XII
La consegna.
Difendere
Milano contro un nemico soprastante già di numero, e animato dalla vittoria,
difenderla col solo esercito, con un esercito che sfiduciato del suo capitano
cominciava a dissolversi, non era sperabile. Associare alla difesa in modo
efficace li abitanti non si poteva, senza rimovere dalla somma delle cose i pedissequi
e i facendieri. Era duopo conciliare e richiamare d'ogni parte li uomini
liberi: lasciandoli parlare il linguaggio loro ai cittadini, e se accadeva,
anche ai soldati; insomma era mestieri evocare in mezzo all'esercito lo spettro
della forza popolare. Il re non lo poteva; doveva piuttosto piegar le sue
tende, e rientrare vinto e taciturno nella sua reggia.
Ma non poteva
dunque chiamare in campo qualche alleato?
Chi erasi
millantato forte, e aveva palesato la libidine di farsi a spese delli amici fortissimo,
chi aveva offesi, ripulsi, insidiati li altri principi d'Italia, non aveva più
adito a dimandarli; e altronde le forze della Toscana erano limitate; male in
sesto ancora quelle di Roma, e già lasciate patteggiare col nemico; Napoli era
lontana, e dopo il furto di Parma e della Sicilia apertamente nemica; la Sicilia appena bastava a sè medesima.
Chi ha tempo
non aspetti tempo; anche l'aiuto francese era divenuto malagevole. Alle
generose professioni del 24 febraio era seguita la feroce reazione del 24
giugno. Pure ogni speranza non era tolta. Ma porsi ginocchione innanzi al
popolo francese nel primo momento dell'infortunio, dopo averlo superbamente
disdegnato fra gli orgogli della prosperità, non era da re. Altra cosa era
avere invitato con militare ingenuità, a nome d'un popolo, un altro popolo a
partecipare nei pericoli e nelle speranze della guerra contro il commune
nemico; altra cosa era, dopo breve jattanza, tendere la mano supplichevole alle
ginocchia del forte. Era un umiliarsi, come i tetrarchi dell'Asia innanzi al
popolo romano; era un infeudare la monarchia alla republica. A tali strette,
conveniva prostituirla piuttosto all'imperio austriaco, il quale era almeno un
essere della medesima natura. S'era re il vinto, era re anche il vincitore; il
principio della regia supereminenza e maestà non era messo appiedi d'una plebe.
Coll'Austria
si poteva rifare amicizia, già tante volte in tanti secoli rotta, e sempre
racconciata. Poteva avere a merito l'aver guasto e storpiato una ribellione;
l'averla rattenuta e inceppata tra le fortezze dell'Adige, quando agitava già
la sua face nelle valli tirolesi, e dalla Ponteba tendeva la mano alli Ungari
frementi. Infine che cosa aveva tolto all'Austria Carlo Alberto? Le aveva tolto
Peschiera. Ma l'aveva più o meno aiutata, o lasciata fare, a Udine, a Belluno,
a Palma, in Cadore, in Tirolo, a Treviso, a Curtatone, a Verona, a Vicenza; e
ora poteva renderle ogni cosa perduta. E non ostante la vittoria, l'Austria,
per ristaurarsi in Milano prontamente e prima che altro nascesse, aveva
necessità dell'opera di lui, e doveva essergli ben grata.
Infatti, se
Milano fosse apertamente abbandonata dal re, appunto nel terrore della vendetta
nemica e dell'inevitabile vituperio, poteva attingere la forza d'una magnanima disperazione.
Infine l'esercito che veniva ad assalirla, battaglione più, battaglione meno,
era il medesimo ch'ella aveva quattro mesi inanzi vomitato fuori dalle sue
mura. Se aveva potuto conquiderlo allora, quando era padrone delle piazze e
delle porte, e la fulminava dal castello e dal duomo, ed ella era senz'armi e
senza capitani, non poteva soggiacergli senza contrasto ora, che i suoi
cittadini s'erano armati e ammaestrati, ora, che lo straniero cominciava il
combattimento fuori delle mura, tra un labirinto di fosse e di prati aquidosi,
al sole e alle febri d'agosto. Il popolo aveva solo a imaginarsi, che il dì del
ritorno dei nemici altro non era che il sesto giorno del primiero
combattimento. L'intervallo dei quattro mesi si era lasciato al re, perchè vi
facesse le sue prove. Adesso, che si era dimostrato quanto valesse il regio
fantasma, il popolo riposato e armato poteva cominciare da capo un'altra delle
sue settimane.
Per armarsi
non era necessità, come nei cinque giorni, svellere i fucili di mano al nemico.
V'erano 28 mila soldati, in gran parte veterani, ammaestrati dal nemico stesso,
buoni per lo meno quanto l'altra sua gente. Vi erano quattordicimila volontarii
e studenti, che avevano già durato più mesi ai pericoli e ai disagi; l'esser
chiamati a difendere una città doveva parer loro un riposo. Tutta la montagna
era libera, e dietro i monti la Svizzera e la Francia; Venezia era nostra; e per salvare Milano combattente, nessuna delle città vicine
avrebbe negato un drappello d'ausiliarii; e per poco che si tenesse fermo, si
poteva ricevere qualche maggiore e più militare aiuto. E il popolo poteva
sperarlo, perchè combattendo aveva diritto a dimandarlo; e forse la speranza
sola del soccorso gli avrebbe dato forza di vincere; poichè la prima forza è nell'animo.
A nome del popolo si poteva dimandare alla Svizzera quello stesso esercito
ch'era pronto per noi in aprile. Nè le ricchezze della Lombardia erano in
quattro mesi consunte, sicchè non si potesse stipendiarlo generosamente.
Bastava che non fossero al timone li avari e i loro facendieri; bastava
l'imminente pericolo. I cinquanta millioni che il ladrone nemico potè tosto
emungere ai vinti, non sarebbero mancati ai combattenti e ai vittoriosi.
Ma poteva il
re soffrire che tuttociò avvenisse? Che avrebbe detto il mondo, se quando egli
co'suoi soldati fuggiva, si fossero veduti i cittadini farsi intrepidi e
affrontare il nemico? Io credo anzi che Piemontesi e Savoiardi, quando pure si
fosse voluto ricondurli alle case loro, al primo suono del cannone sarebbero
tornati a turbe sotto le nostre mura, anche senza i generali e senza il re.
Poniamo che il
nostro popolo fosse stato vinto, e la città sconvolta dalle mine, saccheggiata
e arsa; qual grido di maledizione non si sarebbe levato contro il re seduttore
che avesse potuto farsi da canto e rimirare in ozio quella ruina! Poniamo al
contrario che il popolo avesse avuto costanza e fortuna; che avesse potuto
tenere le orde straniere a marcire quindici o venti giorni nel fango delle
inondate vicinanze; che avesse fatta qualche notturno assalto di baionette ai
quartieri nemici; insomma, ripreso e continuato col primiero animo il
combattimento di marzo. Poichè qui non si parla di cose strane e impossibili.
Doveva il re lasciare alla causa popolare siffatto trionfo? concederle un
esperimento così splendido della sua potenza? La causa del regno era perduta e
scornata.
Ma si ponga
pure che il popolo avesse rinovato il sacro patto di guerra vinta, anzi,
che a guerra vinta il voto dei più fosse stato d'inalzare in Milano un trono,
non si sarebbe potuto, per fermo, più assumervi il re disertore. E sarebbe
stato mestieri cercare in altro sangue il re della nuova Italia; e il re dei
vittoriosi sarebbe stato al vinto Carlo Alberto un vicino ben più molesto d'una
republica. Genova avrebbe voluto esser sua; sarebbe stato mestieri restituire
alla corona ferrea tutte le prische gemme. Perocchè la via del Sempione è
fattura nostra; la Lomellina è nostro patrimonio; Alessandria è un monumento
della nostra libertà.
Diciamo dunque
che il re nè poteva più difender Milano col solo esercito suo; nè poteva
sinceramente ed efficacemente associarsi il popolo: nè poteva invocare alleati;
nè finalmente ritirarsi dalla guerra se il nostro popolo avesse perseverato a
combattere; perocchè sarebbe stata ignominia lasciarlo perire; e sarebbe stata
dappocaggine lasciarlo vincere da sè, sia poi ch'egli si avesse a costituire in
republica, ovvero in regno.
Insomma: o la
casa di Savoia, o da capo la casa d'Austria.
Così è; non si
doveva lasciare intervallo di luogo o di tempo tra Carlo Alberto e Radetzki. I
soldati del re non dovevano essere più d'una tappa lontano da quelli del
maresciallo. E in Milano non dovevano uscire di Porta Vercellina, se il nemico
no era messo in potere di Porta Romana!
Tale era il
quesito da sciogliersi; vediamo a parte a parte come fu sciolto.
La prima cosa
da farsi era fomentare quanto più lungamente si potesse una falsa sicurtà,
affinchè i cittadini non avessero tempo da raccapezzarsi, nè aprirsi altra via
di salvamento. Il nemico era pericolosamente vicino; la distanza da Peschiera a
Milano si stima d'80 miglia. Il general Salasco fece bandire altamente la
vittoria del re. I diecimila nemici che avevano sforzato a cannonate il passo
del Mincio, la mattina del 24, prima che la battaglia del re cominciasse, erano
al suo dire, "una banda dispersa; i battaglioni di Monzambano non
durerebbero fatica a impadronirsi anche di quei pochi fuggiaschi;
l'importante era d'aver distaccato da Verona il corpo di Radetzki; a
dimani lo sconfiggerlo e farlo prigioniero!"
Nel giorno
stesso che i generali comparivano inanzi a Radetzki a supplicarlo
dell'armistizio, si publicava alla sera a Milano : "l'esercito conserva la
sua numerica superiorità; un esercito di 60 mila combattenti deve ispirare una
gran fiducia." Ancora la sera seguente si publicava che l'esercito
"era schierato a Goito, in perfetto ordine di battaglia". Un
maggiore, mandato a Peschiera dal campo dei volontarii, per avverare le tristi
apparenze che si scorgevano dall'una all'altra riva del lago di Garda, giunse
"nel momento, egli scrive, che un corriere del campo apportava in
Peschiera la falsa novella della presa di Mantova e dell'entrata del duca di
Genova in Verona. Il comandante di piazza mi fece arrestare, e il generale
comandò di sorvegliarmi. La verità penetrò infine; ma non per questo si dimise
il proposito d'ingannare i popoli e tradire i volontarii. Era fra questi una
voce: a Milano, a Milano! Ma quell'ardore, anzichè fomentato, venne represso.
Si ripeteva, ancora e sempre, che l'esercito regio basterebbe a tutto;
che li Austriaci sarebbero ben presto in ritirata; che i volontarii dovevano
attenderli al varco, al ritorno, e annientarne le
reliquie.86"
Dalla presunzione
della vittoria si volle che il popolo di repente piombasse nell'avvilimento
della disfatta; poichè, prima di udirla, ebbe, per così dire, a vederla nelle
turbe di soldati fuggiaschi, che vennero con perfido consiglio sospinti verso
Milano. E senza necessità e senza verun pudor militare, attraversavanla da un
capo all'altro, scalzi, scollati, laceri, col capo involto in luridi
fazzoletti, con visi scarni e febrili, fra lo stupore e lo sgomento del popolo,
non senza pietà veramente, ma eziandío non senza sdegno dell'improviso
disinganno.
E qui abbiamo
diritto ad affermare che non si poteva dirigere a quella volta la ritirata se
non per un malvagio proposito.
In truppe
sbandate il disordine cresce ad ogni marcia, e peggio se di notte; i vigorosi si
dilungano sempre più dei deboli e dei pigri; le compagnie si mischiano, i
capitani perdono ogni autorità, i soggetti ogni rossore; si fanno accattoni; la
fame, la sete, le ferite, le miserie tutte non riparate si aggravano. I
disordinati si potevano, fin dal giorno 27, rattenere ai ponti dell'Ollio; e
colla promessa del cibo e del ristoro, e colla forza dei gendarmi e delle
guardie nazionali che dovevasi tener pronte e indettate a siffatti servigii, si
potevano raccogliere in Casalmaggiore e Cremona, tragittare subito oltre Po, e
ricoverare in Parma e Piacenza, ove avrebbero trovato un'ospitalità non esausta
nè stanca, essendo quei paesi ancora intatti, ed essendo, pel riparo del Po,
meno aperti allo spavento ed alla confusione. Fermata la marcia, aveva confine
il disordine, anzi non avrebbe avuto campo a nascere.
Ancora al
ponte di Pizzighettone, si poteva rivolgere li sbandati verso la vicina
Piacenza; d'onde dietro al Po era breve, tranquillo e quasi secreto il
passaggio in Alessandria. Da Pizzighettone al confine sardo, per Piacenza è una
ventina di miglia; per Milano sono sessanta. E parimenti dal ponte di Lodi al
confine sardo, per Pavia sono venti miglia di buona e diritta strada, per
Milano sono quaranta. I perfidi generali preferirono la strada più lunga, e
dove lo scandalo e lo sgomento potesse farsi maggiore.
All'Ollio non
si fece resistenza. Se ne scusa il general Bava, e dice : "mancando il
fiume d'aqua, a motivo della stagione, resta mal difeso e pericoloso per coloro
che occupano la riva destra, trovandosi l'Ollio quasi parallelo al Po, e per
conseguenza esponendo i suoi difensori ad essere rinserrati da un movimento
offensivo nel passaggio dell'alto Ollio. - Credetti conveniente partito il
proporre a Sua Maestà di portarsi sulla linea dell'Adda"; pag. 81.
Sappiamo già
quanto i generali del re valessero in geografia militare. Tuttavia se avessero
solamente messo l'occhio nelle nostre Notizie naturali e civili sulla
Lombardia, vi avrebbero trovato che la mancanza d'aque nell'Ollio a quella
stagione è artificiale e volontaria, poichè vengono rivolte tutte nelle
irrigazioni. Ora, niente più facile, col buon volere e l'interesse di quei
generosi popoli, ostruire pel momento li incili delli aquedutti, o rompere le
pescaie, e lasciare al fiume tutta l'aqua irrigatoria. E fa una massa veramente
enorme, essendo di 1800 e più once, ossia di 4600 metri cubici ogni minuto. Perlochè, senza considerare quella che rimane sempre nel fiume,
è già superiore alla massa d'aque che in quella medesima stagione ha la Senna in Parigi. E chi è quel general francese, che in qualsiasi stagione dell'anno, si
scuserebbe affatto di difendere il passo della Senna, per mancanza d'aqua?
Dai calcoli
dell'idraulico Lombardini su tutti i fiumi tributarj del Po, registrati nelle medesime
Notizie (Prospetto XI, p. 209), appare che l'importanza dell'Ollio a
Canneto, ov'era a farsi l'accampamento trincerato, è ancora assai maggiore,
anzi più che doppia, di quella del Mincio a Peschiera, stando fra loro i
due moduli idraulici come 136 a 67. È all'incirca la medesima di quella del Po
a Torino, ch'è come 139.
L'Ollio e li
altri nostri fiumi che provengono dai grandi laghi alpini, hanno più aque
appunto nella stagione estiva, cioè da mezzo maggio a mezzo novembre. È vero
che parte delli aquedutti era sulla sinistra del fiume, verso il nemico; ma
anche da quella riva i più considerevoli si diramano all'alto, presso il lago
d'Iseo, dietro Brescia e i monti della Francia Curta, entro profondo
avvallamento, insomma in luoghi ove il nemico non avrebbe potuto stabilirsi
così tosto, nè così tranquillamente, da intraprendere siffatti lavori. I
generali, in quattro mesi di tempo, e principalmente dopo l'incursione del
Daspre a Mèdole, dovevano pensare a simili casi; e consultare i periti del paese,
e preordinare la difesa con movimenti d'aque e di terre, e mine e batterie ai
ponti, e adunate di popolo armato sotto capi militari, e qualche polso di
truppe stanziali. Ma se un uomo savio avesse mai detto, una settimana inanzi,
che giovava fare anche qualche provedimento pel possibile caso d'una sconfitta,
avrebbe mostrato di non fidare ciecamente nella spada d'Italia, e sarebbesi
gridato settario dell'Austria. Così tutto quell'edificio diroccò, perchè posto
sovra malvagio fondamento d'imprevidenza, d'arroganza e di soperchieria.
Nè vale
parimenti l'asserire che la giacitura del fiume, nella sua parte bassa e
navigabile e quasi parallela al Po, esponesse così facilmente i difensori ad
essere intercettati nella parte superiore. Poichè per raggiungere
questa parte superiore, cioè Pontevico e Chiari, il nemico doveva prima
attraversare tutta la provincia di Brescia, lasciarsi alle spalle Peschiera e
Brescia medesima, ovvero forzarle; il che non avrebbe fatto senza tempo e
sangue. Brescia ha mura e un castello, e quarantamila abitanti, e i colli
intorno sarebbero stati difesi, come altre volte, dai valorosi suoi valligiani,
e questa volta anche dai volontarii ch'erano da lungo tempo in quei monti. E in
quei medesimi giorni, oltreciò, la trovai difesa da cinquemila uomini e
diecisette cannoni, appieno tranquilla, quando il nemico era già in Cremona e
in Lodi. Poteva difendersi come Vicenza e meglio.
Non si può
facilmente credere che, se il re si fosse trincerato risolutamente sul basso
Ollio, e non avesse lasciato partire, o fatto partire, le brigate fresche di De
Ferrère e Sommariva, e avesse chiamato a Gavardo e a Brescia quanti armati
avevano i Bresciani, e a Sàrnico e Bergamo i Bergamaschi, e i Comaschi a
Pontida, il nemico avrebbe avuto animo di passar così fidamente l'alto Ollio e
l'Adda. Perocchè in quei luoghi è agevole far contrasto, per l'altezza
generalmente superiore della riva destra, attesochè da fiume a fiume il piano
del Po discende sempre d'uno scaglione verso l'Adriatico. Un piccolo corpo regolare
con forte proporzione di cavalli e d'artiglieria leggere, qua e là
compeggiando, avrebbe dato grande animo ai popoli di difendere tenacemente le
città, i ponti, i boschi.
Accampato il
re sul ponte del basso Ollio col suo gran parco d'artiglieria, non aveva
solamente l'appoggio d'un fiume navigabile, ma parallelamente a quello e al Po
aveva la Delmona e li altri profondi canali di scolo del Cremonese. Poteva
valersi delle alte e continue linee delli argini per le communicazioni e le
stazioni dei popoli armati; e con poche opere poteva spargersi intorno vaste
inondazioni; fra le quali il nemico non poteva più aprirsi il passo con
l'equipaggio di ponte, nè dirigersi colle solite carte. E infine Cremona
medesima, divenuta testa di ponte, si poteva anche senz'esercito difendere
assai più che Vicenza e Treviso, perchè bastionata, e non dominata da poggi;
perchè ricinta di fossi, di paludi, di rive selvose, e fiancheggiate da
Pizzighettone e dalla foce dell'Adda; perchè infine popolata d'uomini risoluti,
ai quali si sarebbero tosto aggiunte turbe d'amici da Parma, da Piacenza, da
tutto l'Apennino. In paragone alle città dell'Europa settentrionale, le nostre
per la solida loro struttura possono tutte valere momentaneamente per fortezze.
Un esercito
può sempre difendere a palmo a palmo il terreno, quando è circondato dal favore
dei popoli, e sicuro della ritirata dietro un gran fiume come il Po. Nè il
nemico, per passione che potesse avere di mostrarsi ancora sotto i bastioni di
Milano, avrebbe osato allontanarsi cento miglia da Verona, lasciandosi a tergo
l'esercito del re, e i volontarii della frontiera tirolese, e i ventimila
uomini del presidio di Venezia, e a destra Peschiera e Brescia e i suoi monti,
e a sinistra l'Ollio e Cremona. Il piano tra Peschiera e l'Ollio è largo appena
una ventina di miglia, e poteva da ambe le parti in una breve marcia essere
intercetto, essendo pieno d'ostacoli, che la guerra di popolo doveva rendere
più formidabili e numerosi. Ed è strano che li officiali d'un esercito, che non
fece tentativo alcuno di difesa, riconoscano ch'era une des contrées de
l'Europe la plus facile a défendre87; e ciò per i molti fiumi, e li
infiniti canali, e le dense piantagioni, che intoppano ad ogni passo i cannoni,
e non lasciano spazio libero alla cavalleria.
Sono
moltissimi i casi, nei quali il generale in capo si lagna di non aver potuto
operare, o perchè "il suolo folto di piante non lasciava vedere al di là
di cinquanta passi"; o perchè il terreno "ovunque sfondato, e i molti
fossi che dividono i poderi erano pieni d'aque, e non restava communicazione
possibile fra le truppe, tranne la sola strada". Le quali cose abbiamo
caro a ripetere, perchè se mostrano ciò che quei dappoco non fecero, mostrano
anche ciò che capitani d'altra scuola potrebber fare. Ma siffatti impedimenti
si consideravano dai generali del re, sempre e solamente, per non andare
inanzi; e non mai per tenere indietro il nemico. Nè mai pensarono in alcun caso
a imitare ciò che il nemico aveva fatto in quattro giorni di lavoro, dopo il
combattimento di Curtatone, per chiudere loro quell'identica via di Cremona. Nè
infine considerarono mai la micidiale persecuzione che avrebbe fatta ai nemici
il popolo, se una mano fedele, con ordine premeditato, l'avesse diretto a
stancheggiarli, isolarli, e tribolarli d'ogni parte.
Come mai si
osa affermare che una battaglia per difendere Milano sarebbe stata sans antécédent
militaire? Tutta la pianura intorno a Milano, da Mantova sin oltre
Alessandria, è una serie di campi di battaglia. Quivi sono le vestigia di
Napoleone, di Souvaroff, di Joubert, d'Eugenio di Savoia, del re Francesco, di
Baiardo, di Trivulzio, di Gaston de Foix, di Prospero Colonna, di Francesco
Sforza, di Barbarossa, di Carlomagno, e perfino d'Ottone e Vitellio, d'Annibale
e Scipione, di Marcello e Viridomaro. - Milano si difese contro i Romani;
contro i Goti; vinse a Legnano i Tedeschi di Federico I; a Cassano i Saraceni
di Federico II; a Parabiago la cavalleria francese; a Bicocca la fanteria
svizzera. Marignano, Pavia e Lodi sono nomi noti a tutti i popoli. - Non
sappiamo se in un officiale sia peggio ignorare l'istoria dell'arte sua, o
negarla.
Insomma nulla
era perduto per la causa nazionale, perchè si fosse perduto il monte di Rivoli
o il poggio di Volta. Nè si trattava di vincere battaglie campali, ma sì
d'indugiare il nemico e acquistar tempo. E il buon senso naturale mise allora
nell'animo di tutti il medesimo pensiero, di difendersi quanto si poteva, e
frattanto far publica chiamata al popolo francese. Ma il re, nemico più al nome
republicano che non a suoi parenti d'Austria, appunto non lo fece; e finse
gesuiticamente di farlo, mandando in Francia il Ricci, per mera mostra; anzi
peggio. Poichè, come afferma il colonnello Ludovico Frapolli, era all'intento,
"non già d'operare di concerto con noi, ma bensì d'addormentarci, e
procrastinando impedire ogni risoluzione del governo republicano". E
affinchè i cittadini per avventura non facessero la dimanda da sè, fece dire
dal governo provisorio, il 31 luglio, che "a rinforzare l'esercito
italiano si aveva lusinga che presto giungesse l'aiuto francese, stato
formalmente dimandato dal ministerio piemontese e dal governo provisorio di
Lombardìa". Quanto al ministerio piemontese, era un'impostura; poichè
anzi, come narra Frapolli, "la demenza delle camarilla s'accrebbe verso la
fine di luglio al punto di far intendere alla Francia, che, se il generale
Oudinot non sapesse rattenere i suoi soldati, sarebbero ricevuti a cannonate
al Forte Damian, vantandosi che il re teneva a tal uopo da cinque a sei mila
uomini nelle gole del Moncenisio!". Quanto al governo provisorio, fu
infatti inviato a Parigi anche il marchese Guerrieri, uno de' suoi membri; e si
lasciò per qualche tempo tenere a bada dal Ricci; finchè incalzato dalli altri
Italiani che là erano, e che sapevano dal ministro Bastide che non si era fatto
nulla, ne mosse particolare dimanda a nome nostro; ma tardi, poichè il re aveva
già consegnata Milano al nemico; era già il nefasto giorno 6 d'agosto. E li
altri Italiani, in una separata dimanda che fecero al generale Cavaignac in
quel medesimo giorno, si lagnarono che il Ricci "esitasse ancora a
dimandare l'immediato intervento". Solo il dimani, quando già il telegrafo
indicava a Parigi inevitabile la resa di Milano, il marchese Brignole presentò
un dispaccio da Torino, che chiedeva il soccorso della Francia. Gli si diede la
risposta omai solita a mandarsi ai re: troppo tardi.
Afferma il
Frapolli che il governo francese nei primi tempi era veramente desideroso
d'essere chiamato in soccorso della nazionalità italica; e anche dopo
che si palesò l'impotenza del re, non vi si rifiutava; se non chè dovendo
attraversare il suo territorio, non voleva farlo senza di lui consentimento. Ma
il re non volle accettare l'esercito francese altrimenti che come suo proprio
alleato. Il che gli si negò, con queste memorabili parole: "finchè si
tratta di combattere insieme ai soldati piemontesi, ancora siamo pronti. Ma
marciare per l'interesse del re di Sardegna, avviluppare il vessillo della republica
francese con quello di Savoia, no mai!"88.
Appena la
ritirata dell'esercito fu popolarmente nota, ci presentammo al governo,
dimandando che istituisse un magistrato dittatorio per difendere la città.
Casati era a Torino; Borromeo voleva schermirsi; gli dissi, che se lo facesse
immantinenti, avrebbe la nostra gratitudine; e se non lo facesse, i cittadini
provederebbero da sè, poichè la città per rispetti umani non doveva cadere in
mano ai nemici. Il governo promise, ma temporeggiò in quella suprema urgenza un
giorno intero; nominò infine il general Fanti, il dottor Maestri e l'avvocato
Restelli. Erano uomini valenti e onesti, e amatori più o meno aperti di
libertà; anzi pare che due di essi fossero proposti dal Mazzini; ma il popolo
non aveva avuto campo a conoscerli. Fanti era venuto allora di Spagna, e non
era forse mai stato in Milano. Infine il comitato di difesa non era supremo e
dittatorio. Nè il governo si dimise; nè seppe sciogliere almeno sè medesimo
dalle reti del re. Quando il comitato mi richiese cortesemente dell'opera mia,
gli scrissi che si facesse publicamente riconoscere dittatore e padrone. Non
accettò il consiglio, e fu cosa fatale.
Anzi chè
concentrare le forze e accelerarle, i facendieri le allentavano e stemperavano,
adunando a verbose e molli consultazioni gente d'ogni colore, e di vario anzi
contrario proponimento. Invitato e sollecitato da Restelli, mi recai, non mi
ricorda se il 29 o il 30, a un'adunanza nel palazzo Marino; vi trovai uno o due
generali del re, credo Sobrero, poi Mazzini, e il general Zucchi, e Garibaldi
in tunica scarlatta, il conte Arese, il poeta Berchet, Filippo de Boni e non so
quanti altri contraposti. In quella ch'io entrava a crescere quello strano
miscuglio, si stava conchiudendo che si dovesse in primo luogo
determinare le cose da farsi per difendere la città; e in secondo luogo
le facoltà dittatorie da conferirsi al comitato di difesa testè eletto. Il
primo punto dava materia senza fine; ed era un porre il carro inanzi ai buoi;
poichè la dittatura era l'atto preliminare che doveva dare a tutti li altri
vigore, ardimento e velocità, e ove fosse necessario, secretezza. Era chiaro
che al punto della dittatura non si voleva venire; e che i generali del re si
mescolavano con noi, solo per far credere in città che si facesse a consiglio
nostro. Perlochè dopo tre minuti, senza aver detto parola, nè fattomi scorgere,
quetamente me ne andai. Se ne accorse De Boni, e mi seguì per farmi rimanere;
poichè quei buoni republicani parevano già contenti di vedersi solamente
trattati con un pò di cortesia. Ma io gli dissi che la prima misura di salvezza
era di mandar tutti i generali del re al campo, ov'era abbastanza da fare;
senza ciò avrebbero continuato a sventare ogni sforzo dei cittadini; ma mi
pareva inutile il dirlo, finchè nessuno aveva il potere di farlo; e il potere
non si sarebbe conferito, poichè li stessi membri del comitato non volevano
intendere l'apertissima necessità d'averlo, e d'esigerlo, o anco di prenderlo
da sè stessi, appellandosi al popolo.
Pare che il
Fava avesse avuto sentore della malvagia intenzione colla quale il re veniva a
Milano; e che per vanità del secreto di Stato, se ne lasciasse sfuggir di bocca
qualche cenno; ma chi lo intese, n'ebbe serio spavento; e ne parlò a un capo
della guardia nazionale, che andò tosto a farne parola al conte Arese, collega
del Fava medesimo nel consesso supremo di polizia. Dall'Arese fu mandato con
viglietto all'altro collega Litta Modignani, il quale fece chiamar tosto il
Fava. Ma questi con facezia veneta facilmente tranquillò il collega e li altri
astanti. Era strano assai che il consesso il quale "doveva scoprire le
corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni nemici", fosse
per fare la sua prima e unica scoperta nella persona del suo presidente
e del suo re! I popoli che vogliono esser liberi, non devono soffrire altra
polizia che l'assoluta libertà della parola e della stampa, e la scelta
popolare ed elettiva di tutti i magistrati. Allora non si possono più tessere
vasti tradimenti.
Pare eziandío
che il Fava avesse incarico di disporre che in qualche repentino impeto di
popolo non si facesse ricapito a persona che attraversasse i disegni del re; e
sembra che mirasse primamente a quelli che come membri del consiglio di guerra
si erano mostrati contrarii alli armistizii e alle dedizioni. Aveva fatto
arrestare già due volte Cernuschi, e una volta Terzaghi; e sempre inutilmente.
La mattina del 1 agosto fece arrestare Giambattista Frattini, uomo affatto
estranio alla politica, assai probo e assai conosciuto in commercio; il quale
veniva sovente da me per un'impresa che si stava concernendo con banchieri
svizzeri per migliorare la navigazione del Ticino. Mi recai tosto al comitato
di difesa per farlo liberare, e per mostrar loro la necessità di abolire
immantinente quell'officio di Sicurezza, fucina regia di diffamazione,
di discordia e di confusione; mi recai anche dal Fava e lo svergognai
bruttamente in mezzo a suoi aiutanti; ottenni almeno che nel frangente che poi
venne, quelli scioperati non ebbero adito a fare altro maggior danno.
All'officio poi di Santa Margarita venni a sapere che quell'arresto erasi fatto
per delazione suggerita al mio domestico; e sotto titolo che Frattini avesse
tenuto il giorno prima, con me, in casa mia, discorsi contrarii al governo.
Avevano a tal uopo ubriacato nella notte e regalato il mio domestico; poi
l'avevano arrolato in un reggimento, cosicchè tornò a casa solo al mattino e
per congedarsi; e fu egli medesimo poi che appostò il Frattini e lo additò a
chi doveva arrestarlo. Così si preparava l'insidia per me; strana sorte, se mi
fossi trovato chiuso a chiave in Castello da quei satelliti, il dì dell'arrivo
di Radetzki!
Il comitato di
difesa tentò in quel precipizio di far quanto poteva; dimandò un prestito
forzato di 14 millioni alle famiglie agiate; chiamò alle armi tutti li uomini
dai 18 anni ai 40; mobilizzò cento uomini per ogni battaglione di guardia
nazionale; adottò uno studio fatto già dal mio amico ingegnere Filippo Bignami
per la difesa dell'Adda; si fece progettare altre fortificazioni per la
campagna e per la città di Milano; ma non pensò a incendiare e minare il
Castello. Chiamò la leva in massa del paese fra l'Adda e il Ticino, ordinandola
per communi, e destinando a lavorare quelli ch'erano proveduti solo di
strumenti, e a respingere il nemico quelli che avevano armi. Ma il re non volle
destinare alcun corpo di soldati, intorno a cui questa povera gente potesse
rannodarsi, e spargere con maggior frutto il suo sangue. La volle lasciar sola
lungo la parte superiore dell'Adda, dicendo ch'egli voleva difendere la parte
inferiore; il che poi non fece.
Ordinò il
comitato che dalla provincia si apportassero subito in Milano ventimila sacchi
di frumento. Ma senza ciò, v'erano in Milano ammassi bastevoli ad alimentare
per più d'un mese tutta la popolazione, se vi fosse rimasa. Attestò infatti
Pietro Molossi, capo del magistrato d'annona e uomo integerrimo, che v'erano a
notizia sua 4500 sacchi di riso, 12400 di frumento e farina, 6500 di grano
turco, vino per tre mesi, altre derrate per tempo assai maggiore. Imagazzini di
viveri erano muniti chi per 20 giorni, chi per 30; e da ultimo il timore delle
nemiche rapine fece entrare in città tanti generi.e oltre alle solite masse del
fieno di maggio per l’intera annata, altro in gran copia vi era entrato in quei
giorni, perché il Comitato levò la gabella. Inoltre molte famiglie, già
deliberate a sostenere un ‘assedio, s’erano raccolte in casa quanto bastasse
per loro, e alcuni anche per li improvidi congiunti e amici. Infine era
impossibile che il nemico potesseavvolgere tosto in efficace blocco una città
sì vasta, in un terreno frastagliato da tante piantagioni, tanti canali, al
cospetto di un esercito che aveva sei reggimenti di Cavalleria, e fra tanto
popolo armato, senza esporre i suoi posti ad essere da fronte e da tergo, e
tagliati a pezzi. Quanto alle munizioni da guerra, senza comprendere ciò che
l’esercito aveva seco, e ciò che poteva aver tosto dalla vicina Alessandria,
tutti i quartieri delle guardie Nazionali, i quali erano più di venti, erano
provisti a dovizia. Ho testimonianza scritta che per quelle solamente del
Duomo, v’erano in Campo santo 135 barili di polvere, 12 casse di cartuccie e
altre di capsule e accèndoli. 300 mila cartucce si erano distribuite ai
cittadini nel giorno 3; 300 mila nei giorni precedenti; cinquecentomila erano
in corte; 400.000 al ministerio della guerra; e inoltre v'erano in altri luoghi
9 mila di kilò di polvere da cannone, e 45 mila di polvere da fucile. In fine
molti privati si erano provisti largamente e di polvere forestiera e di quella
della polveriera suburbana, che ne aveva messo in vendita per 4 continui mesi,
600 kilò al giorno. Si era costruito un nuovo molino nell'interno della città;
tutte le spezierie s'erano converse in fabbriche di polvere e cotone fulmineo,
come nei 5 giorni. S'intendeva di fare grandi mine. Si apprestavano inoltre
ogni giorno 350.000 cartucce. Quanto al piombo, nei serrami delle case, nelle
stamperie e in cento rami d'industria e di commercio, ne aveva la vasta e
operosa città per parecchi milioni. Accadde poi che alcuni barili di polvere,
ch'erano nell'armeria del genio, scoppiarono, con morte di molte persone. E
quantunque la capitolazione fosse già fatta, i generali del re ne menarono gran
rumore, come se non vi fosse più polvere in città. Il che fece dire a molti che
fosse opera loro89.
Non ommisi per
parte mia di suggerire vari provvedimenti, che mi fo’ lecito di accennare, perchè
potrebbero forse giovare in altro tempo e luogo. Raccomandai che all'arrivo del
nemico si ostruissero intorno alla città tutte le aque correnti, che si facesse
una cerchia di fango90; dal che si avrebbe ostacolo materiale al
libero giro delle artiglierie; confusione di molte strade colle linee dei
canali; separazione dei corpi che intraprendessero il blocco; guasto
inevitabile dei cavalli; impossibilità in siffatta stagione a quelle genti
settentrionali di rimanervi anche solo pochi giorni, se non esponendosi a
rapida distruzione. Infatti, anche senza ciò, in ottobre ventimila uomini, un
quarto dell'esercito nemico, giaceva nelli ospedali.
Raccomandai di
scemare l'effetto dissolvente della fusione, col preporre alle guardie
nazionali capi che si fossero mostrati alla prova nei combattimenti di marzo,
in luogo di quelli che si erano nominati per libidine di setta, e fuori
dell'aspettativa di nuovi cimenti. E per porgere ai meno bellicosi un titolo a
ritirarsi onorevolmente, proposi che in ogni quartiere, a voto delle guardie
stesse, si deputassero alcuni officiali alla cura delle vittovaglie, dei poveri
e altretali cose, conservando pur loro il titolo e li spallini. Rendendo
elettivi e ordinando per parochie questi officiali di pace, si poteva liberar
la città anche dalla peste delle tre polizìe. E li uomini forti e sinceri
avrebbero ripreso l'influenza che i facendieri perdevano.
Proposi di
richiamar subito dalle montagne i volontarii di Milano e delle città vicine.
Era Milano il punto decisivo da salvarsi. E quanto più erano i volontarii,
tanto men pretesto vi sarebbe a mettere in città i soldati del re.
Tuttavia,
richiamando i volontarii, non si dovevano lasciare aperte le valli, nè esposta
da tergo la linea che si stendeva dal confine svizzero dello Stelvio sino a
Peschiera. Proposi perciò d'istituire un'altra linea di punti forti, lungo lo
sbocco di tutte le valli sulla pianura, da Peschiera sino al confine svizzero
di Como. Così, con poco sforzo, la metà montuosa della Lombardia rimarrebbe involta
e coperta da tutti i lati.
Li abitanti di
ciascuna valle dovevano attendere solo alla custodia di pochi e vicini punti,
fidando che nelle altre valli si farebbe altretanto. Una parte dei volontarii
formerebbe un corpo volante per apportare soccorso ai luoghi assaliti. Con ciò
si torrebbe il principal difetto delle leve in massa che, accumulandosi sovra i
punti in apparenza minacciati, lasciano infine scoperti quelli che il nemico ha
veramente di mira; e allontanandosi troppo dalle case loro, non possono poi
durare, per disagio di viveri e d'alloggiamenti, e abbandono delle cose loro a
ignoti pericoli; onde al primo disastro vanno facilmente in confusione e
avvilimento. Sarebbe piuttosto a chiamarsi armamento territoriale
che leva in massa; impaccio universale al nemico, e appoggio ai
difensori.
Il comitato
vide l'utilità della cosa; ma si trattava di determinare i luoghi e le opere da
forsi, e ordinare i capi delle valli, l'armamento, le munizioni, le raccolte di
viveri, i messi, i segnali, i luoghi di salvamento e di graduale ritirata, e
altre cose molte, le quali si sarebbero appena potute prevedere a assestare, se
vi si fosse indefessamente atteso fin dal primo giorno della nostra
liberazione. E il nostro comitato di guerra aveva veramente cominciato a fare,
prima della fatale venuta del re, che ci aveva come impietriti. Pure il nuovo
comintato m'incaricò di fare quanto poteva, dandomi in compagnia un veterano
del genio. Giunto a Lecco il giorno 2, vidi con meraviglia, come fra
l'imbecillità del governo e de’ generali, quei valorosi popoli di fossero già
posti all'opera da sè, per difendere almeno il loro territorio. V'erano
sentinelle da ogni parte, come in una piazza di guerra, quantunque 260 di quei
giovani fossero già allo Stelvio; v'erano quattro cannoni sulla piazza; si
erano fabricate in quelle ferriere alcune centinaia di lancie in forma di daga,
e alcune migliaia di forconi; si lavorava a munire con muraglie e mine la
chiusa fra l'Adda e il monte. Ci chiesero fucili, qualche altro cannone, e
sopratutto ordini risoluti, anche per non sostenere, privati, tutta la
responsabilità dei publici danni. Misi d'accordo quella brava gente per
aggiungere un'altra linea più avanzata, in comune col distretto di Caprino; al
che si trascelsero i due punti di Villa d'Adda e Cerchiera. Determinammo che i
tre distretti di Caprino, Lecco e Valsàssina, avrebbero costituito una sola
sezione, la quale avrebbe in comune il comando, la difesa, e le successive
ritirate fino al fondo della Valsàssina. E doveva connettersi con un'altra
sezione, che difenderebbe la valle del Brembo, col popolo dei distretti
d'Almenno, Zogno e Piazza. Una terza sezione, per la valle del Serio, si
formerebbe dai distretti d’Alzano, Gandino e Clusaone: una quarta si formerebbe
dalle valli Calepio e Cavallina colla Riviera d'Iseo; una quinta dalla Val
Trumpia; una sesta dalla Val Sabbia colla Riviera di Salò. Le sezioni di Val
Camonica e di Val Tellina avrebbero atteso solo a resistere verso il Tirolo.
Alcuni distretti però dovevano star pronti a far fronte da due parti; così
Lovere poteva esser chiamato a concorrere anche colla Val Camonica; la Val Trumpia colla Val Sabbia. Bergamo, Brescia e Peschiera sarebbero state antemurali della
linea, e avrebbero atterrito il nemico dall'impegnarsi seriamente entro le
valli. Con provedimenti non molto diversi, si poteva rendere quasi
impenetrabile al nemico anche la pianura; poichè dopo tuttociò, vi era pure un
esercito.
A Bergamo
trovai Garibaldi con molta bella gente, e fra l'altra un corpo di volontarii
pavesi. I cittadini avevano barricate le porte della città bassa, e preparavano
qualche difesa sul monte, ma avevano pochi cannoni e nessuna munizione; avevano
solo 500 fucili militari, benchè avessero mandato a Milano 44 mila franchi in
anticipato pagamento d'altri fucili; e avessero mandato alla zecca mezzo
milione d'argenti, senza ritorno di denaro. In Val Calepio si era tagliato il
ponte all'Ollio; e il Berizzi, che poi perì sul Gottardo, raccoglieva un
migliaio di montanari, per sostituirli in Bergamo a quelli che Garibaldi voleva
condurre al soccorso di Milano. A Brescia si fortificavano i colli; ma il
popolo si lagnava dei capi albertisti, che distoglievano dalla difesa, e
consigliavano di sottomettersi alli Austriaci. In tutti i villaggi si faceva
buona guardia giorno e notte, e tutti erano volonterosi di far qualche cosa, ma
non sapevano dove recarsi, mancavano d'armi e di capi. La nuova del tradimento
di Milano giunse a Bergamo nell'istante che, abbozzata sui luoghi la linea di
difesa, io stava publicando un indirizzo ai montanari, per chiamarli a darvi
una mano. Aveva mandato Cernuschi a Milano a prender armi; tornò con mille e
duecento fucili; ma giunsero a Lecco la matina del 6, quando le strade erano
affollate di montanari che tornavano già indietro, senza aver trovato nè armi,
nè modo di combattere. Alla Chiusa Veneta si disfacevano già le fortificazioni;
sulla piazza di Lecco stavano abbandonati i cannoni; li feci imbarcare; feci
prendere il largo a una buona carica di munizioni. Da tutte le parti si udivano
i montanari maledire il re dei signori!
Aveva il re
proseguito la strana e sciocca sua ritirata. "Durante il cammino mi
richiese, dice il Bava, se non vi sarebbe stato mezzo di difender quella città
(di Cremona), per noi tanto interessante, onde poter almeno far uscire il resto
dei nostri malati e dei nostri magazzini. Ma io mi credetti in
dovere di far osservare, che la cosa era arrischiata anzi che no, con l'Adda
alle spalle. Che nullameno, formando due ponti, traendo partito da
quello di Pizzighettone, e prendendo una buona linea, in quel paese boschivo
e solcato di canali, si sarebbe potuto tentare l'impresa, forse con
successo, per alcuni giorni. Laonde partii subito per Cremona, onde cercare
e stabilire le posizioni.
Verso le 11
del matino, il cannone si fece sentire sulla stada di Piadena. La brigata
Savoia era attaccata. Feci speditamente avanzare alcune compagnie di
bersaglieri, due battaglioni d'Aosta e qualche squadrone di cavalleria; e i
bravi Savoiardi vedendosi soccorsi, si fermano e contengono il nemico.
Nel matino era
stato costrutto un ponte a Grotta d'Adda; si contava di gettarne un altro
alquanto superiormente; un terzo era nella piazza di Pizzighettone; la quale in
fretta veniva messa al coperto d'un colpo di mano. Così assicurati alle
spalle, e in un terreno ripieno d'ostacoli e preparato
previamente, sarebbe stato facile il difendersi gagliardamente con
soldati disciplinati. Ma lo sconforto andava grandemente crescendo nelle file.
Mi risolvetti
di supplicare il re di permettere che l'esercito uscisse di
Cremona91.
Tutte le
divisioni dell'esercito furono alloggiate, quello stesso giorno, nei villaggi
della riva destra dell'Adda, fino al ponte di Lodi; nella quale citta stavano
la divisione lombarda e i Toscani. - Nella notte del 31, ricevetti avviso dal
generale d'Aix, che il nemico stava sulla sinistra dell'Adda92.
Nel matino del
1 agosto, si udì qualche colpo di cannone nella direzione di Grotta d'Adda. E
verso le sette mi pervenne altra lettera del generale d'Aix; nella quale mi
avvisava che la sua artiglieria non poteva essere collocata; che il
nemico gettava il suo ponte; e ch'egli in conseguenza stava riunendo le sue
truppe, e prendeva la direzione di Cornovecchio e Piacenza.
Partii subito,
onde contramandare l'ordine della ritirata. Mi informo di quanto accadde, e mi
si risponde che il nemico ha già passato il fiume! Mi rivolsi verso
Pizzighettone, onde darvi le occorrenti disposizioni per lo sgombro, non
essendo la piazza vittovagliata”93.
Il Ferrero
attribuisce l'abbandono dell'Adda alla viltà del generale marchese Sommariva;
il quale, per la seconda volta, e sempre impunito, e quindi si può dire, per
volontà del re, abbandonò il campo di battaglia; e condusse precipitosamente a
Piacenza le brigate Aosta e Regina, tre batterie e alcuni squadroni94.
"Messa
Sua Maestà a parte di quanto accadeva, prosegue il Bava, dimandai quale
direzione volesse tenere. Passando per Piacenza e Pavia sulla destra del Po,
l'esercito sarebbe stato subito al riparo, dietro un grande ostacolo; e noi
rimarremmo sul fianco sinistro del nemico, s'egli tentasse di marciare su
Milano. Ma siccome non potrebbe dirigervi che un distaccamento,
probabilmente egli rinuncierebbe ad una così fatta impresa; e sarebbe obligato
a tenersi a noi di fronte"95.
Ma in tal caso
il re aveva gelose cure in Milano; e non poteva lasciarla alli impulsi
dell'esaltazione cittadina. Perlochè, il giorno 2, quando Fanti e Restelli,
vedendo abbandonata l'Adda al nemico, e resi vani i preparativi da loro fatti
sulla parte superiore del fiume, si recarono a Lodi per sapere a che gioco
giocasse Sua Maestà, non furono graziati di udienza dal re; ma ebbero risposta
dai generali che intendeva recarsi a Milano, per difenderla, contando sull'opera
dei cittadini.
Richiamarono
dunque dell'Adda a Milano la leva in massa e li ingegneri, per restringere a
tutti li sforzi alla difesa delle mura. Avevano ripartito la città in
quartieri; ad ogni quartiere era fatto assegno di munizioni, d'ingegneri, di
pompieri, di chirurgi, di sovrintendenti. E parecchie migliaia di braccianti,
collo stipendio di tre lire al giorno, furono posti a munire di terrapieni le
parti men difese.
Senonchè
obliarono la prima e suprema di tutte le difese, chiuder le porte, e rompere
sotto pena di morte ogni communicazione coll'esercito del re, lasciandolo
operare nella campagna come gli convenisse. Infatti, mentre fra l'immensa
agitazione del popolo, era più necessario di lasciarlo reggere da mani nelle
quali avesse conoscenza e fede, il re afferrò quell'infausto momento per
prendere vano e insidioso possesso della Lombardia. Il giorno 2 di agosto, il
governo provisorio dichiarò di cessare. Il giorno 3, si costituirono
commissarii del re, un generale Olivieri e un marchese di Montezèmolo, uomini
dei quali il popolo nostro mai non aveva udito il nome. Si prestò ad assisterli
nell'impresa Gaetano Stringelli, figlio di quello ch'era secretario della
reggenza, quando Milano fu data alli Austriaci nel 1814.
Il re doveva
prendere, poichè doveva consegnare.
Il governo
provisorio si era impadronito del paese in quel giorno medesimo che Radetzki
uscì di Milano; e lo tenne fino a che Radetzki non fu tornato sotto le mura. I
suoi fasti cominciarono dai tentativi d'armistizio, e finirono colla complicità
del tradimento. E codesti uomini hanno la fronte di esibirsi ancora, al
cospetto dell'Europa, rappresentanti e depositarii della nostra indipendenza!
Il giorno 2 a mezzodì, i soldati che dovevano consegnarci al nemico, giungevano alle nostre porte; si
accampavano in semicerchio a mezzodì e levante, dal canale di Pavia a quello
dell'Adda.
Primo pensiero
dei miseri accecati cittadini era stato di rifornire d'ogni cosa bisognevole
l'esercito, di cui si decantava la disperata penuria. Il dottor Foldi, partendo
da Milano alla sera, per consegnare a Lodi un convoglio di pane ch'erasi già
diretto a quella volta, incontrò a Marignano i commissarii militari, che gli
dissero esservi sovrabondanza di pane, ed esserne anzi in ritorno coi soldati
venti carri (bare). Dimandarono in quella vece lardo, riso, sale. Foldi, reduce
in Milano, prima di mezzanotte faceva apprestare le 30 mila razioni richieste;
e recatosi al convegno dei deputati della guardia nazionale, si trovava la
lettera del generale Sonnaz, apportata da Beretta membro del governo, nella
quale manifestava piena sodisfazione per la regolarità dei provedimenti.
E il matino
seguente, nel medesimo convegno, parlandosi di difetto che fosse di vittovaglia
al campo, due dei deputati dissero che anzi i generali ne mandavano indietro,
perchè d'impaccio ai soldati.
Giunte le
truppe, il comitato fece confortare con pane bianco, e doppia razione di carne
arrostita e di salato, di formaggio, di vino, di sigari, e distribuir loro
quarantamila camicie nuove chieste a tal uopo ai cittadini. Questa volta non
v'erano mani infedeli fra le provisioni e i soldati. "Le truppe erano
commosse dalle fratellevoli cure; e quando le guardie nazionali, e molti
cittadini si recarono nelle file dell'esercito a portarvi le parole della
simpatia e del conforto, risposero loro quelle brave truppe di voler difendere
la città, di voler vincere o morire insieme"96.
Era la parte più
valorosa dei nostri giovani o trattenuta sul lago di Garda dalle false nuove, o
a Brescia con Griffini, o a Bergamo con Garibaldi, o nel battaglione di guardie
mobili in Venezia, o collocata dalla strategia del re fuori di città e dove la
sua presenza non desse animo al popolo e nervo alla difesa. Si adoperavano
oltreciò i generali a sconfortare i cittadini. Sobrero, per vuotare le casse,
pagava in quei medesimi giorni mezzo millione di conti arretrati. I figli
stessi del re, trattenendosi familiarmente coi capi delle guardie nazionali,
insinuavano l'opportunità della resa. Olivieri, chiamati quei capi, lodò il
buon animo e l'ardore che mostravano, esortò alla disciplina, poi partecipò
quasi come una calamità che potrebbero venir chiamati a combattere in campagna
aperta. "Picchiò e ripicchiò sulle parole campagna aperta;
scrive un di loro. E parmi siasi messo di malumore, quando, anzichè vederci
spaventati dall'imminenza d'una battaglia a sostenerci da noi novelli
soldatucci, ci sentì tutti ad una voce promettere sulla vita nostra che nessuno
si sarebbe mai ritirato dalle file; e che però noi lo pregavamo a lasciarci
entrare nelle file stesse come semplici soldati, sostituendoci nel comando
militari esperti".
Era il nostro
popolo per malignità dei governi disusato alla milizia; ma aveva nelle vene il
sangue de' suoi padri, e la vicinanza del pericolo glielo accendeva. Onde fin
dal giorno 3, voleva rialzare le barricate; e nei quartieri abitati dalla
fervida plebe già vi si poneva mano. Ma il comitato fece bensì all'uopo qualche
ordinamento, convenendo colli ingegneri, fra le altre cose, dei varchi da
lasciare ai carri dei viveri e delle artiglierie; ma raccomandò ai cittadini
d'attendere il segnale che si darebbe colle campane. Se nonchè, saputosi ciò
dall'Olivieri, se ne dolse aspramente; e protestò che valendosi de' supremi
suoi poteri, richiamerebbe i signori del comitato ai limiti del loro incarico,
parendogli modo inopportuno di difesa, e impedimento anzichè aiuto a un
esercito.
Al matino del
4 udissi tuonare alle porte il cannone. Il popolo atterrito, "ma
fieramente ansioso" dimandava le armi e le barricate, dimandava la campana
a martello. Scrive uno dei comandanti della guardia nazionale: "Non ripeto
qual entusiasmo destò in tutti il primo colpo di cannone. Io dovetti usare di
quell'autorità che fino a quel punto non avevo mai conosciuto di avere, per
rattener quelli che guidava al Dazio, i quali volevano correre disordinatamente
al luogo ove il cannone li chiamava. In un batter d'occhio io ebbi al Dazio più
di tre quinti del mio battaglione. Anche quelli della riserva, solo che fossero
capaci di portar armi, corsero a me, pregandomi di non risparmiarli. Per tutta
Milano era un'allegrissima gara d'onore".
Fanti e
Restelli, recatisi tosto dall'Olivieri, gli chiesero licenza di preparare ad
ogni evento le barricate, anche per occupare coll'apparato e coll'opera della
difesa l'animo dei cittadini. Il satellite ricalcitrava; diceva non doversi
fomentare vani spaventi; essere indecoroso l'ingombrare di siffatti inciampi
una città difesa già da 45 mila soldati. Pur tuttavia promise che, dovendosi
trovare quel giorno a mensa col re, gliene avrebbe mosso parola.
Quale insania
era stata mai quella d'un popolo, che per sua virtù e per bontà di Dio essendo
libero, s'era ridotto a implorare da quelli ignoti, a implorar quasi
ginocchione sotto la loro mensa, la facoltà di difendere dai nemici la sua
città !
Quale slealtà
in quelli officiali, che ancora al presente, e dopo che ogni speranza di far
frode al vero dovrebb'essere in loro svanita, insultano ai vani sforzi che il
nostro popolo faceva di svincolarsi dal regale tradimento ! "Nous
nous attendions à voir arriver tous ces jeunes Milanais, qu'on nous avait
représentés comme résolus à s'ensevelir sous les ruines de leur ville. Mais je
ne puis citer ici, qu'une vingtaine d'individus vêtus et armés en
héros de mélodrame, qui sortirent de Porte Romaine au pas de charge, criant à
gorge déployée: Morte ai barbari!"97. Il
frivolo derisore non sa che la guardia nazionale aveva uniforme militare? anzi
uniforme, dal color verde in fuori, modellato servilmente su quello
dell'esercito piemontese? - Questi non sono modi da soldato.
Intanto che i
generali si adoperavano dentro la città a sconcertare la difesa, si studiavano
d'acquistar tempo al di fuori, non già valendosi di quel terreno intagliato e
di quelle folte piantagioni, per far trinceramenti d'ogni parte; ma lasciando,
sulla diritta via, crudelmente esposti i loro soldati a non so quale scelerata
contrafazione di battaglia. Avendone più di 40 mila dei loro o dei nostri, e
altra gente che accorreva d'ogni parte, non mandarono aiuto ai pochi
combattenti; li lasciarono assalire di fianco; lasciarono prendere un cannone,
o come altri dice, sei cannoni; soffrirono che qualche pugno di nemici si
mostrasse impunemente fin sotto i bastioni. Pare che volessero aver pretesto di
ritirarsi entro la città ed occuparla.
All'annuncio
di quei nuovi disastri, il comitato, senza rincorrere più oltre il regio
commissario, fece battere la generale, toccare a stormo tutti i campanili
dentro e fuori la città, e distribuire ai cittadini le armi, che il ministro
Sobrero teneva sepolte ancora nei magazzini. Se ne trovò da dare alla plebe
quante ne volle; e rimasero ancora nelle casse tremila fucili che intatti
furono preda al nemico ! Le guardie nazionali si raccolsero; i vecchi, le
donne, i fanciulli accorrevano a far barricate; a mezzanotte l'ampia città era
un labirinto inestricabile. ogni tristezza era dissipata; quel torpore servile,
che dopo la poltronerìa della fusione s'era messo nelli animi, si
converse in repentina alacrità; riluceva in tutti i volti la bellicosa letizia
dei giorni di marzo.
Riverberavasi
intanto entro le più interne vie il fosco chiarore delli incendi che li officiali
del re ordinavano, per torre, dicon essi, all'artiglieria nemica ogni
riparo98. Ma prima di arderle, avrebbero dovuto difenderle; e meglio,
farle saltare in aria quando v'entrassero i nemici. E non si vede come
l'incendio dei tetti o delle porte o delle masserizie, potesse impedire al
nemico d'appiattarsi egualmente dietro le rimanenti mura e feritoiarle. Aveva
forse tetto il cimitero di Santa Lucia a Verona? O credevano che fossero colà i
tugurii di paglia o le case di legno della Russia, che il foco potesse
distruggere fino alle fondamenta? - In fatto, era per funestare la moltitudine,
e far paura a chi aveva roba.
Alcuni
edificii erano già in fiamme per comando del re, quando un aiutante di campo
venne a dimandare in suo nome al comitato di poter incendiare le case prossime
alle mura. Il comitato rispose meravigliandosi che il re dubitasse che i
cittadini fossero volonterosi a qualsiasi sacrificio. Infatti appena seppero
che non era eccesso di nemica barbarie, ma provedimento di disperata difesa,
salutarono con alti evviva all'Italia quelle gloriose fiamme. E si videro
alcuni dar colle mani loro il foco alle proprie case. Si estima il danno a
qualche millione; e quello delle merci e delle masserizie vi è per più della
metà. Il che prova come non si operasse tanto per togliere precisamente i
ripari al nemico, quanto per disconfortare all'ingrosso i cittadini.
Abitanti delle
vicinanze della città dicono, che la vista di quelli incendii, e il suono delle
campane per tutta quella notte dopo il tristo silenzio del matino, mise un
indescrivibile sgomento in Radetzki e nè suoi generali. Avevano dunque avuto la
fortuna di vincere con sì poco merito la guerra del re, per venire a far
naufragio un'altra volta sotto quelle infauste mura? Molti credettero in
quell'istante che la inesplicabile ritirata a Cremona e a Lodi, fosse stata un
laccio per trarli lungi dalle loro fortezze, in mezzo a popoli nemicissimi, e a
strade sì facili a disfarsi; e mandarono a esplorare se mai la campana a
martello si udisse anche alle loro spalle. L'arrivo di Garibaldi con Mazzini,
da Bergamo a Monza, quasi alle spalle delli assalitori, con cinquemila uomini
regolarmente armati, e le immense turbe di montanari che li seguivano con armi
e senza, destarono profondo spavento nel nemico. Anche il contado di Cremona,
dopo il passaggio delli Austriaci, visto che non erano i centomila che i
generali dicevano, anzi nemanco la metà, si sommoveva d'ogni parte. Brescia e
Peschiera e tutta la montagna erano in armi; i volontarii combattevano a
Lonato; Venezia e Bologna erano pronte a profittare della pochezza dei nemici
sul basso Po. Era venuto il momento in cui si vedesse quanto poteva una
nazione.
Ma in quella
medesima notte, alla luce di quelle fiamme, sfilavano tacitamente entro la
città le baionette del re, circuivano le mura, prendevano fatale possesso di
tutte le porte. Che più? il re medesimo apportava la sinistra sua presenza in
mezzo ai cittadini.
Udiamo il suo
generale. "Chiamato al palazzo reale, mi vi condussi subito, passando per
mille barricate che li abitanti inalzavano festevolmente; e a cui stavano
lavorando con un ardore che mi colpiva. Vidi molte persone portar viveri ai
nostri soldati, dir loro parole di consolazione, somministrare aquavite,
apprestar fochi per asciugarli dalla pioggia sofferta.
Quantunque
tutti fossero inzuppati dall'acqua, tutti mostravano d'esser contenti. - Giunto
al palazzo del re, intesi come S. M. avesse ordinato di radunare i suoi
generali, per conoscere il loro avviso su ciò che fosse stato da operare in sì
dure circostanze. Ci si disse che il gran parco d'artiglieria aveva naturalmente
preso la direzione di Piacenza al nostro arrivo sull'Adda; quindi la nostra
mossa verso Milano l'aveva diviso da noi. Siccome i piccoli parchi avevano
proveduto a sostituire le cartucce adoperate in quello stesso giorno, non
poteva quindi farsi conto che sulle munizioni da guerra in distribuzione presso
i soldati. Era benissimo nella città qualche provisione di polvere, ma
senza proiettili, segnatamente pei cannoni. Quanto ai viveri, non ne esistevano
che per pochi giorni; ed il tesoro non ascendeva a più di franchi 120 mila.
Queste cattive novelle persuasero a tutti l'impossibilità d'una lunga e onorata
difesa. Tutti i membri del consiglio non esitarono a dichiarare che una tale
condizione di cose rendeva indispensabile l'entrare al più presto in
communicazione col maresciallo Radetzki, onde proporgli la resa della
città. Si spedì quindi subito un officiale generale, che trovò il
maresciallo a Sandonato; con cui facilmente si mise d'accordo; poichè
L'INTERESSE D'UNA CONVENZIONE SIFFATTA ERA RECIPROCO!"99.
Surse l'alba
del 5; la città era preparata ad ogni assalto; li uomini in armi; pronto il
soccorso ai feriti; fumavano tuttavia li incendii intorno alle mura. Ma il
cannone taceva. E una taciturna e tetra agitazione pervadeva i battaglioni del
re
Verso le nove,
furono chiamati in casa Greppi al Giardino i municipali; poscia, a richiesta
loro, il comitato di difesa e i capi della guardia nazionale. Trovarono
entrando il conte Resta, che colle lacrime alli occhi accennò loro confusamente
di gravi calamità. Ma nell'anticamera, ov'erano Salasco, Pareto, Bava, Olivieri
e altri siffatti, trovarono straordinarie cordialità, e sorrisi, e strette di
mano. Poscia Olivieri si mise placidamente a dire, come il re, per difetto di
denaro e viveri e munizioni, e per salvare la città, avesse capitolato;
perlochè faceva loro sapere che l'esercito regio si ritirerebbe al di là del
Ticino; e un'ora prima d'uscire di Milano, metterebbe il nemico in possesso
d'una delle porte; si era già determinato che fosse Porta Romana. Quanto ai
cittadini compromessi, il maresciallo non garantiva nulla, non
mescolandosi egli in cose di polizia; ma per quanto era in lui, li
farebbe trattare con equità; e concedeva anzi licenza che seguissero, per la
via di Magenta, l'esercito del re, fino alle sei di quella sera.
Mentre tutti
stavano immoti fra lo stupore e lo sdegno, il marchese Pareto soggiunse:
"già ben veggono ch'è inutile combattere colla necessità: anche
l'intervento francese non sarebbe certo; e in ogni modo non potrebbe
quell'esercito arrivare, se non fra una trentina di giorni".
Restelli
disse, che per un siffatto tempo vi erano viveri a sufficienza; e in un Milano
non poteva ad ogni caso esistere il necessario denaro. Ma Pareto l'interruppe
dicendo: "e una città che attende nel suo seno un esercito, deve trovarsi
sprovista di munizioni da guerra?".
Rispose Paolo
Bassi: "ora dimanderò io, come mai un esercito che si chiude in una città
per difenderla, arriva senza munizioni?"
Restelli
allora si rivolse al generale Zucchi, ch'erasi fatto in quei giorni capo delle
guardie nazionali, e disse : "veggo ch'è cosa fatta, e che dal re e da'
suoi nulla più resta a sperare. Ma dacchè Milano diede il primo esempio in
questa guerra, ora dia anche l'ultimo. E le ceneri di questa città coprano i
nostri cadaveri! Zucchi, voi siete nostro comandante, non ci abbandonate
voi?"
Zucchi
dimenando freddamente il capo, rispose : "Che pro ne avrete voi, dopo che
nelle ceneri di questa bella città avrete sepellito i vostri cadaveri?"
Olivieri e Pareto approvarono. Pietro Maestri, Enrico Besana e Paolo Bonetti
stettero con Restelli; ma Paolo Bassi ch'era podestà, disse che quando il re
abbandonava la città, conveniva rassegnarsi e salvarla all'ira nemica.
Il maggiore
Capretti dimandò a che fossero dunque chiamati? Non a consiglio, poichè era
cosa fatta. Forse perchè non osando il re assumere in suo nome la
capitolazione, volesse farli responsabili in faccia al popolo? E protestò
ch'era dovere del re dichiararsene autore. Al che tutti li altri cittadini
avendo aderito, Pareto disse che andrebbe immantinente a parlarne al re.
Frattanto si dimandò all'Olivieri, come non si fosse messa una parola per
assicurare i nostri soldati e le guardie nazionali. Olivieri, dopo lungo
circuito di parole, conchiuse poter essi seguire l'esercito come individui.
Capretti gli rispose: "Dal momento che fu accettata la fusione, noi
abbiamo il tristo diritto, che però non credo sarà riclamato da alcuno, che
l'esercito piemontese sia tenuto una cosa sola col nostro e colla guardia
nazionale". Olivieri disse che avrebbe ordinato l'esercito in tre colonne,
e avrebbe accolto nel mezzo le guardie nazionali che volessero accompagnarlo.
Capretti rispose, che se più della metà del suo battaglione avesse deliberato
d'andare in Piemonte, egli l'avrebbe seguito; ma ciò non essendo, egli
prenderebbe quella via che gli paresse più opportuna alla sua salvezza e
all'interesse della patria. Olivieri si rivolse a' suoi confratelli, dicendo :
"qui è un caso nuovo; il maggiore ritiene ch'essi possano ritirarsi in
quella via che più loro piace, come sarebbe in Francia. Io credo di no;
perchè nella capitolazione è detto che devono seguire, l'esercito piemontese,
anzi per la strada di Magenta. Che ne dite voi?" E tutti li altri
confratelli risposero, non esservi dubio.
Si dimandò
allora se il marchese Pareto non tornasse colla dichiarazione del re. Uno dei
generali crollò il capo dicendo che il re già partiva. - Tutti allora uscirono
precipitosi.
Il funesto
annuncio correva già sordamente per la città. Pure una scellerata
dissimulazione continuava la vile comedia della difesa. A mezza matina, tre officiali
del genio con dieci soldati della medesima milizia, accompagnati dal cittadino
che comandava il posto delle guardie nazionali a Porta Nuova, riappiccavano il
foco alla casa già mezzo consunta di Gaetano Scotti; e stavano per ardere anche
una vicina casuccia ov'era il suo scrittoio, quando un altro cittadino, che
sapeva già per uno dei municipali la novella della resa, s'interpose dicendo
che si risparmiassero almeno i registri d'un negoziante, massimamente dacchè il
re abbandonava la città. Li officiali si ritrassero bensì da quella casa; ma si
volsero ad ardere ciò che rimaneva delle scale e dei palchi delle vicine case
Regazzoni, Castiglioni e Bellezza.
Queste smorfie
dei militari facevano parer mendace la novella già per se tanto dura a intendersi
dalli ostinati cittadini. Anzi li infelici che furono primi a proferirla in
mezzo alla plebe, non solo furono gridati traditori e spie dell'Austria, ma
trucidati. Montignani, uno delli amministratori dell'Italia del Popolo,
perchè disse che la resa era ben possibile, fu preso da alcuni furibondi, e già
stavano per fucilarlo; ed egli dimandava che lo conducessero sul vicino
bastione e lo facessero almeno uccidere dal nemico, quando un capitano di
guardie nazionali lo riconobbe, lo abbracciò fratello republicano, e lo salvò:
il povero popolo guardava attonito, non intendeva più nulla. Quelli che avevano
più ciecamente creduto, prorompevano in più disperata rabbia; erano essi, che,
bestemmiando al nome del re, facevano furibonda calca intorno al suo palazzo.
Li arringava il dottor Oldini, ch'era albertista e capo d'una società di
costituzionali che si adunavano sopra il caffè Cova, e avrebbero voluto la fusione,
ma solo a guerra vinta. Le carrozze già preparate alla fuga del re,
furono capovolte per chiudergli il passo; i generali che si affacciarono alle
finestre a dar parole, furono accolti dai loro partigiani a fucilate. Alcuni
pretendono che il re medesimo toccasse al collo la scalfitura d'una palla.
Alcuni soldati, ch’erano sparsi per la città con loro parenti, e in fratellanza
col popolo armato, non credendo alla resa, colle lagrime alli occhi pregavano i
cittadini a tranquillarsi e intender ragione. Qualche officiale, non meno
leale, ma più esperto delle cose della sua patria, si strappò dispettosamente
li spallini, dicendo di voler morire col popolo; e il popolo rispondeva: viva
il Piemonte e infamia a Carlo Alberto! Era la voce stessa ch'io aveva fatto
udire nella sala del governo provisorio il 24 di marzo. Allora poteva essere
una voce di salvamento; oramai era vano strido di disperazione. Chi affida ai
nemici nati dalla libertà la cura di salvarla, s'aspetti di vederla tradita.
Se il re
giudicava impossibile la difesa, poteva rifiutare di parteciparvi; ma non
doveva occupare la città, nè mai consegnarla di sua mano al nemico. Poteva dire
onoratamente : "voi volete tentare un'impresa disperata; la città è
vostra; fate voi. Non potete però costringermi a prendere sopra di me la sua
ruina. Lasciate dunque ch'io vada co' miei soldati; e fate ciò che Dio v'ispira."
Ma in tal
caso, ecco ancora fra la casa d'Austria e la casa di Savoia un popolo
combattente; ecco l'aborrito spettro della libertà in Italia. Dunque prima
d'uscire da una porta, doveva il re consegnare l'altra porta al nemico.
Senonchè,
vedendo indomito ancora il popolo, non ostante l'assenza di tutta quasi la
gioventù, e temendo di rimanere fra le convulsioni del gigante egli medesimo
avvolto e annientato, ricorse a nuova simulazione. Fece gridare dal general
Bava, che, ammirando l'animo dei cittadini, aveva deliberato di versar loro
seco il suo sangue e quello de' suoi figli. Il popolo parve calmarsi; ma un
cittadino propose che il re con tutti i suoi magnati fosse custodito, in pegno
della veracità della sua parola; altri propose che la promessa fosse confermata
dalla bocca medesima del re. Usciva allora Carlo Alberto sulla loggia, tra un
frastuono d'applausi e di maledizioni. Gli si gridò che si voleva vedere il
nero sul bianco, che si voleva una promessa stampata. Obbedì; fece publicare queste
parole: "Il modo energico col quale l'intera popolazione si pronuncia
contro qualsiasi idea di transazione col nemico, mi ha determinato di
continuare nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Io rimango
fra di voi co' miei figli." E nello stesso tempo mandò il general Bava a
cercare una scorta di soldati, che potesse trarlo fuori di città. Ma il popolo
non voleva dar passo a nessuno. L'astuto generale disse allora, che se lo
tenevano prigioniero, era impossibile che dirigesse le truppe contro il
nemico. "Venni abbracciato, egli scrive, da più di duecento persone,
perchè le mie guide gridavano ch'io andava a far riprendere le ostilità; altri
poi, che nulla sapevano della mia missione, mi copersero d'ogni sorta di
villanie"100.
La promessa
del re fu accolta con tripudio da pochi insanabili; ma con tetro sospetto dai
più. È fatto notevole, che non si udì fra tanto tumulto un grido solo che fosse
di politica e non di guerra. Li amici della libertà tennero anche in
quell'estremo la data fede; tennero il giuramento di guerra vinta,
benchè perfidamente infranto dai settarii del re. Lo tengono ancora oggidì,
citando il ministerio Gioberti a mandare in Roma i deputati del popolo a
deliberare anzi tutto della guerra, e non d'altro finchè non sia vinta la
guerra.
Frattanto i
soldati sfilavano tacitamente lungo i bastioni, traendo seco anche le munizioni
e le artiglierie dei cittadini. Si erano levati dalla zecca e si accompagnavano
a Torino quattro millioni di metallo, fuso delli ori e argenti
dei cittadini.
Il re doveva
consegnar Milano, per avere l'impunità, e prendere a Piacenza un brano di
conquista, una foglia del carciofo. Poteva farlo, perchè aveva i suoi
soldati, e teneva dispersi i nostri; e ad ogni caso aveva anche i soldati del
nemico. Da due giorni non v'era altra legale autorità che quella de' suoi
commissarii. Il governo provisorio, tramutato in consulta con diritto di
partecipare ad ogni trattato, non era quasi considerato per nulla nella
capitolazione; non fu considerato poi nell'armistizio; avrebbe dovuto
protestare contro il tradimento, dichiarare sciolto il paese da ogni vincolo
verso il fedifrago re. Preferse di tacere, e di conservarsi con turpe silenzio
un posto nella regia anticamera. Il re faceva spargere nello stesso tempo la
falsa novella che l'esercito di Radetzki, per ausiliarii bavaresi e d'altri
confederati, aveva centomila combattenti. I cittadini, appena riavuti da lungo
delirio, sentivano pesarsi sull'animo la materiale impossibilità di resistere
ad ambedue i nemici. Quelli che avevano venduto la libertà e le più care
opinioni per la speme dell'indipendenza e per l'ombra della forza militare,
erano attoniti e quasi insensati. Dov'era dunque il regno fortissimo dell'Alta
Italia, dell'Italia Boreale, il cui solo nome scritto sui registri doveva esser
pegno di vittoria e di pace perenne? In quella orribil notte, l'ansietà, la
rabbia, la disperazione, e in molti il pentimento, tolsero di senno un
centinaio di cittadini. Tutti poi, col cader della speranza, rinasceva la pietà
dei figli e delle donne, e il pensiero della privata salvezza.
Intanto il
Bava, giunto fra i soldati, trovò, che, udite le voci di tradimento e di morte,
alcuni volevano che si entrasse di forza in città per salvare la vita al re.
"Quale spettacolo avremmo noi presentato all'Europa, egli scrive, se in
mezzo ad una pugna fratricida, fosse venuto Radetzki col suo esercito, per
rimetter l'unione in una famiglia composta d'elementi così contrarii?"101.
Poteva aggiungere che Radetzki certamente si sarebbe messo col re; poichè il
generale ha già confessato che avevano entrambi "RECIPROCO
INTERESSE".
Alcuni
generosi intanto volendo, almeno col proprio sangue, onestare quella indecorosa
fine, uscivano a bersagliare una volta ancora il nemico, che lentamente veniva
occupando i luoghi lasciati vacui dai soldati del re. Ma il Bava, dic'egli, fe'
cessare benchè "con molta fatica, quelle inutili bravate"102.
Alle dieci
della notte, egli mandò un certo Manzoli a esplorare a che punto fosse il re; poi
si recò egli medesimo furtivamente fino alla piazza Belgioioso; e quando vide
rari i cittadini, e finito il pericolo, andò a prendere soldati a Porta
Orientale; e nel ritorno incontrò "fra le oscure e silenziose vie, tentone
fra mezzo alle barricate" il re, che fuggiva a piede, seguito da
bersaglieri e guardie. Dicesi che fosse uscito per una casuccia laterale,
travestito da gendarme e menando a mano un cavallo, e raggiungesse in
quell'arnese le guardie, che in agguato lo aspettavano. Camminò più d'un miglio,
fino al collegio Calchi, accosto alla Porta Romana; ove almeno poteva avere
aiuto anche da Radetzki. "Nel tempo convenuto, le truppe si trovarono in
movimento, dice il generale, eccetto il battaglione che doveva consegnare al
nemico la Porta Romana! A due ore, io partii dal collegio con S. M. a
piedi; e c'indirizzammo a Porta Vercellina, in mezzo a nuove grida forsennate,
che chiamavano il popolo alla porta medesima, per impedirne al re l'uscita.
Seguimmo la strada delli spaldi (sono più di due miglia), fra
spessi colpi di fucile, che si facevano sentire da tutte le parti, e il suono a
stormo di tutte le campane, circondati da fitte tenebre, rotte solo di quando
in quando dalla tetra luce dei molti incendii, che per spirito di malvagità e
di rapina, si erano messi intorno alle case"; pag. 100. Si
dimentica il generale d'aver narrato, poche pagine inanzi, che quelle fiamme
erano preparate per comando suo, d'aver detto a pag. 91 : "intanto venivan
prese, col pieno consenso del municipio, le occorrenti disposizioni, perchè se
il nemico avesse obligati i nostri ad abbandonar quelle case, fosse il tutto
pronto onde metterle in fiamme." Pare quasi di assistere alle confessioni
d'un malfattore, fra le cui rotte e incoerenti risposte balza fuori involontaria
la verità.
Il brutto
spettacolo non finì alle porte; poichè i contadini nulla sapendo della resa o
d'altri siffatti avvolgimenti, accorrevano pur sempre alla difesa della città.
Dice il generale, e sia questa l'ultima citazione dal suo libro: "i nostri
soldati, incontrando contadini armati, chè lo erano tutti, ed erano frequenti,
non vedevano in essi che sicarii pronti a sgozzare la vittima designata; e
quindi senza far parola, li disarmavano, li cacciavano a terra, e così li
tenevano, finchè fosse passato oltre il re"103.
All'alba del
giorno 6, prima che i soldati di Carlo Alberto consegnassero a Radetzki la Porta Romana, più di cento mila abitanti, ch'erano stati fermi e sereni al tuono del cannone,
si precipitavano fuori delle altre porte. Donne, infermi, bambini, famiglie
povere che non erano state mai lungi dalle mura native, di trascinavano fra la
polve delle strade e fra i campi, senza saper bene ove andare, o di che
sostentarsi. I soldati piemontesi, raggiunti dalle miserabili turbe, si staccavano
dalle bestemmiate bandiere per assistere i più infelici, portando fra le
braccia li infanti che non potevano più reggersi in piedi. Al confine
piemontese, i generali avevano già dato la parola d'ordine d'insultare i
rifugiati, per salvare sè medesimi dallo sdegno che la calamitosa istoria
avrebbe acceso nei popoli. A Novara parecchi dei nostri furono vituperati e battuti,
come traditori dell'Italia e del re.
Ci aveva
trovati il re vittoriosi, gloriosi, concordi tutti nel provido patto della
guerra vinta; ci aveva sconcertati, istupiditi, disarmati, consegnati infine al
nemico; rimaneva solo di rapirci quella pietà che poteva consolare l'esilio. Fu
la voce del nostro tradimento e della nostra viltà, ripetutami in Parigi per
ogni parte ove fosse penetrata persona dell'ambasciata del re, che mi pose in
mano la penna. Potevamo rassegnarci a perdere ogni cosa, non l'onore.
E resta ancora
ad attingere un'ultima citazione dal libro del Ferrero. "Il 7 agosto,
verso le cinque, li officiali di guardia al ponte del Ticino ebbero la visita
di otto giovani officiali austriaci. Li abbiamo invitati a dividere le frugale
nostra mensa, Accettarono con somma gentilezza. In poco d'ora la più schietta
cordialità regnava fra noi. Dopo due ore i nostri ospiti si levarono; e ci
siamo avviati a condurli fino al di la del ponte - In mezzo al ponte due
sentinelle erano in faccia; vedendo il buon accordo che regnava tra li
officiali, quei bravi soldati avevano pensato a ravvicinarsi. L'Austriaco
tendeva al suo confratello di guardia la metà della sua pagnotta nera; e il
granatiere savoiardo gli porgeva la sua zucca piena di vino. Quella vista fu il
segnale per noi di nuove proteste di stima, e ci dividemmo vicendevolmente
contenti e superbi;"104. Il povero officialetto di Sua
Maestà, digiuno d'ogni sentimento nazionale, non si avvede come questo semplice
suo racconto trafigga nelle viscere un popolo oppresso, disperso e martoriato.
Quale stranezza non era mai stata quella di lasciarci toglier quasi di mano i
nostri nemici; e delegare il materiale incarico d'una guerra morta a uomini che
non avevano sofferto ingiuria, e non sentivano passione alcuna ! Così è; la
guerra regia non poteva esser più che un sanguinoso tornèo.
Intanto
rimaneva chiuso in Peschiera il quarto reggimento provisorio coll'artiglieria
d'assedio. E i generali e ministri, sempre svogliati e traditori in ogni cosa,
non avevano, dopo due mesi di possesso, rifornita la piazza di grani e di
foraggi, nemanco di sale. E il nemico non tardò, come il re, a bombardarla;
fece fare immantinente undici batterie, due delle quali incrociando i fochi,
interdissero ogni accesso al lago, ove stavano ancora i volontarii. Già,
quattro giorni dopo la presa di Milano, era esplosa la polveriera e distrutta
la caserma dell'artiglieria, quando al 12, arrivò il cavalier Feccia di
Cossato, e consegnò la fortezza al nemico, per ordine del re; e in quella
malnata furia di dare ogni cosa al nemico, lasciò in sua balia il parco
d'assedio, che ora poi vanamente si riclama.
Aveva
parimenti promesso il re di consegnare i forti d'Osopo e d'Anfo; i quali erano
acquisto nostro, e non erano mai stati in potere delle sue truppe. Ma Osopo non
badò a quei vili accordi, e continuò fino a settembre la difesa cominciata in
aprile.
Rocca d'Anfo
fu consegnata da un altro Durando, fratello del salvatore di Vicenza.
Fatto comandante generale dei volontarii, egli lasciò senza contrasto occupare
da cinquecento nemici l'alta valle del Càffaro, ch'è la chiave di tutti quei
monti. I volontarii gridavano al tradimento, e stettero per ammazzarlo; ma egli
non si smarrì d'animo, e con arte e pazienza seppe trarli fuori dalla Rocca e
da tutti i loro nidi, e ne condusse a Bergamo settemila. Quivi giunti trovarono
un presidio nemico di soli millecinquecento uomini; il quale atterrito presentò
loro le armi; e lasciò che a tamburo battente e tricolore spiegato,
s'impossessassero del monte sul quale è l'alta città e il castello. Il
bellicoso popolo applaudiva, sperando vedere un combattimento, e avervi la sua
parte. Ma il Durando tenne quieta ogni cosa; e non volle pure che si sottraesse
ai Croati un mezzo millione ch'era nella cassa provinciale, e che avrebbe
fornito il pane a quelli che volevano combattere. Scrittore e guerriero, compiè
quel nuovo Xenofonte la sua ritirata, girando quanto più lungi poteva dalla
frontiera Svizzera e dai monti, d'onde qualche scintilla avrebbe potuto
scendere su quella generosa gioventù; passò rasente quasi le porte di Milano,
col turpe foglio di via del generale nemico; e consegnò in Piemonte i
volontarii. Molti dei quali, per necessità d'esilio, ebbero a giurarsi soldati
alla persona del re; e non più alla libertà, e all'Italia. E quivi rimarranno,
finchè il tempo maturi di ricacciarli in Lombardia. Così fu rimosso il pericolo
che la guerra di popolo riardesse.
I volontarii
d'Apice che da quattro mesi difendevano i varchi alpestri onde scendono l'Adda
e l'Adige, ebbero a disperdersi in breve per manco di vestimenta e di pane.
Saverio Griffini, che aveva avuto la disgrazia d'esser fatto generale dal re,
lo obbedì consegnando al nemico Brescia; e condusse fuori di paese cinquemila
volontarii. Sia per poca cognizione di carte, sia per simulare intenzione di
resistenza, partendo da Brescia prese la via dei monti; e a stento potè trarsi
fuori del passo d'Aprica, ch'è quasi impraticabile ai cannoni; ricusò di
spazzar via cinquecento nemici che sorprese isolati e spaventati in Val
Tellina; consegnò uomini e armi ai Grigioni.
Garibaldi fu
il solo che tentasse servare accesa la sacra fiamma; ma era troppo tardi. La
gran giornata era al tramonto; era mestieri rassegnarsi, per cominciarne
dall'alba un'altra con meno infidi auspicii. Garibaldi non seguitò il consiglio
da noi mandatogli, d'inoltrarsi subitamente nell'ampio labirinto delle montagne
che ingombrano tre quarti delli stati imperiali d'Italia; di trarre a sè le
migliaia di volontarii, di regolari, di cittadini erranti; torli di mano a
Durando e Griffini; rannodarsi a Venezia e Bologna che stavano impavide;
profittare dell'immobilità del nemico, confitto ancora in Milano, e non senza
sospetto del ritorno del re, o della venuta di soccorsi francesi. Ma per fatale
attrazione verso il Piemonte, Garibaldi preferì rimanersi tra il lago Maggiore,
la Svizzera e il nemico, in luoghi ove, non potendo moversi, o doveva tener
piè fermo contro una forza maggiore, o ricadere in breve sulla frontiera e
lasciarsi disarmare. Tuttavia lasciò co' suoi fatti d'arme una profonda
impressione di terrore nel soldato nemico.
Sulla fine di
ottobre, Mazzini fece ritentare da Dolzino, Medici, Daverio, Apice ed altri, lo
stesso cimento nelle medesime anguste valli, tra il confine elvetico e i laghi;
e già vi rispondevano dai monti di Pontida le bande d'Alborghetti. Ma secreti
contrordini di Torino tennero immoti i Bresciani, anche in questa prova minori
del loro nome, e ottusi al segno di non comprendere ancora che in Torino è il
più duro ostacolo all'italica nazionalità. Molti capi negarono poi di trarre a
troppo incerta impresa popoli che fidavano generosamente in loro. La stagione
era troppo avversa; i monti già ingombri di neve; il professor Gavirati e altri
giovani perirono di gelo sul monte Jorio. E il popolo nelle città non si era
peranco riavuto dalla percossa e dallo stupore, ed era snervato dalla tema dei
tradimenti. Una rivoluzione è una febre, e non viene a tutto un popolo per
comando di chicchessia. È mestieri aspettarla. E tornerà.
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