'ogni parte, si recava placidamente a Pavia, per far baciamano al
magnanimo re. E mi ricorda d'averne fatto veemente lagnanza a' suoi veterani
nel comitato di guerra, dicendo loro che veramente la gioventù li aveva cercati
per cani da lupo, non per cagnolini d'anticamera. Il governo poi faceva già
intendere a tutti che oramai l'esercito farebbe ogni cosa; epperò gli pareva
meglio che il popolo non si mescolasse a impacciare la guerra del re. Così
trovò Radetzki liberi per ottanta miglia tutti i ponti dopo quello del Lambro.
Il 28 passò l'Ollio col centro della sua colonna; il 30 era a Ghedi, ch’è
incirca al meridiano di Brescia; era già ingrossato a 26 mila uomini con 1500
cavalli; e inviava altri 6 mila soldati per Leno.
L'esercito
regio, marciando intanto a suo bell'agio, raggiunse il nemico solamente al
confine di Lombardia; ebbe il primo fatto d'armi l'8 d'aprile al ponte Goito
sul Mincio. Ma giunto sopra i colli di Somma Campagna, che signoreggiavano
l'altra riva, parve preso di repentina immobilità. La conquista della Lombardia
pareva già compiuta, già finita la guerra, maturo il tempo del riposo e della
mercede; a questa unicamente agognava il re. I suoi generali si accasarono
nelle amene ville dei Veronesi e Mantovani; appena quei signori di corte
degnavano lasciarsi vedere ai soldati. I quali intanto attendevano a imparare
"il maneggio delle armi, di che avevano sommo bisogno". Tutti quei
fatti d'arme di Rivoli, di Pastrengo, di Bussolengo, di Santa Lucia, di Goito,
nei quali si prodigò senza disegno un sangue prezioso, e un tempo ch'era un
dono di Dio nè si può sperare ad ogni volta, avvennero intorno a Peschiera,
entro il raggio d'una giornata di cammino. Era il circolo magico segnato dalla
politica del re.
Questo io
scriveva in Parigi, temendo pur sempre che i rei, dall'inesorabile opinione dei
popoli appellati a dar conto delle opere loro, potessero un giorno additare un
pensiero qualsiasi che li avesse governati. Ma dopo ciò che i generali
confessarono inanzi ai senatori e ai deputati, e ciò che diffusamente
scrissero, si fa sempre più manifesto il vero di ciò che primamente dissi : non
esservi stato in quella guerra pensiero militare; avervi dominato il solo
pensiero politico, di tener occupata la Lombardia, finchè l'Austria fallita segnasse una nuova pace di Campoformio, e i popoli scorati e stanchi vi si
rassegnassero.
Se si giudica
dalle loro confessioni, i generali del re non abbracciarono mai colla mente
tutto il campo della guerra. Il quale si spiegava in vasto cerchio, dal confine
tra il Tirolo e i Grigioni, lungo lo Stelvio, il Tonale, i laghi d'Idro e di
Garda, il Mincio, il basso Po, le lagune venete, e le fortezze di Palma Nova e
d'Osopo al passo della Ponteba; e di là, seguendo la cresta delle Alpi e
involgendo la Carnia e il Cadore, ricongiungevasi al Tirolo, chiudendo in seno
i campi tante volte insanguinati del Vicentino e del Trivigiano. In questo
circuito, di quattrocento e più miglia, i generali del re, affatto rinunciando
alli esempi della napoleonica agilità, si circoscrissero da principio a quel
breve arco di venti miglia che segue il corso superiore del Mincio da Peschiera
a Mantova; si allungano poi a sinistra fino a Rivoli, a destra sino alla foce
del Mincio; ma sempre facendo immobile siepe inanzi alla Lombardia, con quel
modo di guerra che soleva farsi un secolo addietro; e che non potendo essere
offensivo, alla fine dei conti non riesce nemmen difensivo.
Dal lago di
Garda ai Grigioni, la siepe rimase sempre formata dai soli volontarii,
quantunque nelle antecedenti guerre lo stesso nemico avesse fatto sempre
irruzione anco per quelle valli, a tergo della linea del Mincio. Alla prima
partenza dei volontarii, avevamo raccomandata loro una pronta discesa in
Tirolo, sì per propagare l'insurrezione sino ai naturali confini d'Italia, sì
per assicurare a tergo e a fianco l'esercito regolare. Anzi se una parte
considerevole dell'esercito vi avesse fatto subito impeto, poteva, traendo seco
quei popoli sollevati e i montanari veronesi, discendere a rovescio sui colli
di Verona, raccogliere a sè i crociati ch'erano a Montebello, sforzare la città
tumultuante, certamente stringerla, torre al nemico la libertà di provedersi
predando, e di ricever gente dalle alpi. Presa la piazza d'armi, nulla più
importavano li angusti antemurali di Peschiera e di Legnago; e il cielo di
Mantova avrebbe divorato quella qualunque moltitudine d'uomini che per lungo
tempo vi dovesse rimanere.
Ad ogni modo i
volontarii si dovevano mandare nel Tirolo in numero considerevole, anche per
non ingannare e tradire i nostri amici; e tali erano stati li accordi fatti a
Montechiaro. Conveniva poi dar loro capitani audaci e combattenti, e qualche
scorta di regolari scelti, di cavalli e d'artiglierie. E per verità, quando si
voleva poi fare stabile distaccamento a Rivoli col lago alla schiena, era
meglio averlo fatto a Riva, a sommo il lago, ove sicuro della ritirata avrebbe
potuto combattere più fermo. Conveniva infine munire i volontarii di denaro, di
cappotti, di calzari, di pane; perchè il paese non è ricco, e non si doveva
porsi a carico delli amici. Ma i generali del re, assentendo di mal animo
all'impresa perchè non la intendevano, cominciarono a ritenere alla loro
avanguardia le colonne Thannberg, di Torres, di Griffini, la Mantovana, la Pavese, e altre; e ridussero la spedizione a due mila volontarii, senza regolari,
senza cavalli, senza cannoni49, senza polvere, senza pane, senza abito
e calzatura da guerra; e ciò quando il primo impeto di marzo era già passato, e
le forze nemiche da duecento uomini s'erano accresciute a quattromila con
cannoni e cavalli; e perciò in quel popolo era rinato il timore.
Tuttavia,
quando al 10 d'aprile passarono il confine, sopra il lago d'Idro, furono bene
accolti. "In Tione ergevasi l'arbore della libertà col vessillo tricolore,
e creavasi un governo provisorio"50. Alla sera del 13 si entrava
nel forte castello di Sténico; il 14, si giungeva alle Sarche. "I nostri,
dopo i primi colpi, spingevansi colla baionetta all'assalto del ponte, e in
pochi minuti lo passavano vittoriosi; conquistavano in seguito, casa per casa,
il paese delle Sarche, costringendo il nemico a rinserrarsi nel castello di
Toblino. Non prevalendo il consiglio di assalire il castello la sera stessa,
essendo noi privi d'artiglieria, la notte passavasi nel far barricate
intorno, e nel tagliare i ponti che conducono a Trento e Riva. Alla mattina del
15 arrivava ai nemici rinforzo da Trento. Così rafforzato, il nemico tentava
una sortita; ma dovette ritirarsi nuovamente in castello. Poco dopo tentava una
nuova sortita, che veniva dai nostri, con egual valore della prima, respinta.
Disperando allora di poter ricacciare i nostri al di qua delle Sarche, e
vedendo di non poter più oltre sostenersi in castello, risolvevasi ad
abbandonarlo, e piegavasi in ritirata verso Trento. I nostri inseguivano il
nemico; gli toglievano due carri; ferivano parecchi dei fugitivi; indi una
quarantina d'uomini si spingevano sin oltre Vezzano; e quivi piantava l'arbore
della libertà, fra li applausi del popolo, e le benedizioni del curato in pompa
sacerdotale. Giuntovi il resto del battaglione, si disponeva a quivi
pernottare, avendo già collocati li avamposti di fronte al nemico; ma ricevuto
l'ordine di ritirarsi, ripartiva verso mezzanotte, verso Toblino.
Il giorno 16,
giungeva l'ordine di ritirarsi a Stènico. Trovava i soldati stanchi dalle
fatiche campali di due giorni e due notti, malcontenti per la deficienza d'ogni
materiale da guerra, circondati dal nemico, indeboliti dalla fame, dalle
fatiche. Eppure questi soldati non volevano abbandonare il posto. Li officiali
radunatisi fecero un indirizzo al comandante, pregandolo a non voler lasciare
una posizione conquistata con tanti stenti e col sangue dei loro generosi
soldati. Promettevano di difendere fino all'ultimo respiro la conquistata
posizione tutto quel giorno e la notte successiva, sperando che in questo tempo
arriverebbero le munizioni. Quei generosi avevano divisato in caso d'attacco di
fare le poche scariche che avevano; poi in ogni modo spingersi colla baionetta
fra le schiere nemiche". Al cadere della notte, una lettera del generale
Allemandi, in data di Salò del 14 aprile, annunciava : "Non doversi far
nulla senza il concorso dell'armata piemontese; e questo soccorso venir per ora
rifiutato. Il 17 si metteva a disposizione d'Arcioni la colonna Beretta e
due pezzi d'artiglieria, che dovevano essere a Tione la sera del 16. Ma Beretta
non v'era; e il capitano Chiodi rispondeva, aver ricevuto ordine dall'Allemandi
di non avanzarsi coi cannoni, oltre Tione. L'Allemandi chiamava in Tione
a consiglio tutti i capi delle compagnie; e questi ricevevano per istrada
l'avviso: Allemandi essere andato a Milano; non sarebbe quindi venuto a
Tione"51.
Intanto le
colonne Sedaboni e Molossi, volgendosi verso Arco e Tenno, erano assalite più
volte. Faceva freddo, pioveva dirottamente, e le strade erano in pessimo stato.
Il 19, seicento nemici con travestimento di volontarii e insegne tricolori,
tentarono sorprendere 400 dei nostri; ma furono respinti dopo tre ore di
combattimento, nel quale cadde dei nostri una ventina. Alcuni feriti che si
mandarono verso Stènico, furono, per similitudine dei nomi, portati dai loro
compagni a Sclemo, ov'erano i nemici. Il colonnello Zobel ne fece fucilare
diecisette sotto le mura di Trento, fra le maledizioni dei cittadini. Zobel non
è croato; non nacque nemmeno suddito dell'Austria. Qual biasimevole modo di
provocarci alla vendetta ! qual modo di rimeritare la generosità del nostro
popolo verso i prigionieri !
Si sapeva
intanto il nemico aver ricevuto rinforzo d'alcune migliaia d'uomini. Stènico era
difficile a difendere con poche truppe; quelli del paese supplicavano a non
volerli perdere, restando più oltre fra loro; giacchè tutte le case essendo
coperte di paglia, al primo colpo il paese sarebbe andato in fiamme. I soldati
cominciavano a diffidare. "Dicevano ad alta voce d'essere non solo
abbandonati, ma traditi dall'Allemandi, dal ministrerio della guerra e dai
governi provisorii. I viveri erano in poca quantità; ritirandoci in castello,
dopo due o tre giorni avremmo dovuto arrenderci per fame. Partimmo da Stènico.
In Tione ci giungeva l'ordine del giorno, che annunciava lo scioglimento dei
corpi franchi. L'intenzione del governo di Milano era di non agire più oltre
in Tirolo"52. Il governo aveva adottato li avvedimenti
diplomatici del re; era entrato secolui nella via della perfidia. I volontarii,
fremendo e piangendo, uscirono il 21 da quella terra bagnata del loro sangue;
videro li abitanti nascondere e ardere le insegne tricolori, cercare di
salvarsi dalla vendetta austriaca col nero e col giallo; invano; poichè molti
furono tratti prigionieri in Germania.
"La
mattina del 24 si entrava in Brescia. Fummo accolti non già come Italiani,
ch'erano stati a battersi per la libertà della patria; non già come fratelli
dovevano essere accolti da fratelli; ma come si sarebbe potuto accogliere lo
straniero, che venisse a imporre nuovo giogo. Dappertutto silenzio e freddezza.
Alcuni impiegati insultarono perfino la colonna Manara. La marcia degli ultimi
giorni erasi eseguita sotto una dirotta pioggia; facevano pietà li stenti e le
fatiche che dovevano sopportare i nostri soldati; moveva sdegno il pensare, in
quale stato d'abbandono ci avevano lasciati coloro che pretendono dirigere la
rivoluzione; irritava il vedere come coloro che si mettono alla testa della
novella Italia, trattavano quei generosi che per redimerla sacrificavano i loro
interessi, li agi della vita, la vita stessa. Pochi erano muniti di cappotto o
di mantello. Quasi tutti avevano le scarpe sdruscite, e pressochè inservibili;
più di centocinquanta, non è esagerazione, più di centocinquanta viaggiavano a
piedi nudi.
"In
Brescia dimandammo come si potesse entrare in un'armata regolare. La sera del
25 aprile, si spediva per organizzarci il colonnello Cresia coll'uniforme delle
truppe di sua Maestà Sarda; con officiali tutti com'egli, in abito e soldo di
Carlo Alberto; e ci proponeva paga di Carlo Alberto, disciplina di Carlo
Alberto. Questo fatto tolse il velo dalli occhi nostri; forse sciogliemmo
allora l'enigma, del perchè eravamo così malmenati. All'ordine del giorno del
colonnello Cresia, i nostri soldati rispondevano: voler essi bensì entrare in
qualunque armata che italiana fosse; non volersi mai porre sotto li ordini di
un re, nè di una frazione qualunque d'Italia; esser dessi colli
Italiani, Italiani: in faccia ai Toscani, ai Piemontesi o a tutt'altra frazione
d'Italia, Lombardi. Al grido di Sua Maestà il re, risposero con voce concorde:
viva la Republica Italiana.
Il dì 28 la
nostra colonna entrava in Milano; ed era accolta in modo che, se colmò di gioia
i nostri soldati, fa grande onore ai Milanesi, mostrando che se sanno ben
battersi di fronte al nemico, non sono sconosciuti a chi, come loro, espone
vita e beni, per la commune libertà53.
Si voleva che
la nostra colonna ritornasse in Lombardia coll'onta d' una sconfitta. - Noi
avremo contro di noi, quelli che non hanno fede nella rivoluzione, che non
hanno fede nel popolo lombardo, che sono contenti di cangiar basto, senza aver
l'ardire di pensare a liberarsi: ma avremo con noi tutti i generosi. E questi
generosi vedranno quali uomini abbiano ora in mano i destini di Lombardia,
vedranno s'egli è in questa guisa che si procura l'alleanza di tutti li
elementi atti a far trionfare la rivoluzione; che si inspira fiducia a coloro
che denno abbandonare i loro focolari per combattere lo straniero. E
conosceranno avere l'Allemandi, o il ministro della guerra, o chi altri ne ha
colpa, fatto il loro possibile per allontanare questi generosi, per alienarli
dalla nobile impresa, per denigrarli in faccia al popolo lombardo, e denigrare
il popolo lombardo in faccia all'Europa. Voglia il cielo che la Lombardia non abbia mai più ad essere ridutta a ricorrere a loro contro l'invasore
straniero"54.
L'abbandono
del Tirolo era il primo passo alla nostra ruina; ma Carlo Alberto in quei
medesimi giorni ci tradiva anche sulla frontiera illirica. Lasciava che Nugent
raccogliesse tranquillamente al di quà delle Alpi, sulle pianure dell'Isonzo un
esercito per soccorrere Verona; lasciava che attorniasse Udine; che riducesse i
pusillanimi suoi magistrati ad aprirgli, nella disperazione d'ogni soccorso, le
porte. Fu al 23 aprile; nel giorno in cui si compieva il primo mese dalla sua
liberazione.
Dato per tal
modo al nemico il Friuli e il Tirolo, cioè le valli del Tagliamento e
dell'Adige, rimase isolato il Cadore, valle dell'alta Piave. Qui non è a
tacersi che il veterano Giovanni Manzoni, ch'era stato a lungo per quei monti
in opere censuarie, aveva proposto al ministerio della guerra di preparar
chiusi tutti quei passi delle Alpi, facendo ripari e mine in pochi luoghi
opportunissimi; dimodochè, per poca difesa di buone armi che vi si facesse,
nemico veruno non potesse facilmente discendere in Italia, nè uscirne. Ed era
spesa di nessun momento. Non vi si badò; i settarii del re portavano improntato
nell'anima Campoformio. Tuttavia quei poveri alpini, senza soccorso alcuno,
nemanco di buone parole, si sostennero per due mesi contro un nemico che tentò
irrompervi da sette diverse vie, e che togliendo loro il commercio colla
pianura veneta, potè affamarli. L'animo s'accende d'ira, al vedere si generosi
popoli immolati a una politica di fango.
Fin dal 17
aprile, avendo ricevuto dal Tirolo e dal Friuli novelle che facevano presagire
vicini quei disastri vinsi la ripugnanza, e mi recai presso il governo
provisorio, palesando a quelli improvidi la gravezza del pericolo. Derelitto il
Tirolo, diveniva topograficamente impossibile difendere la Venezia. Anche nel 1813 l'esercito italiano di Beauharnais l'aveva dovuto abbandonare,
arretrandosi d'un tratto, e senza combattere, dalla Sava al Mincio, per effetto
della defezione de' Bavari; eppure questi erano allora in possesso solamente
della Merania, e non del Trentino, come ora li Austriaci. Aggiunsi, che se l'esercito
regio non era sicuro del Trentino, non avrebbe nemmen potuto conservare a lungo
quella sua posizione in aria tra il Mincio e l'Adige, vera isola
fra quattro fortezze. Il nemico a cavaliere d'ambo i fiumi, avrebbe posizione
sommamente offensiva, appenachè dal Tirolo e dall'Isonzo potesse ricevere
soccorsi. E potrebbe pel Tirolo stesso discendere sopra Salò e Brescia, come
aveva sempre fatto, e costringere l'esercito a lasciare il Mincio, o per lo
meno a dividersi. Era posizione sotto ogni aspetto falsa. Perchè lasciare al
nemico quelle pingui provincie da divorare? perchè tradire così Venezia? Qual
principio di difesa era quello che abbracciava una sola metà del nostro regno?
Carlo Alberto faceva la politica, non faceva la guerra. Gravi disastri si preparavano
per noi. Era giusto che sapessimo almeno chi doveva risponderne alla nazione;
era tempo che il governo dimettesse il principio austriaco della collegialità
e ripartisse fra i suoi membri i ministerii. Il Casati mi rispose essere cosa
impossibile; i membri del governo provisorio essersi già troppo esposti, e non
volersi aggravar più oltre.
Mi ringraziò
gesuiticamente del buon volere; ma con incredibile pervicacia e per decreto di
quel medesimo giorni 17, richiamò tutti i volontarii dal Tirolo a Brescia e
Bergamo, sotto colore d'ordinarli e vestirli. Le infelici famiglie trentine,
spinte, solo una settimana inanzi, a sollevarsi contro l'Austria, abbandonate
ora all'austriaca vendetta, e profughe dietro i passi dei volontarii, fecero
udire per la prima volta fra noi quell'accusa di tradimento che si alzava a
quei medesimi giorni in Udine, e che con più funesto suono si ripetè alla fine
nella nostra città.
Nugent passava
il Tagliamento e la Piave; pure, dovendo egli tener presidiate Udine e Belluno,
e custoditi molti ponti, non avrebbe potuto fare grave impressione nella
Venezia, derelitta dal re, ma soccorsa dai fratelli romani e napolitani.
Ebbene, Carlo Alberto da una parte, colli inverecondi maneggi contro il Borbone
di Piacenza, aveva inimicato il re Ferdinando; e dall'altra, era riescito a
imporre per generale ai Romani uno dei Durando. Sì poco destri quei generali
regii a condurre i proprii soldati, si arrogavano d'essere capitani e maestri
d'arme a tutta l'Italia. Nei loro opuscoli e giornali s'intitolavano moderni
Macedoni, destinati ad atterrare l'imperio dei barbari. Di Macedoni, avevano
solo l'odio della libertà. Durando indugiò prima a passare il Po; indugiò
poscia a munire il passo della Piave; indugiò a combattere; combattè
divisamente; mancò all'intento della sua spedizione; cadde in sospetto; fu
accusato. A torto. Era solamente il servo del suo re; il tradimento era nella
guerra regia; poichè, mirandosi solo ad una pace di Campoformio, si era fisso
che l'Austria ristaurasse il suo dominio nella Venezia. Non sarebbe stato
prudente consiglio nel re, lasciar sopravivere colà una repubblica, sì presso a
Milano, sì presso alla città che doveva essere inevitabilmente sede
dell'opposizione.
Quelle
infelici venete città erano nei calcoli del re già devote allo straniero;
eppure egli frattanto simulava di volerle congiunte al suo regno; e dimandava
loro fra quei terrori e quelle angoscie un libero voto di fusione col Piemonte.
Era solo per disgiungerle da Venezia, e trarle sotto al comando d'alcuno de'
suoi, che potesse all'opportunità capitolarle al nemico. Queste malizie non si
potevano celare perfettamente; laonde il governo provisorio fu costretto a
richiedere il marchese Pareto, agente del re, di dar qualche schiarimento di
certe lettere scritte dal campo romano "nelle quali, deplorandosi i
recenti fatti militari delle provincie venete (cioè l'abbandono della Piave e
il passaggio di Nugent), si cercava di spiegarli, imputandoli più che a
necessità di guerra, a ordini pervenuti dal quartier generale
dell'esercito piemontese, quasi si volesse far cader dubio sul leale
procedere del governo di Sua Maestà". E il Pareto, cortigianamente
negando, confessava "non essere la prima volta che gli giungevano
all'orecchie rumori di questo genere"55.
Fra queste
brutture, era giunto il mezzo maggio; e Nugent era sopra Treviso e Vicenza. Per
buona ventura, i nostri volontarii vi avevano apportato il disprezzo del nemico
e la semplice arte delle barricate; erano stati come scintilla sull'accensibil
esca popolare. La difesa fu bella e felice a Treviso e a Vicenza. Allora Nugent
si rimise in via per Verona, e si congiunse a Radetzki. Il quale, così
rinforzato, cominciò allora la sua guerra, tentando di nuovo Vicenza; e la fece
assalire il 23 maggio da 18 mila uomini con quaranta cannoni, che la
fulminarono per diciott'ore. Vi perdette duemila uomini, ma invano. Fu per
l'Italia il più glorioso fatto di tutta la guerra56.
Il re
frattanto non pensava intensamente se non a sollecitare, contro i patti, la
sommissione della Lombardìa. E qui è tempo di dar cenno seguìto dei fatti del
suo esercito; il che faremo valendoci delli scritti del Bava e del Ferrero.
Il 23 di
marzo, passava il Ticino; entrava in Pavia; il 5 aprile, era all'Ollio; l'8 al
Mincio; furono ottanta miglia in quindici giornate. Quando era a Lodi, il
nemico era a Crema, lontano dieci miglia. Invece di passar l'Adda e andarlo a
urtare nella sua confusione, si volse a destra verso Piacenza; era il rovescio
preciso della marcia di Bonaparte. Sul Mincio, il nemico mal destro, nel far
saltare il ponte di Goito, lasciò sussistere il parapetto. Privo poi, come già
si disse, di cannonieri, fu costretto in breve dal foco superiore dei
Piemontesi ad allontanarsi. "Fu allora che alcuni soldati ebbero il
coraggio di passare sul parapetto, e inseguire il nemico che si ritirava a
precipizio"57. Si fece un centinaio di prigionieri; ma rimasero
feriti tre valenti officiali, Della Marmora, Maccaroni e Wright. Nel dì
seguente, fu arso il ponte di Monzambano; ma venne tosto ristabilito dai regii,
che vi ebbero due feriti. All'11 si prese senza contrasto anche l'altro ponte,
tra Borghetto e Valleggio; poichè Radetzki, non potendo tener la campagna, e
pensando ad assicurarsi nelle fortezze contro i cittadini ricalcitranti, e
fornirle di viveri, aspettava i soccorsi dal Tirolo e dal Friuli58.
Per nostra
disavventura i generali del re non incalzavano la fortuna. Il governo cominciò
a disanimare i veggenti, dicendo fin dal 13 aprile: "l'esercito piemontese
conserva la linea del Mincio". Pareva che non fosse il caso di conservare
ciò che per noi già s'era preso; ma di prendere pur qualche cosa. Si fece,
quello stesso giorno 13, un puerile tentativo di sgomentare il vecchio
comandante di Peschiera col rumore di venti pezzi d'artiglieria da campo; poi
gli si mandò un parlamentario a intimargli la resa, che fu naturalmente negata.
"Trovandosi
intanto, dice il Bava, la guarnigione di Mantova mal proveduta di viveri,
alcuni distaccamenti operavano frequenti sortite per procacciarsene nel
dintorno; cosicchè rapivano alli abitanti, non solo cereali e bestiami, ma
tuttociò che veniva loro alle mani."59. Condusse infatti il nemico
a Mantova, in una sola razia, mille e duecento bovi. Perchè non avevano
pensato i regii a porre quei bestiami in salvo? Perchè non perlustrarono tosto
tutto il circondario della città, facendo rimovere a considerevole distanza i
viveri e i veicoli, poi interrompendo le strade, e facendovi ripari, coll'opera
dei popoli ancora infervorati? Solo il 19 d'aprile, pensarono essi
"d'accostarsi alla piazza, per fare prigionieri alcuni posti, non senza
lusinga che un tal movimento potesse risolvere la popolazione a sollevarsi
contro il presidio"60. Ma non pensavano che un mese era stato
troppo lungo intervallo per un popolo rinchiuso, in balia del truce nemico già
riavuto dal digiuno e dallo spavento. Il generale si lagna a torto che quei
popoli si mostrassero freddi; il freddo spirava dal campo del re. E i popoli
che vivono intorno alle grandi fortezze, avendo per necessità e per tradizione
certo intendimento delle cose militari, dovevano presentire in quelle esitanze,
in quei riposi prima della battaglia, in quella toleranza delle ladronerie
nemiche, l'esito della guerra.
La "ricognizione"
fece rientrare il nemico nel Forte Belfiore, d'onde fece vivo foco; tentò
qualche uscita; ma venne raffrenato dai bersaglieri. Sopravenne quindi il re;
passò a rassegna la brigata; considerò attentamente la fortezza. Poi comandò di
tornare alli alloggiamenti.
"Le
nostre truppe, e particolarmente la cavalleria, prosegue il generale, avevano
durante questo riposo, eseguito frequenti ricognizioni verso Roverbella
e Villafranca. Alcuni vantaggiosi scontri provavano, non essere mente del
nemico il contrastare la riva sinistra del Mincio; talchè il primo corpo
non ebbe ostacolo da superare nel giorno 26 aprile, durante la sua marcia a
Roverbella. Ebbi ordine di recarmi il 28 ad occupare le posizioni di Custosa,
Somma Campagna e Sona, passando per Villafranca. In questa città fummo ricevuti
come veri liberatori. Il secondo corpo passò parimenti il Mincio; cinse
Peschiera sulle due sponde del fiume; e prese nel tempo stesso posizione a
Castelnovo, Santa Giustina e nel dintorno. La divisione di riserva occupò
Oliosi, e la cavalleria S. Giorgio in Salice. Così trovavasi condutto a pieno
termine il blocco di Peschiera.
Tuttavia un
corpo austriaco occupava ancora sulla diritta dell'Adige l'imboccatura delle
valli del Tirolo. Ciò determinò a farlo attaccare; questo fu il combattimento
di Pastrengo. Intanto che si combatteva, la linea da Sona a Somma Campagna fu
attaccata da alcuni corpi nemici venuti da Verona; ma furono assai facilmente
respinti"61.
Quei favorevoli
scontri, avvenuti nei tre ultimi dì d'aprile, a Pacengo e Colà presso il lago
di Garda, sui colli di Sandrà, Piovezzano e Somma Campagna, e finalmente a
Pastrengo presso all'Adige, chiusero affatto al nemico l'intervallo tra il lago
e il fiume, ch'è di sei miglia incirca; ma quei preludii di vittoria non furono
coltivati62. Giungevano intanto anche cinque mila Toscani, e qualche
migliaio di Napolitani; e venivano messi a far siepe presso al lago di Mantova.
E prendevano parte alle pugne anche 1500 soldati parmigiani, giunti allora con
4 cannoni e 40 cavalli.
Il re, che
aveva più intendimento a reprimere i popoli che non a sollevarli, sperava
intanto che in Verona pure li abitanti dovessero insurgere al suo primo
apparire. Deliberò dunque di fare, come a Mantova, uno di quei movimenti che si
chiamano ricognizioni, quando però precedono le grandi battaglie e le
preparano. Ma per poca esperienza dell'arte militare, e per non essersi in quel
lungo riposo fatta alcuna prova di grandi combinazioni campali, i
reggimenti ebbero li ordini solo alle sette ore del mattino stesso del 6
maggio, in cui dovevano combattere. "Di qui, dice il generale, spiegasi il
ritardo dei corpi e la nessuna simultaneità dell'attacco. La sola brigata
Aosta, seguita a gran distanza dalla divisione di riserva, si trovò al suo
posto a S. Lucia. Al punto in cui stavano le cose, non era più possibile
l'arrestarci, nè rimaneva che operare audacemente, e spingersi sempre
avanti"63.
Così alla
brigata Aosta toccò il glorioso quanto arduo officio di sostener sola l'impeto
delle forze nemiche, non lungi dal cimitero ch'era alla nostra destra, occupato
gagliardamente dall'avversario. Col battaglione dei cacciatori Guardie, mi resi
padrone alla sinistra della Pellegrina, fortemente tenuta dal nemico. Ritornai
quindi presso la brigata Guardie, intorno alla quale, nonchè a quella d'Aosta,
avevano assai faticato e si adoperavano tutti li officiali del mio stato
maggiore, onde fermare la mossa retrograda di qualche battaglione che fuggiva.
Era circa un'ora pomeridiana, quando mi venne fatto di chiaramente distinguere
l'attacco a destra di S. Lucia, eseguito da una parte della seconda divisione.
Fatta battere la carica, in un subito fu assalito e conquistato il villaggio,
d'onde prospettavasi Verona; ma nulla dava indizio del più piccolo movimento
popolare nell'interno. E siccome si ebbe notizia che l'attacco di sinistra
della terza divisione, a Croce Bianca, non era riuscito a buon termine, e che
in ispecie il reggimento Savona si trovava in fuga, fu decisa la
ritirata64.
In questo
frattempo, un reggimento di Cuneo, lasciato a S. Lucia, respinse un vivo
attacco. Fu allora che molti tiratori nemici riuscirono ad occupare inosservati
alcune case avanti alle colonne della seconda divisione, che sorprese
dall'attacco inatteso si diedero a fuggire, non valendo a rattenerle li sforzi
e le preghiere delli officiali che si opponevano. Alcuni vennero fino a gettare
il sacco; e senza l'intrepidezza dei loro capi, senza l'opposizione presentata
al nemico dalla mezza batterìa del luogotenente Salino, e dalla compagnìa
Griffini (di volontarii lodigiani), senza la natura boscosa del terreno,
che impediva alla cavalleria (nemica) di vedere quanto succedeva, e di
operare in conseguenza, la divisione avrebbe sofferto perdite
immense"65.
Pare infatti
che in quell'inutile e assurdo assalto di fronte, contro una fortezza che non
si voleva assediare, si avessero quasi mille tra morti e feriti. E ciò ch'è
peggio, si rivelò ai soldati l'imperizia dei generali; e si tolse loro
quell'impeto che viene dalla coscienza d'essere ben guidati. Prima di
ritirarsi, non pensarono nemanco a distruggere il recinto del cimitero e li
altri ripari, che servivano d'antemurale alla fortezza66.
Il generale
Bava interrompe qui la sua narrazione per querelarsi della stampa, che dava
"relazioni così smilze, così fredde, così oscure". Sarebbe più giusto
querelarsi dell'ingannevole sicurezza in cui si tenevano i cittadini con
adulatorie notizie, le quali attribuivano la sconnessione delle mosse, non a
dappocaggine dei capitani, ma bensì a smodato ardore dei soldati; e tacevano
della fuga di cui le Guardie stesse avevano dato l'esempio; e tacevano dei
volontarii lodigiani, che salvarono due cannoni dimenticati dai regolari
fuggiaschi. Ora che il velo è caduto, non si può leggere senza sdegno il
pomposo bollettino del generale Salasco: "Lo slancio, con cui le nostre
truppe si spinsero all'attacco, sprezzando ogni pericolo, fu cagione che le ale
del corpo d'armata, che dovevano coadiuvare la presa delle posizioni
assalendole di fianco, non poterono giungere abbastanza in tempo". E non
solo non accennava al disordine della ritirata; ma si vantava viceversa, che li
Austriaci non avessero posa, se non quando giunsero sotto i cannoni di
Verona67.
L'illusione
cagionata nei cittadini da quella supposta vittoria, diede animo al governo di
farsi fare da' suoi cagnotti una dimostrazione il giorno 11, per aver pretesto
a dettare il 12 lo sleale decreto della fusione. Il Lombardo si
era fatto tacere colla violenza; li altri giornali liberi cominciavano appena a
spuntare. E chiunque avesse contradetto al vanto della vittoria, sarebbe parso
strano e cattivo; e i faziosi avrebbero scritto sui muri ch'era spia del
nemico. La cecità era insanabile ed erano irreparabili li effetti. Li
avvenimenti che sembrano arbitrii della fortuna, hanno le secrete radici
nell'animo dei popoli; officio dell'istoria si è di additarle.
Dal 6 di
maggio alla fine, l'esercito stette immobile sui colli inanzi a Peschiera; già
rallentato dall'ozio d'aprile, si contristava e snervava nell'ozio di
maggio68. Peschiera difettava di vittovaglie; un presidio di 1200
Croati, senza cavalleria, non aveva forza di far prese di viveri intorno; nè aveva
carri da trasportarli; e fin da principio, i nostri volontarii, dalle vaporiere
del lago e dalla penisola di Sirmione, avevano interrotto le communicazioni col
Tirolo. Li arrivi da Verona, mal provista per sè in quei primi giorni, furono
tosto turbati dall'ardimento dei volontarii stessi; e col cader d'aprile furono
finalmente intercetti dalle posizioni dei regii. Si dice che i Croati, avendo
rubato in Milano, in Lodi, in Crema e in Peschiera medesima, un enorme valsente
di denaro, argenti e gioie, desiderassero sopratutto di mettere la preda in
salvo. Onde, dopo la metà di maggio, quando videro giunta finalmente
l'artiglieria d'assedio, cominciarono a fare di mal animo il servigio, parlando
sempre d'andare a difender le case loro dalli Ungari; e si dice ancora che
nottetempo gettassero nel Mincio le farine che rimanevano. I cannonieri erano
sempre stati pochissimi, come si è detto; e alcuni erano stati uccisi dalle
carabine dei volontarii e dalle bombe piemontesi; non rimanevano più di 60,
avendo in cura 127 cannoni. Laonde benchè le batterie dei regii in quel suolo
palustre fossero riescite male, non reggendo alle pioggie dirotte e alla scossa
delle artiglierie, epperò il recinto dei bastioni fosse perfettamente intatto,
il vecchio generale Rath mandò a rendere la fortezza il maggiore Ettingshausen.
Questi non trovò i pertinaci avversarii che aveva trovati in Milano, e potè
patteggiare coi regii che i Croati fossero accompagnati salvi, colle spoglie
del popolo, fino in Ancona; ove si restituirono loro anche le armi. L'onore
voleva che quei ladroni non si dovessero accettare se non a discrezione; e si
facessero restituire colle mani loro la roba a luogo a luogo ove l'avevano
rapita. Ma in verità non v'era tempo a perdere. Se Peschiera avesse durato
solamente un giorno di più, l'esercito regio sarebbe caduto due mesi prima.
Peschiera fu la sola ed unica conquista di Carlo Alberto; e non è a dire qual
prò ne facessero i suoi settarii, in quei giorni tanto infesti alla nostra
libertà.
Li Austriaci,
per fomentare nel re una falsa sicurezza, si facevano dipingere nei giornali
tedeschi e inglesi come già rassegnati alla perdita della Lombardia. Ma credo
che non ne avessero mai avuto il pensiero. E lo dissi fin d'allora, e più d'una
volta, al corrispondente del Times, che fu lungamente a Milano, e da
inglese, mostrava buon concetto di quel nuovo regno costituzionale. Gli dissi
che l'Austria non cederebbe mai nulla; ma trastullerebbe il re, finchè ella non
avesse adunato forze bastevoli per discacciarlo. Pare anzi che s'intavolasse
qualche pratica. Nella Raccolta delli atti del governo provisorio, si
legge: "alcuni giorni dopo la resa di Peschiera, un inviato austriaco, con
credenziali del ministro di Sua Maestà l'imperatore al presidente del governo
provisorio di Lombardìa, giungeva in Milano per trattare di pace; e offriva da
parte del suo governo la ricognizione dell'indipendenza della Lombardìa sino
all'Adige"69.
Intanto
Radetzki, avendo avuto due mesi per riordinare i soldati, e reprimere in loro
lo spirito di nazionalità e diserzione; ed avendoli confortati con assidue
passeggiate militari che li empivano di cibo e di preda; e avendo infine
ricevuti dal Veneto i rinforzi di Nugent, anzi già tentato il secondo assalto
di Vicenza, fece passare il 27 maggio molte truppe per Isola della Scala a
Mantova.
Attraversando
per Mantova il lago, assalì con 16 mila uomini a Montanara e Curtatone i
cinquemila toscani e napolitani; i quali, sotto il comando del De Laugier, si
erano già onorevolmente provati contro due minori assalti, il 9 di maggio e il
13. Quantunque narri il general Bava d'aver preveduto ogni disegno dei nemici,
e d'aver saputo nel 28 che il giorno inanzi erano partiti da Verona per Mantova,
egli non mosse per tutto quel giorno un soldato. Al mezzodì del 29,
quando i Toscani erano assaliti, egli era a Goito, sei o sette miglia lontano
dal campo di battaglia. "Partecipai al generale De Laugier il mio arrivo a
Goito con cavallerìa; gli annunciai prossimo il soccorso di fanteria : e
dopo avere convenientemente appostati i bersaglieri, e il reggimento Nizza
cavalleria colla batteria leggera, ritornai a Volta all'incontro delle truppe.
Erano le tre pomeridiane, quando giunsi a Volta, dove trovai Sua Maestà. E da
quella magnifica posizione noi rivolgemmo i nostri cannocchiali nella direzione
di Mantova; dove si scopriva una casa in fiamme, ed il foco dell'artiglieria
che pareva avvicinarsi a noi. Un officiale toscano arrivò nello stesso tempo; e
prevenne il re che tutto l'esercito austriaco aveva attaccato le ridutte
di Curtatone e Montanara; e che il suo generale, non potendo sperare di difenderle,
andava a ripiegarsi sopra Goito. Sua Maestà giudicò prudente di non
abbandonare la posizione di Volta, cui fece custodire dai nove battaglioni
che avevamo con noi. E ritornò quindi al suo quartier generale, ch'era stato
trasportato a Valleggio"70.
Nella politica
del re li alleati erano un intoppo; ed era quindi espediente avvisarli
dell'arrivo, prometter loro il prossimo soccorso, e lasciarli al macello.
Quei ragazzi
intanto, come il vecchione nemico li chiamava, perchè molti erano studenti coi
loro professori, gli fecero spendere su quei ridutti una lunga giornata, sempre
aspettando il prossimo soccorso dell'infido amico. Ne caddero
quattrocento morti o feriti. Tra quelli il geologo Pilla napolitano; tra questi
il Montanelli, e molti altri dei capi, De Laugier, Campìa, Ghigi, Giovanetti,
Caminati. Quasi tutti i cannonieri spirarono sulle loro batterie; fu ammirato
Giuseppe Elbano che vedendo ardersi intorno le vestimenta, gettolle; e durò
nudo ed impavido al suo cannone. L'indugio salvò il re; il quale, avviluppato
nelle ambagi della sua politica, non pensava in qual pericolo egli medesimo
fosse.
Infatti
Wratislaw, passando sui cadaveri dei Toscani, e rimontando la riva destra del
Mincio, riesciva dietro i Piemontesi, che stavano presso al fiume e al di là;
ma per l'ostacolo trovato a Curtatone, non giunse a Goito il 29, nè in tempo
d'opprimere quella stazione isolata, e d'intercettare il passo del ponte. Vi
giunse solo alle tre dopo mezzodì del 30, quando il re aveva con tutto agio
raccolti 24 mila uomini e 44 cannoni, in quella posizione preparata e forte.
Dopo un
combattimento d'artiglieria sulla fronte, si impegnarono i bersaglieri; questi
nel ripiegarsi trassero seco in disordine la brigata Cuneo; successero le
Guardie; e queste pure ebbero a retrocedere; ma fiancheggiate dal maggiore
Mollard colla brigata Aosta, ripresero l'offensiva valorosamente. A sera, il
nemico si ritirò, inseguito a tiro di cannone dalla cavalleria d'Aosta e di
Nizza. Si fecero onore li artiglieri Prié, Cuggia, Sallier, Giacosa, Bocca; e
fra i pochi Toscani e Napolitani che quivi avevano potuto ripiegarsi, Abuderame
e Bartolomei. Ebbero i regii 45 morti e 260 feriti; e pretendono che il nemico
avesse una perdita ben dieci volte maggiore. A Milano, il governo, vanissimo e
ignorante, annunciò che il nemico con 130 cannoni aveva fatto "tremenda
battaglia per sette ore continue"; ch'era fuggito dirottamente, lasciando
cinquemila morti; e che si era fatto parlamento, per sepellire i cadaveri
accatastati, che facevano corrotta l'aria per lungo tratto di paese.
Ma quel
combattimento era una sola parte della nemica impresa. Mentre Wratislaw tendeva
a chiuder Goito, Daspre coll'ala sinistra si spandeva sulla pianura; e con
ampio circuito pareva tendere ai colli dietro Peschiera; sulla quale nello
stesso tempo s'indirizzava di fronte una colonna venuta dall'Alto Adige. Quivi
ottocento Tirolesi, venuti il 28 sul lago di Garda, avevano desolata la terra
di Bardolino. L'assalto avrà cominciato da quella remota estremità per
trattenere colà le forze regie, lungi dal Mincio. Il 29, vi sopravenne altro
corpo di quattro a cinquemila uomini, che discesi sino a Colmasino, si
fortificarono nel cimitero. Ma vennero scacciati dal general Bes coi
bersaglieri e li studenti Torinesi e la brigata Piemonte. I nostri ebbero 2
morti e 14 feriti. L'aver però fatto quivi il nemico con forze considerevoli sì
lieve spinta, fa credere che aspettasse il movimento del restante esercito. Ma
il comandante di Peschiera, visto presso la riva del lago quel combattimento
senza effetto, disperò del soccorso; e il dì seguente capitolò.
Ciò che più
manifesta i disegni del nemico erano i grandi trinceramenti che presso Goito
aveva preparati alle sue spalle. "Quantunque la pioggia cadesse a torrenti
nella notte del 30, dice il generale, i nostri avamposti annunciarono d'avere
inteso, dietro quelli del nemico e verso Sacca, un rumore distintissimo. Pareva
che si atterrassero piante e si percotessero con martelli le
muraglie;71. Si trovò poi che aveva atterrato più di trentamila
piante, fatto barricate in ogni punto, per coprire la sua artiglierìa, e
merlato (feritoiato) tutte le case e i villaggi"72.
Il nemico in
quell'ardita e minaccevole posizione di Goito, veniva ad avere a destra e
sinistra le sue fortezze di Mantova e Peschiera; alle spalle le vie di Cremona
e Brescia; trincerava quella di Cremona con quella sollecitudine che il
generale ha descritto; faceva occupare quelle di Brescia dal general Daspre.
Nulla impediva che questi si spingesse quindi sino a toccar Peschiera; d'onde,
valendosi anche di quel presidio, poteva facilmente congiungersi coi corpi che
frattanto temporeggiavano a Bardolino e Colmasino. Compita quell'operazione,
l'esercito regio riesciva intercetto sul Mincio, stretto ai fianchi dalle
fortezze, malsicuro alle spalle. Era in necessità di sboccare da' suoi ponti di
Goito e Valleggio, e vincere una battaglia per riaprirsi le strade di Cremona e
Brescia. Non vincendo, rimaneva senza viveri e senza base. Vincendo, doveva su
quelle trincere difese da tutto l'esercito nemico pagare sì cara la vittoria,
che non avrebbe avuto più animo di guardarsi indietro, nè forza d'intraprender
nulla. Ma la giornata di Curtatone diede tempo al re di farsi forte a Goito; la
giornata di Goito gli diede tempo di chiamare a sè anche la brigata Savoia, e
le altre ch'erano disseminate di là dal Mincio. Potè adunque dopo la battaglia
mettere in postazione ferma 40 mila uomini e 80 cannoni. Intanto Peschiera era
aperta. Peschiera gli assicurò un imperturbabile passaggio dall'una all'altra
riva del Mincio; egli poteva tentar Verona, mentre Radetzki non poteva più accorrervi
se non pel lontano circuito di Mantova. Tutto il gioco del nemico era dunque
disfatto; disfatto dal generoso sacrificio dei Toscani, e dall'avarizia dei
ladroni Croati. Radetzki perdè Peschiera, perchè soffriva che i suoi soldati
fossero ladri; come aveva perduta Milano, perchè li aveva sofferti assassini. E
se Carlo Alberto fosse stato semplice guerriero, e non re e gesuita, sarebbe
volato per impeto d'animo al soccorso di quella prode gioventù toscana; e
ributtato in Mantova Wratislaw, e avrebbe potuto intercettar Daspre sulla
strada di Brescia; poi attraversata rapidamente l'aperta Peschiera, sarebbe
stato in tempo a investir Verona, ove il nemico aveva lasciata poca gente;
l'avrebbe fatta assalire a tergo dai Romani e Vicentini, e al di dentro dal
popolo, acceso dal grido della sua vittoria. Pare che pensieri di questa fatta
circolassero nel suo esercito73.
In quei giorni
di gravissimo e non creduto pericolo, non v'era tra l'esercito nemico e Milano
un solo battaglione. Il frivolo governo e li abbindolati cittadini erano tutti
assorti nei loro registri. Il Collegno, il Perrone e li altri estrani in
cui mano era la difesa della nostra città, non avevano preparato il più lieve
ostacolo. La cavalleria del Daspre si sparse sulla riva del basso Ollio e del
Clisio; si mostrò impunemente ad Asola, a Castel Goffredo, a Mèdole; ridestò
per la prima volta nelle terre bresciane e cremonesi l'obliato terrore del nome
austriaco. Il generale Bava scrive che Radetzki aveva sperato una reazione
austriaca dei popoli Lombardi; ma Radetzki non si pasceva di siffatte speranze,
nè faceva sittatti sogni. E il ministro Collegno, ancora il 21 dicembre, ebbe a
dire nel senato di Torino, che Radetzki avesse positivo accordo colli amici
della libertà a Milano; e ciò, perchè nel dì medesimo del fatto di Curtatone,
in Milano si chiudevano i registri dei voti; nè una cotanta perfidia potè
compiersi senza qualche opposizione e qualche tumulto. Chi coi tumulti volle
esigere l'osservanza della data fede, e difendere la sua padronanza e libertà,
potè aver torto nel modo, ma non nella cosa. Ma per apporgli che avesse infame
accordo col nemico, si vorrebbe additarne qualche prova, e ben chiara; massime
da chi ebbe allora in mano sua la polizia e i tribunali. Quanto alla coincidenza
del giorno 29 maggio, era quello il dì prefisso dal governo, che volle così
profanare l'anniversario di Legnano, l'anniversario della vittoria d'una
republica contro un re.
Bensì quel
generale Bava che sapendo le mosse e la mente del nemico, e sapendo deserti sul
campo i fratelli Toscani, e promettendo loro soccorso, e avendo sotto la mano
cavalleria e artiglieria volante e nove battaglioni, se ne va sul colle
magnifico di Volta a rimirar col cannocchiale le fiamme dei loro alloggiamenti,
e lascia che il re se ne torni indietro a dormire placidamente a Valleggio,
senza spezzargli inanzi la spada : - e quel ministro della guerra Collegno, che
chiamato a ordinare la difesa d'un paese, non ha posto fra l'esercito nemico e
la capitale un solo riparo, non un ponte minato, non un fosso, nè un cannone,
nè un soldato : - costoro non possono farsi accusatori altrui; perchè stanno
essi sul sedile delli accusati. Il generale almeno ha parlato, e ha confessato
la colpa sua. E la nazione attende che il ministro pure confessi, o si scolpi.
Se Radetzki
potesse acconciarsi mai con alcuno in Italia, ciò che non credo, non sarebbe
poi certamente coi republicani; perchè v'è ripugnanza assoluta, e
incompatibilità di vittoria. Non così coi servili; coi quali avrebbe solo a rannodare
accordi antichi e diuturni. Dio nol soffra !
Il Daspre
stava ancora sulla via di Brescia, anzi ancora il 3 di giugno, assaliva con
truppe leggere la cavalleria del re, mentre molti drappelli della sua
spaventavano impunemente il contado. Il 4, rientrava finalmente in Mantova,
seguito sino a Curtatone dai regii, che tosto ritornavano ai loro
alloggiamenti. Il re se ne andò a Rivoli, e pareva far pensiero di mettervi
un ponte sull'alto Adige; ma spese poi meglio il tempo trattenendosi col
Casati, che gli apportò in quei giorni con fanciullesco giubilo il trionfale
estratto de' suoi registri. E in premio ebbe un bacio dal re.
Intanto
Radetzki potè uscire di Mantova dalla parte opposta, varcare l'Adige in Legnago;
proseguire fino ad Este; poi volgendosi a sinistra, e compiendo, come in paese
senza nemici, l'imperturbato viaggio d'un centinaio di miglia, riescire dietro
Vicenza da mezzodì e levante, con 32 mila soldati e 70 cannoni; intercettare ai
difensori ogni communicazione colle città venete, e ogni rifugio. Perciò
Durando non potè ritirarsi e fu costretto a combattere. E così non potè obedire
all'inumano e infraterno comando del ministro della guerra, "che gli prescriveva
di ricoverarsi a destra, mentre Vicenza non sarebbe nello stesso modo salvata;
e in conseguenza era meglio lasciarla, com'era, in baìa del nemico"74.
E qui si
consideri con quale atroce immoralità quei generali dimenticassero che questa
non era solo guerra di principi, ma eziandío di popoli e di ribellione; e che
le città, dovendo aspettarsi crudeli vendette, non erano da prendere e
lasciare, come se fossero mere posizioni militari, selve o sassi, e pezzi da
scacchiera.
Col sanguinoso
sacrificio di qualche migliaio d'uomini, il nemico espugnò il monte Berico che
signoreggia Vicenza da mezzodì. Il Durando, non avendo avuto forse intenzione
vera di combattere, aveva accumulato soverchia parte delle sue forze entro la
città; il nemico, potè farsi perciò padrone del monte,75. e di là
fulminarla irresistibilmente, per sette ore continue. Durando aveva dichiarato
potersi difendere per otto giorni; doveva dunque essersi accertato d'aver
quanto era necessario. Ma, cme tutti i generali del re, amava meglio le
capitolazioni che le battaglie disperate; amava meglio salvare le città
che difenderle; e mise fuori per la prima volta quella brutta formula, che,
dopo simiglianti promesse, venne applicata similmente a Milano : non esservi
munizioni nel magazzino; il generale aver pensato a salvare la città,
assicurando alli abitanti la vita e i beni e la licenza di partire coi soldati.
Similmente come poscia a Milano, si videro i soliti strepiti e furori, che
nelle città tradite succedono alla cieca e tracotante fiducia nei traditori. I
cittadini, che avevano disertato l'antica madre Venezia, per fondersi
nel regno fortissimo, e mettersi in mano di generali che sentenziavano esser
meglio lasciarli in balìa del nemico, uscirono a turbe, colle donne, e li
infanti e i feriti, piuttosto che soffrire entro le loro case l'arroganza dei
barbari, e vederli depredare e contaminare la gentile loro città. E li altri
Veneti, che poche settimane prima, avevano trovato nella coscienza della
libertà il coraggio di resistere, or quasi snervati e fatati da servile e
immorale influenza, cedettero con inopinata facilità.
Il governo
provisorio aveva narrato, che l'attacco di Vicenza non poteva esser fatto se
non coll'intento di coprire la ritirata del nemico verso la Piave e la Germania; poichè davvero s'imaginava d'averlo messo alla disperazione co' suoi
registri. Narrando poi freddamente l'avvenuta ruina, aggiungeva che il re, non
avendo per allora giudicato di salvare Vicenza, ben presto però prenderebbe
Verona, anzi anche tutto il rimanente76.
Vantarono i
regii, a compenso del grave danno, l'incruento abbandono che il nemico aveva
fatto del colle di Rivoli; e allora, dicevano ch'era stato per paura e viltà
sua. Al presente dicono ch'egli era perchè non fosse prezzo dell'opera
contrastarlo. "Lo splendido nome di Rivoli; dice il generale, fu famoso
all'esercito d'Italia, perchè allora era il solo sbocco per l'austriaco; ma
oggi quel nome era per noi senza alcuna importanza"77. E
poteva ben aggiungere, come il fatto dimostrò poi, che padrone il nemico del
Tirolo e di Verona, poteva farsi di Rivoli una insidia, da prendere i nostri
soldati tra il monte, l'Adige e il lago.
Carlo Alberto
aveva lasciato spaziare a beneplacito il nemico, anzichè vigilarlo, e
sovrastargli assiduamente; e se avesse accennato d'assalir Verona, lo avrebbe
forse richiamato a difendere il nido; e sviata almeno in parte la procella di
Vicenza. "L'arrivo nostro sull'Adige, confessò il ministro della guerra
nella camera dei deputati, non avrebbe potuto a meno di produrre l'effetto di
liberare Durando, perchè avrebbe richiamato Radetzki sull'Adige". Forse
tentando almeno in qualunque luogo il passo dell'Adige, si sarebbe costretto il
nemico a raccogliersi, e a dissolvere il cerchio che aveva teso intorno a
Vicenza, e lasciare una qualche uscita a Durando; sicchè almeno non fosse
costretto a ritrarsi dalla guerra con tutti i combattenti Vicentini e
Pontificii. Ma il re aveva per un guadagno il liberarsi dalli alleati.
Volendosi poi
affacciare all'Adige, era inutile il farlo a Rivoli, tanto sopra Verona e sì
lontano dal nemico; ma sì sotto Verona, presso la foce dell'Alpone, e più
presso che si poteva a Vicenza, in modo di fargli temere del ritorno in Verona,
Non v'è là in faccia il glorioso argine d'Arcole e il colle di Caldiero? Che se
i nemici si ritorcevano ad assalirlo con tutte le forze, poteva rinovare al
ponte dell'Adige la difesa già fatta al ponte di Goito. E avrebbe avuto un
vantaggio che a Goito non aveva, d'essere sulla giusta sua base, col Mincio
alle spalle e Peschiera sua. In quel giorno 10 di giugno, l'esercito italiano,
computati i Veneti, Romani, Svizzeri, Parmigiani, Modenesi, Napolitani, Toscani
era doppio per lo meno di quello del nemico, e ancora pieno di spiriti
generosi. E il nemico, facendo pur troppo grandissimo assegnamento sulle
titubanze del re, e sull'imperizia strategica e topografica de' suoi
consiglieri, aveva dimenticato in quel giorno tutte le consuetudini della
prudenza militare; e aveva abbandonato sprezzantemente ogni base di guerra. Se
i regii lo avessero prevenuto dietro l’Alpone, egli avrebbe dovuto assalirli a
condizioni sfavorevoli; poichè, se non vinceva subito e appieno, non rientrava
in Verona. Perduta Verona, era impossibile rimanere in Italia; poichè Mantova,
nella stagione che correva, gli avrebbe consunto l'esercito in pochi mesi.
Vicenza fu
attorniata il 9, cannoneggiata il 10, aperta l'11. "Il re ordinò, dice il
generale, alle nostre truppe di riunirsi nel successivo giorno 12 presso
Roverbella, Valleggio e Sona; onde concentrarsi il 13 presso Villafranca, per
marciare sopra Verona, e tentare colà un colpo di mano, durante l'assenza del
nemico"78. Ora, fin dal 13, il nemico vi era già tornato
vittorioso. Senonchè i Veronesi in quei giorni, per la debolezza del presidio,
s'erano messi in pensiero d'assalirlo dal di dentro, e sforzare qualche parte
del vasto recinto; e si erano tanto infervorati, che mandarono persona a dire
al re, che lo avrebbero tentato, ancora il dì seguente, "se noi, come dice
il generale, avessimo fatto impeto con forze considerevoli, non ostante che il
maresciallo nella mattina stessa fosse entrato con rinforzi. - Sua Maestà
aderiva a così lusinghiere speranze; e ordinavami d'impartire all'esercito le
disposizioni necessarie, per l'attacco nel mattino vegnente. - Sulle due del
matino, fui dimandato dal re. - Vi trovai il sopradetto abitante; il quale mi
disse che essendosi trasferito a Villafranca, per dare ai cittadini il noto
segnale consistente in un gran falò, il comandante della piazza non glielo
aveva voluto permettere. - Sua Maestà, a fronte di questo malaugurato
contratempo, e del ritorno in Verona del maresciallo, m'impose d'ordinare il
ritorno delle truppe ai loro alloggiamenti"79. Fa
poi sdegno il vedere la perfida loquacità, colla quale i regii manifestano
colla stampa al nemico la congiura dei settecento veronesi, come se questi
infelici non fossero ancora in potere del nemico e il loro secreto non fosse in
balìa delle sue torture. Italiani, se volete liberarvi, non vi affidate a
quelli uomini e ai loro tarlati e depravati sistemi.
Intanto
Zucchi, chiuso in Palma Nova, non faceva quanto aspettavasi dal combattente di
Raab, dal capitano che nella campagna di Sassonia aveva sempre sostenuto i
pericolosi onori dell'avanguardia o della retroguardia. Non raccolse in tempo
vittovaglie; non oppresse i nemici quand'erano deboli e spaventati; non preparò
militarmente il circondario della fortezza; nè infine attese, prima di
arrenderla, che la breccia fosse aperta. Reo di stato, vecchio prigioniero, pareva
solamente ansioso di non lasciarsi levare ogni uscita. Palma Nova doveva essere
affidata a un militare al quale non si potessero, nell'ultimo caso, contendere
i diritti della guerra e delle genti. O almeno doveva il re, colla minaccia
delle rappresaglie, costringere li Austriaci a trattar giusta le consuetudini
della buona guerra anche i Lombardi e i Veneti, ch'essi mandavano al supplicio
come masnadieri. Aveva egli inviato in Palma Nova per unico soccorso una
compagnia di cannonieri; si è poi publicata in varii giornali d'Italia una
dichiarazione di molti cittadini ch'erano allora in Palma, i quali attestano
"che in ogni circostanza si mostrò scaltro e fervido maneggiatore della
resa, assediando lo Zucchi, il cavalier Cuggia, capitano delli artiglieri
Sardi"80. Come appare dalla capitolazione, alla quale si
sottoscrisse anche il Cuggia, la città si arrese anzi tempo, e se ne fece
merito col nemico. Il Cuggia operava da servitore del re, non da cittadino. E
perciò i giuramenti o non si devono fare, o si devono fare alla patria e alla
legge; non alle persone dei principi81.
Con siffatti
comportamenti, il nostro capitano ci aveva perduta in due mesi la metà del
regno. Gli restava da perdere l'altra metà; e già i nemici accennavano di traboccare
a destra e sinistra del suo esercito. Discendevano sul Po a interrompere la
navigazione per Venezia, e sommovere in Modena i settarii del Duca; e dal
Tirolo, troppo stoltamente lasciato loro in preda, salivano ogni istante a
tentare l'entrata delle nostre valli, annidandosi omai stabilmente sopra il
lago d'Idro. Eppure, dopo la caduta di Vicenza, il re stette per più d'un mese
marmoreamente immobile. L'esercito, stagnante nelle sue trinciere, non aveva
più l'ardore primamente concepito nel tocco d'una rivoluzione e nella coscienza
di combattere una guerra generosa. Era indebolito anche di numero per i molti
feriti e infermi. Allora apparve quanto avesse errato il re nell'attraversare
l'ordinamento dell'eserciti lombardo, nell'umiliare i volontari, anzichè
disciplinarli e guidarli, nel ributtare li ausiliarii stranieri,
nell'abbandonare senza soccorso i combattenti veneti, toscani e romani.
I liberali,
che finalmente avevano impugnato li strumenti dell'opinione, additavano nei
giornali il pericolo della patria; un moto universale di riprovazione surgeva
contro il governo; il quale, vaglia il vero, mostrava più sgomento delle
invettive del Cernuschi nell'Operaio, che non della ruina dei Veneti.
Infine quei signori, dopo tre mesi di facinorosa ignavia, si atteggiarono a
repentina e convulsiva sollecitudine; e il 25 giugno, con una simultanea salva
di ordinanze, decretarono che andasse immantinente e per battaglioni al campo;
decretarono leva straordinaria di coscritti; richiamo di tutti i veterani che
avevano dispersi, e non solo dei giovani, ma dei quadragenarii, offrendo anzi a
tutti lo stipendio di caporali; rinovarono la logora promessa di smantellare il
castello di Milano; fecero allocuzioni ai parochi; dimandarono in prestito li
argenti delle chiese; congedarono il ministro Collegno, benchè accettassero poi
nel generale Sobrero un successore egualmente svogliato; protestarono, e quasi
giurarono in nome del magnanimo re, non esser vero che si tramassero armistizii
sul Mincio. Finalmente acconsentirono ad istituire, fuori del ministerio della
guerra, e senza mescolarvi gente del re, un Comitato d'Armamento, che dovesse
avere una diramazione in ognuno dei 127 distretti; e sia per onorevole ammenda,
sia per necessità di prender li uomini dov'erano, vi ammisero alcuni dei più
aperti republicani. E uscivano con un ampolloso piagnisteo a confessare che
"l'inesperienza politica e il fascino della fortuna li potevano aver
condutti in errore; e invocando e pregando pace e concordia cittadina,
chiedevano il consiglio e l'aiuto di tutti i buoni. Pregavano il popolo a
mostrarsi eroico per riflessione, com'era stato per entusiasmo". E
datavano l'era della patria, non più dal 22 marzo, cioè da sè medesimi; ma dal
primo giorno del combattimento, dal giorno del popolo.
Si videro
finalmente partire i nuovi battaglioni; ma in quale stato! Vestiti di tela, con
valigie di tela, con giberne di tela, che non salvavano dalla pioggia le
polveri; i più con berretto; alcuni con cappelli di feltro, di paglia, d'ogni
foggia; alcuni dragoni a cavallo, per lo più senz'elmo; quelli che non avevano
cavallo, si davano il nome di veliti, e andavano alla guerra a piedi. Il
popolo, che le arroganze dei faziosi avevano veramente rivocato dall'entusiasmo
ad austera e sdegnosa riflessione, vedendo pompeggiare ancora per le vie
la carrozze dei grandi, gridava: i cavalli al campo! Quei reggimenti
informi, che parevano alli stipendii del più pitocco popolo del globo, sotto
officiali improvisati, - molti dei quali s'erano procacciati per male strade il
titolo; altri per l’onesta via di liberalità fatta alla patria, ma senza
capacità di condurre i cittadini al tremendo gioco della vita e della morte, -
marciavano in battaglioni slegati, senza cannoni, senza stato- maggiore, senza
ordine di viveri e di carriaggi, senza bandiera; e andavano a mangiare poco
utilmente il pane dei soldati, collocandosi a destra e a manca della linea
piemontese.
Al 13 luglio
l'esercito, che, dopo la presa di Peschiera, sembrava non aver più nessun
disegno di guerra, e rimaner quasi ad aspettar le risoluzioni del nemico,
cominciò ad allungare la sua destra fino alla foce del Mincio. Poi, come se una
linea immobilmente stesa dal monte Baldo al Po, non fosse già in pericolo su
tutti i punti, prese ad attorniare Mantova anche da settentrione e levante. Si
voleva intraprenderne il blocco, ora che i predatori nemico avevano avuto più
di tre mesi per empirla di vittovaglie.
Li Austriaci
avevano già preso animo di passare il Po, e ritentare il ducato di Modena, ove
li scandali della fusione avevano scorato i generosi, e rimesso in
credito i tristi. Perlochè il general Bava, il 17 luglio, si offerse al re di
recarsi a quella volta. Ma mentre stava presso Borgoforte, studiando il luogo
opportuno a fare un ponte, il comandante nemico Lichtenstein si ritirò di qua
del fiume, accampandosi presso Ostilia. Pensò allora il Bava di liberare anche
la foce del Mincio. Fatti pertanto imbarcare celatamente sul Po i bersaglieri
del capitano Lions, s'incamminò egli stesso lungo l'argine con tre battaglioni,
fiancheggiato a poca distanza dal general Trotti con un reggimento. Giunti al
Mincio, intanto che i feritori e cannonieri impedivano al nemico di demolire il
ponte di Governolo, i bersaglieri sbarcarono inaspettati dietro il ponte, e
assalirono alle spalle il nemico; il quale, fuggendo allora verso Mantova, si
trovò sotto i colpi del reggimento che il general Trotti aveva schierato lungo
la destra del Mincio; e fu perseguitato inoltre da tre squadroni di cavalleria
che passarono di corsa il ponte. Furono presi quattrocento Austriaci, con otto
officiali, due cannoni e una bandiera del reggimento Rukavina. Fu quello il
fatto d'armi meglio pensato e più destramente eseguito di tutta la guerra; e fu
l'ultimo raggio della fortuna. Il general Bava, che aveva pure comandato al
passaggio del Mincio in Goito, mostrò in ambo i casi la perizia d'un generale
di brigata; ma non appena era scorsa quella settimana, mostrò pur troppo di non
saperne più oltre. E qui siamo ormai giunti alla battaglia che conchiuse infelicemente
la guerra.
Il 22 luglio,
una moltitudine di nemici, che nel giorno antecedente erasi raccolta nell'alta
valle dell'Adige, assalì alla Corona le brigate Pinarolo e Savona; le quali
difesero per alcune ore quel posto, altretanto forte, quanto isolato e assurdo;
e vista poi la sproporzione del numero, e il pericolo d'essere intercette, si
ritirarono in buon ordine. Anzi strada facendo, il maggiore Danesio con rapida
mossa avviluppò i Tirolesi, e sconcertò tutta la colonna nemica. Sopravenuto
allora Sonnaz col rimanente di Savona, ripigliò la pugna; e quantunque non
avesse ancora se non cinquemila uomini contro dodicimila, riprese Caprino; nel
qual fatto un generale austriaco cadde ucciso. Ma Sonnaz, sospettando forse che
il nemico cedesse non senza insidioso proposito il terreno, deliberò ritirarsi
verso Peschiera.
Infatti,
quella stessa sera, sotto furioso temporale, uscivano tacitamente di Verona
ventiquattro mila Austriaci, indirizzandosi in tre colonne verso il Mincio.
Allo spuntare del 23, non aspettati dai regii i quali non avevano servizio di
cavalleggeri nè d'avamposti, arrivavano appiè dei colli, da Sona fino a Somma
Campagna; e li trovavano difesi da soli sei mila uomini. A Somma Campagna, un
reggimento di Pinarolo e uno di Toscani rimasero oppressi dal torrente nemico,
che continuando l'impeto occupò tutta la catena delle colline. A Sona, ove la
strada era chiusa con riparo bastionato, Savoia e Parma poterono tener fermo
alcune ore. E intanto Sonnaz sollecitava la sua ritirata, quantunque per via
gli cadessero molti uomini, vinti dalla fatica, dal digiuno, dalli ardori. A
notte s'accampò sul poggio di Cavalcaselle inanzi a Peschiera, facendo fronte
verso li Austriaci, che si erano già distesi fino al Mincio.
Al matino del
24 il barone Visconti ch'era in riserva dietro al fiume, e aveva fatto levare i
ponti di Monzambano e Valleggio, tentò contrastare il varco con due soli
cannoni che aveva, e due battaglioni della riserva provisoria "ch'erano in
grave difetto d'istruzione e d'abbigliamento." Ma il nemico, da Saliunce,
spazzò con dieci cannoni la riva, mitragliò un drappello di studenti, mise un
ponte di battelli, tragittò diecimila uomini, occupò Ponti e Monzambano.
Intanto Sonnaz, passava il fiume in Peschiera, e scendeva lungo la riva destra,
per ricongiungersi verso Volta col centro dell'esercito, del quale ignorava le
sorti; perocchè le communicazioni erano affatto intercette, essendo il nemico,
a giorno tardo, disceso dietro i colli ad occupare Valleggio.
Il momento era
supremo; era mestieri che il centro salvasse Valleggio e Volta per riannodarsi
a Visconti e Sonnaz. Ma vi furono due ostacoli; l'uno che il re, incerto de'
suoi pensieri, tenne a mezza giornata un consiglio di guerra che durò cinque
ore; l'altro che la brigata Aosta, la quale era primamente destinata a difender
Valleggio, e poscia a ricuperarlo, si trovava già sul matino "estremamente
stanca, venendo essa fin da Castellaro (al di là di Mantova), dopo una marcia
di tutta la notte; e stava ancora a Mozzecanne; i viveri appena giungevano; ed
importava inoltre evitare le ore calde, che nel giorno prima avevano cagionato
la morte di molti soldati"82.
Non badando a
questo, il re volle far operare subito e isolatamente le altre tre brigate che
teneva presso Villafranca. E non già per ricuperare Valleggio e rannodarsi, e
acquistar tempo all'arrivo del rimanente esercito; ma per riprendere le antiche
sue posizioni di Somma Campagna, che pel momento, e dopo la ritirata di Sonnaz,
nulla importavano. La brigata Guardie si diresse a sinistra, e occupò Monte
Torre; quindi Cuneo in mezzo, prese Cà del Sole; e Piemonte, a destra, potè
allora impadronirsi del castello di Somma Campagna. Si combattè da tre ore fino
a notte; il nemico raccogliendosi dietro i colli; lasciò prigionieri due mila
uomini con quarantotto officiali e una bandiera. Sul terreno pareva una
vittoria, sulla carta era un precipizio.
Al mattino del
25 , si volle continuare il movimento e discendere dai colli verso il Mincio.
Ma i combattenti, per difetto di cibo, non poterono moversi prima di mezzodì.
La brigata Aosta andò finalmente allora verso Valleggio; ma fece duro incontro,
giacchè l'avversario aveva avuto un intero giorno per munirsi e ricever gente.
E anche sui poggi, la linea nemica si faceva sempre più fitta, per l'arrivo dei
rimanenti battaglioni. La brigata Piemonte fu assalita di fianco, minacciata da
tergo. "Il caldo era soffocante; si respirava appena; i nostri soldati
soccombevano alla fatica; il numero dei feriti cresceva smisuratamente. Alle quattro
pomeridiane l'offensiva non era più per noi"; pag. 69.
Rimaneva
speranza che frattanto Sonnaz, venendo da Peschiera, scendesse in riva al
fiume, di fronte a Valleggio, e aiutasse a rimovere l'ostacolo che fendeva in
due l'esercito. Ma egli avendo parimenti stanchi i soldati, mandò un annuncio
di poter giungere solo alle sei. "Si durò qualche tempo in penosa
rassegnazione"; poi non si potè più tener fermo; e fu forza abbandonare i
colli indarno recuperati. Nè ciò solo; ma fu necessario pensare a ritirarsi di
qua dal Mincio, avanti che il nemico vi tragittasse tutte le sue forze.
Bisognava dunque fare un circuito di quindici miglia; cioè, raccogliersi prima
in Villafranca, allontanandosi dal fiume; poi avvicinarvisi di nuovo, e
passarlo a Goito.
È forse che il
re non avesse equipaggi di ponte, come li aveva il nemico, sicchè non potesse
passare, in qualunque luogo, e immantinenti, un fiume di sì mediocre larghezza?
Non lo sappiamo. Ma il male non era in siffatte cose di seconda mano. Il re nel
giorno precedente ponendo la mira, non a Valleggio, ma a Somma Campagna,
all'estrema destra, aveva voluto, con un esercito sorpreso e sconnesso, anzi
con un terzo dell'esercito, assalire di fianco e intercettare le colonne
compatte, uscite allora allora, in ordine di parata, dalle agiate stazioni di
Verona. E così spingendo troppo a destra e troppo poco a sinistra, si
allontanava sempre più dalle rimanenti sue truppe; e si volgeva sempre più
colle spalle verso l'Adige e le fortezze nemiche, ove non vi era per lui luogo
di riposo, nè ritirata verso i suoi paesi, nè base di viveri, d'ospitali e di
communicazioni. Quanto più incalzava quella fallace vittoria, tanto più si
metteva in forza del nemico. Se avesse fatto impeto verso Valleggio, si sarebbe
ricongiunto a Sonnaz; il quale invece di marciare tutto il giorno, avrebbe
potuto ripigliare il combattimento; e uniti avrebbero potuto da Peschiera e
Valleggio stringere ai fianchi il corpo nemico che si era avventurato al di qua
del Mincio. E ad ogni modo, si sarebbero trovati sui colli di Volta, in luoghi
forti, col fiume inanzi, e il lago e Peschiera a sinistra, e Brescia alle
spalle; d'onde si poteva communicare anche colla linea dei volontarii che
faceva riparo verso il Tirolo. Il nemico non avrebbe osato allargarsi gran fatto
sulla pianura; e per soggezione di Peschiera, sarebbe forse tornato a' suoi
quartieri. È vero che la forza del nemico era omai preponderante anche in
campagna aperta; ma era perchè il re aveva voluto, per una falsa politica,
isolarsi. Ora che vedevasi il frutto dei pravi consigli, era il tempo omai
d'ascoltarne altri più savii e più onesti.
La ritirata
sopra Villafranca, non ostante qualche molestia del nemico, fu fatta in buon
ordine la sera stessa del 25. L'esercito era come un uomo che non sente ancora
l'effetto d'una ferita mortale; egli è nella ritirata che siffatti mali si
manifestano e si aggravano. Non si potè pigliar respiro. A mezzanotte si
avviavano già verso Goito i meno affaticati, coi prigionieri, i feriti e li
infelici abitanti di Villafranca. Alle due, tutto il campo era mosso colle sue
salmerìe. Giunto in dodici ore al Mincio, vi s'incontrava col generale Sonnaz;
il quale per un arcano ordine di cui nessuno si riconobbe autore, aveva
lasciato senza contrasto ai nemici il posto di Volta83.
Il re non gli
concesse riposo; gli comandò d'andare a riprender Volta. A qual
prò? Vi giunse a sera, dopo tre ore di marcia; trovò annidati i nemici
nelli orti e nelle case; li assaltò risolutamente con Savoia a sinistra e
Savona a destra; li cacciò di muro in muro da tutta quella terra, combattendo
fino a mezzanotte; molti soldati uscirono dalla mischia colle baionette
infrante; si trovarono i cadaveri di cinquecento nemici. In mezzo alle tenebre
e al fumo del combattimento e delli incendii, Novara cavalleria aveva urtato la
nostra fanteria, e ferito e rovesciato in un fosso Broglia, generale della
divisione. Un officiale tedesco si era avvisato d'ingannare i Savoiardi,
gridando loro: a me, Savoia; e se li aveva condotti fin sotto la
mitraglia; ma fu sterminato con tutti i suoi. Non è a dirsi quante volte li
Austriaci tesero di siffatte insidie; i nostri non mai. Tanto l'esercito di
Radetzki, per la mescolanza delle genti e la crudeltà e perfidia dei generali,
quanto il nostro, per la dappocaggine dei capi e l'ingenuo valore dei
combattenti, ricordarono più volte i primi fatti della guerra cartaginese.
Arrivavano
intanto li altri battaglioni austriaci. Sonnaz, inferiore di forze, abbandonò a
due ora dopo mezzanotte l'inutile acquisto. Senonchè avendo ricevuto in
soccorso la brigata Regina con un reggimento d'Aqui, che giungevano allora
allora dal blocco di Mantova, tornò sull'alba all'assalto. Ma traboccava omai
d'ogni parte, contro quel frammento d'esercito, tutta la mole nemica. Fu
necessità lasciare l'impresa : "Si videro al mattino del 27 a Goito molti fuggiaschi delle brigate Savoia e Regina; si cercò rannodarli; ma fu senza frutto,
perchè tutti protestavano il bisogno di nutrimento; e noi eravamo privi di
viveri"84.
Il giorno 27
era già il sesto, dacchè i singoli corpi dell'esercito accorrevano dalle
sparse loro stazioni, secondo le varie distanze a frangersi senz'arte contro la
moltitudine serrata, che procedendo colla lenta continuità d'una lava, aveva
potuto venire dall'Adige fino a Volta. Solamente quella mattina erano giunte
sul campo le brigate Aqui e Regina; e non era ancor giunta la brigata Casale,
che coi battaglioni lombardi e altri corpi era al vano blocco di Mantova. In
quell'immensa confusione, i soldati passavano a poco intervallo dai magazzini,
e non lo sapevano, nè potevano averne ristoro; i convogli giacevano privi di
scorta, e talora di carrettieri e di cavalli; i feriti non trovavano le
ambulanze; le batterie non trovavano la munizione. L'esercito si scioglieva. I
generali, conoscendosi pur troppo fra loro, non si fidavano; facevano da sè,
immoralmente, come avevano imparato dal loro capo. Aix di Sommariva colla
brigata Aosta, e De Ferrère colle brigate Casale e Aqui, ch'erano le più intere
e fresche, sia per ordini arcani, sia per turpe infedeltà, lasciarono le altre
in faccia al nemico, e se ne andarono all'opposta riva dell'Ollio. A sera, il
re passò in rassegna il rimanente; verso mezzanotte, levò il campo; e in tre
colonne si avviò verso Cremona.
Il 28 si
fecero dodici ore di marcia; molti cadevano spossati sulla strada; la terza
divisione, giunta all'Ollio, e udito nuovamente il cannone, cominciava a
disfarsi. Ma li officiali di Savoia, raccolti li uomini intorno alle insegne,
li esortavano a non abbandonarle; li schierarono in quadro dietro il fiume;
trassero a sè col forte esempio l'artiglieria e la cavalleria; imposero
rispetto al nemico; serenarono presso Piàdena. Frattanto interi battaglioni,
nella funesta persuasione della sfortuna e della mala direzione, e nella
licenza delle marce notturne, gettavano armi e valigie, e si spargevano per le
strade a sgomento e confusione dei popoli.
I generali,
chiamati a consiglio, deliberarono d'aprire al nemico tutta la loro sventura, e
chiedergli che sospendesse il corso della vittoria, e concedesse loro di
ritirarsi in pace. "Volevano, dicono essi, pur con qualche condizione
onerosa, aver tempo di riposare le truppe, e riordinare un servigio di viveri
più regolare e più esatto"85. Erano le ragioni per le quali
Radetzki, alla volta sua, aveva pur chiesto armistizio ai Milanesi; e per le
medesime ragioni ora doveva negarlo. Andarono a quel miserabile officio i
generali Bes e Rossi e il colonnello Della Marmora. Dicono i generali che il
nemico dimandasse d'occupare tutto il paese sino all'Adda; e ch'essi riputarono
cosa esorbitante. E cominciarono tosto una ritirata, la quale poi non finì
all'Adda, nè al Po; ma giunse senz'altra battaglia sino al Ticino; e diede in
conquista al nemico anche il paese che non era mai stato suo, sino alli
Appennini di Toscana. Ciò che segue non appartiene più al capitolo della
guerra.
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