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Carlo Cattaneo
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra

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  • XII La consegna.
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XII

La consegna.

 

Difendere Milano contro un nemico soprastante già di numero, e animato dalla vittoria, difenderla col solo esercito, con un esercito che sfiduciato del suo capitano cominciava a dissolversi, non era sperabile. Associare alla difesa in modo efficace li abitanti non si poteva, senza rimovere dalla somma delle cose i pedissequi e i facendieri. Era duopo conciliare e richiamare d'ogni parte li uomini liberi: lasciandoli parlare il linguaggio loro ai cittadini, e se accadeva, anche ai soldati; insomma era mestieri evocare in mezzo all'esercito lo spettro della forza popolare. Il re non lo poteva; doveva piuttosto piegar le sue tende, e rientrare vinto e taciturno nella sua reggia.

Ma non poteva dunque chiamare in campo qualche alleato?

Chi erasi millantato forte, e aveva palesato la libidine di farsi a spese delli amici fortissimo, chi aveva offesi, ripulsi, insidiati li altri principi d'Italia, non aveva più adito a dimandarli; e altronde le forze della Toscana erano limitate; male in sesto ancora quelle di Roma, e già lasciate patteggiare col nemico; Napoli era lontana, e dopo il furto di Parma e della Sicilia apertamente nemica; la Sicilia appena bastava a medesima.

Chi ha tempo non aspetti tempo; anche l'aiuto francese era divenuto malagevole. Alle generose professioni del 24 febraio era seguita la feroce reazione del 24 giugno. Pure ogni speranza non era tolta. Ma porsi ginocchione innanzi al popolo francese nel primo momento dell'infortunio, dopo averlo superbamente disdegnato fra gli orgogli della prosperità, non era da re. Altra cosa era avere invitato con militare ingenuità, a nome d'un popolo, un altro popolo a partecipare nei pericoli e nelle speranze della guerra contro il commune nemico; altra cosa era, dopo breve jattanza, tendere la mano supplichevole alle ginocchia del forte. Era un umiliarsi, come i tetrarchi dell'Asia innanzi al popolo romano; era un infeudare la monarchia alla republica. A tali strette, conveniva prostituirla piuttosto all'imperio austriaco, il quale era almeno un essere della medesima natura. S'era re il vinto, era re anche il vincitore; il principio della regia supereminenza e maestà non era messo appiedi d'una plebe.

Coll'Austria si poteva rifare amicizia, già tante volte in tanti secoli rotta, e sempre racconciata. Poteva avere a merito l'aver guasto e storpiato una ribellione; l'averla rattenuta e inceppata tra le fortezze dell'Adige, quando agitava già la sua face nelle valli tirolesi, e dalla Ponteba tendeva la mano alli Ungari frementi. Infine che cosa aveva tolto all'Austria Carlo Alberto? Le aveva tolto Peschiera. Ma l'aveva più o meno aiutata, o lasciata fare, a Udine, a Belluno, a Palma, in Cadore, in Tirolo, a Treviso, a Curtatone, a Verona, a Vicenza; e ora poteva renderle ogni cosa perduta. E non ostante la vittoria, l'Austria, per ristaurarsi in Milano prontamente e prima che altro nascesse, aveva necessità dell'opera di lui, e doveva essergli ben grata.

Infatti, se Milano fosse apertamente abbandonata dal re, appunto nel terrore della vendetta nemica e dell'inevitabile vituperio, poteva attingere la forza d'una magnanima disperazione. Infine l'esercito che veniva ad assalirla, battaglione più, battaglione meno, era il medesimo ch'ella aveva quattro mesi inanzi vomitato fuori dalle sue mura. Se aveva potuto conquiderlo allora, quando era padrone delle piazze e delle porte, e la fulminava dal castello e dal duomo, ed ella era senz'armi e senza capitani, non poteva soggiacergli senza contrasto ora, che i suoi cittadini s'erano armati e ammaestrati, ora, che lo straniero cominciava il combattimento fuori delle mura, tra un labirinto di fosse e di prati aquidosi, al sole e alle febri d'agosto. Il popolo aveva solo a imaginarsi, che il del ritorno dei nemici altro non era che il sesto giorno del primiero combattimento. L'intervallo dei quattro mesi si era lasciato al re, perchè vi facesse le sue prove. Adesso, che si era dimostrato quanto valesse il regio fantasma, il popolo riposato e armato poteva cominciare da capo un'altra delle sue settimane.

Per armarsi non era necessità, come nei cinque giorni, svellere i fucili di mano al nemico. V'erano 28 mila soldati, in gran parte veterani, ammaestrati dal nemico stesso, buoni per lo meno quanto l'altra sua gente. Vi erano quattordicimila volontarii e studenti, che avevano già durato più mesi ai pericoli e ai disagi; l'esser chiamati a difendere una città doveva parer loro un riposo. Tutta la montagna era libera, e dietro i monti la Svizzera e la Francia; Venezia era nostra; e per salvare Milano combattente, nessuna delle città vicine avrebbe negato un drappello d'ausiliarii; e per poco che si tenesse fermo, si poteva ricevere qualche maggiore e più militare aiuto. E il popolo poteva sperarlo, perchè combattendo aveva diritto a dimandarlo; e forse la speranza sola del soccorso gli avrebbe dato forza di vincere; poichè la prima forza è nell'animo. A nome del popolo si poteva dimandare alla Svizzera quello stesso esercito ch'era pronto per noi in aprile. le ricchezze della Lombardia erano in quattro mesi consunte, sicchè non si potesse stipendiarlo generosamente. Bastava che non fossero al timone li avari e i loro facendieri; bastava l'imminente pericolo. I cinquanta millioni che il ladrone nemico potè tosto emungere ai vinti, non sarebbero mancati ai combattenti e ai vittoriosi.

Ma poteva il re soffrire che tuttociò avvenisse? Che avrebbe detto il mondo, se quando egli co'suoi soldati fuggiva, si fossero veduti i cittadini farsi intrepidi e affrontare il nemico? Io credo anzi che Piemontesi e Savoiardi, quando pure si fosse voluto ricondurli alle case loro, al primo suono del cannone sarebbero tornati a turbe sotto le nostre mura, anche senza i generali e senza il re.

Poniamo che il nostro popolo fosse stato vinto, e la città sconvolta dalle mine, saccheggiata e arsa; qual grido di maledizione non si sarebbe levato contro il re seduttore che avesse potuto farsi da canto e rimirare in ozio quella ruina! Poniamo al contrario che il popolo avesse avuto costanza e fortuna; che avesse potuto tenere le orde straniere a marcire quindici o venti giorni nel fango delle inondate vicinanze; che avesse fatta qualche notturno assalto di baionette ai quartieri nemici; insomma, ripreso e continuato col primiero animo il combattimento di marzo. Poichè qui non si parla di cose strane e impossibili. Doveva il re lasciare alla causa popolare siffatto trionfo? concederle un esperimento così splendido della sua potenza? La causa del regno era perduta e scornata.

Ma si ponga pure che il popolo avesse rinovato il sacro patto di guerra vinta, anzi, che a guerra vinta il voto dei più fosse stato d'inalzare in Milano un trono, non si sarebbe potuto, per fermo, più assumervi il re disertore. E sarebbe stato mestieri cercare in altro sangue il re della nuova Italia; e il re dei vittoriosi sarebbe stato al vinto Carlo Alberto un vicino ben più molesto d'una republica. Genova avrebbe voluto esser sua; sarebbe stato mestieri restituire alla corona ferrea tutte le prische gemme. Perocchè la via del Sempione è fattura nostra; la Lomellina è nostro patrimonio; Alessandria è un monumento della nostra libertà.

Diciamo dunque che il re poteva più difender Milano col solo esercito suo; poteva sinceramente ed efficacemente associarsi il popolo: poteva invocare alleati; finalmente ritirarsi dalla guerra se il nostro popolo avesse perseverato a combattere; perocchè sarebbe stata ignominia lasciarlo perire; e sarebbe stata dappocaggine lasciarlo vincere da , sia poi ch'egli si avesse a costituire in republica, ovvero in regno.

Insomma: o la casa di Savoia, o da capo la casa d'Austria.

Così è; non si doveva lasciare intervallo di luogo o di tempo tra Carlo Alberto e Radetzki. I soldati del re non dovevano essere più d'una tappa lontano da quelli del maresciallo. E in Milano non dovevano uscire di Porta Vercellina, se il nemico no era messo in potere di Porta Romana!

Tale era il quesito da sciogliersi; vediamo a parte a parte come fu sciolto.

 

La prima cosa da farsi era fomentare quanto più lungamente si potesse una falsa sicurtà, affinchè i cittadini non avessero tempo da raccapezzarsi, aprirsi altra via di salvamento. Il nemico era pericolosamente vicino; la distanza da Peschiera a Milano si stima d'80 miglia. Il general Salasco fece bandire altamente la vittoria del re. I diecimila nemici che avevano sforzato a cannonate il passo del Mincio, la mattina del 24, prima che la battaglia del re cominciasse, erano al suo dire, "una banda dispersa; i battaglioni di Monzambano non durerebbero fatica a impadronirsi anche di quei pochi fuggiaschi; l'importante era d'aver distaccato da Verona il corpo di Radetzki; a dimani lo sconfiggerlo e farlo prigioniero!"

Nel giorno stesso che i generali comparivano inanzi a Radetzki a supplicarlo dell'armistizio, si publicava alla sera a Milano : "l'esercito conserva la sua numerica superiorità; un esercito di 60 mila combattenti deve ispirare una gran fiducia." Ancora la sera seguente si publicava che l'esercito "era schierato a Goito, in perfetto ordine di battaglia". Un maggiore, mandato a Peschiera dal campo dei volontarii, per avverare le tristi apparenze che si scorgevano dall'una all'altra riva del lago di Garda, giunse "nel momento, egli scrive, che un corriere del campo apportava in Peschiera la falsa novella della presa di Mantova e dell'entrata del duca di Genova in Verona. Il comandante di piazza mi fece arrestare, e il generale comandò di sorvegliarmi. La verità penetrò infine; ma non per questo si dimise il proposito d'ingannare i popoli e tradire i volontarii. Era fra questi una voce: a Milano, a Milano! Ma quell'ardore, anzichè fomentato, venne represso. Si ripeteva, ancora e sempre, che l'esercito regio basterebbe a tutto; che li Austriaci sarebbero ben presto in ritirata; che i volontarii dovevano attenderli al varco, al ritorno, e annientarne le reliquie.86"

 

Dalla presunzione della vittoria si volle che il popolo di repente piombasse nell'avvilimento della disfatta; poichè, prima di udirla, ebbe, per così dire, a vederla nelle turbe di soldati fuggiaschi, che vennero con perfido consiglio sospinti verso Milano. E senza necessità e senza verun pudor militare, attraversavanla da un capo all'altro, scalzi, scollati, laceri, col capo involto in luridi fazzoletti, con visi scarni e febrili, fra lo stupore e lo sgomento del popolo, non senza pietà veramente, ma eziandío non senza sdegno dell'improviso disinganno.

E qui abbiamo diritto ad affermare che non si poteva dirigere a quella volta la ritirata se non per un malvagio proposito.

In truppe sbandate il disordine cresce ad ogni marcia, e peggio se di notte; i vigorosi si dilungano sempre più dei deboli e dei pigri; le compagnie si mischiano, i capitani perdono ogni autorità, i soggetti ogni rossore; si fanno accattoni; la fame, la sete, le ferite, le miserie tutte non riparate si aggravano. I disordinati si potevano, fin dal giorno 27, rattenere ai ponti dell'Ollio; e colla promessa del cibo e del ristoro, e colla forza dei gendarmi e delle guardie nazionali che dovevasi tener pronte e indettate a siffatti servigii, si potevano raccogliere in Casalmaggiore e Cremona, tragittare subito oltre Po, e ricoverare in Parma e Piacenza, ove avrebbero trovato un'ospitalità non esausta stanca, essendo quei paesi ancora intatti, ed essendo, pel riparo del Po, meno aperti allo spavento ed alla confusione. Fermata la marcia, aveva confine il disordine, anzi non avrebbe avuto campo a nascere.

Ancora al ponte di Pizzighettone, si poteva rivolgere li sbandati verso la vicina Piacenza; d'onde dietro al Po era breve, tranquillo e quasi secreto il passaggio in Alessandria. Da Pizzighettone al confine sardo, per Piacenza è una ventina di miglia; per Milano sono sessanta. E parimenti dal ponte di Lodi al confine sardo, per Pavia sono venti miglia di buona e diritta strada, per Milano sono quaranta. I perfidi generali preferirono la strada più lunga, e dove lo scandalo e lo sgomento potesse farsi maggiore.

 

All'Ollio non si fece resistenza. Se ne scusa il general Bava, e dice : "mancando il fiume d'aqua, a motivo della stagione, resta mal difeso e pericoloso per coloro che occupano la riva destra, trovandosi l'Ollio quasi parallelo al Po, e per conseguenza esponendo i suoi difensori ad essere rinserrati da un movimento offensivo nel passaggio dell'alto Ollio. - Credetti conveniente partito il proporre a Sua Maestà di portarsi sulla linea dell'Adda"; pag. 81.

Sappiamo già quanto i generali del re valessero in geografia militare. Tuttavia se avessero solamente messo l'occhio nelle nostre Notizie naturali e civili sulla Lombardia, vi avrebbero trovato che la mancanza d'aque nell'Ollio a quella stagione è artificiale e volontaria, poichè vengono rivolte tutte nelle irrigazioni. Ora, niente più facile, col buon volere e l'interesse di quei generosi popoli, ostruire pel momento li incili delli aquedutti, o rompere le pescaie, e lasciare al fiume tutta l'aqua irrigatoria. E fa una massa veramente enorme, essendo di 1800 e più once, ossia di 4600 metri cubici ogni minuto. Perlochè, senza considerare quella che rimane sempre nel fiume, è già superiore alla massa d'aque che in quella medesima stagione ha la Senna in Parigi. E chi è quel general francese, che in qualsiasi stagione dell'anno, si scuserebbe affatto di difendere il passo della Senna, per mancanza d'aqua?

Dai calcoli dell'idraulico Lombardini su tutti i fiumi tributarj del Po, registrati nelle medesime Notizie (Prospetto XI, p. 209), appare che l'importanza dell'Ollio a Canneto, ov'era a farsi l'accampamento trincerato, è ancora assai maggiore, anzi più che doppia, di quella del Mincio a Peschiera, stando fra loro i due moduli idraulici come 136 a 67. È all'incirca la medesima di quella del Po a Torino, ch'è come 139.

L'Ollio e li altri nostri fiumi che provengono dai grandi laghi alpini, hanno più aque appunto nella stagione estiva, cioè da mezzo maggio a mezzo novembre. È vero che parte delli aquedutti era sulla sinistra del fiume, verso il nemico; ma anche da quella riva i più considerevoli si diramano all'alto, presso il lago d'Iseo, dietro Brescia e i monti della Francia Curta, entro profondo avvallamento, insomma in luoghi ove il nemico non avrebbe potuto stabilirsi così tosto, così tranquillamente, da intraprendere siffatti lavori. I generali, in quattro mesi di tempo, e principalmente dopo l'incursione del Daspre a Mèdole, dovevano pensare a simili casi; e consultare i periti del paese, e preordinare la difesa con movimenti d'aque e di terre, e mine e batterie ai ponti, e adunate di popolo armato sotto capi militari, e qualche polso di truppe stanziali. Ma se un uomo savio avesse mai detto, una settimana inanzi, che giovava fare anche qualche provedimento pel possibile caso d'una sconfitta, avrebbe mostrato di non fidare ciecamente nella spada d'Italia, e sarebbesi gridato settario dell'Austria. Così tutto quell'edificio diroccò, perchè posto sovra malvagio fondamento d'imprevidenza, d'arroganza e di soperchieria.

vale parimenti l'asserire che la giacitura del fiume, nella sua parte bassa e navigabile e quasi parallela al Po, esponesse così facilmente i difensori ad essere intercettati nella parte superiore. Poichè per raggiungere questa parte superiore, cioè Pontevico e Chiari, il nemico doveva prima attraversare tutta la provincia di Brescia, lasciarsi alle spalle Peschiera e Brescia medesima, ovvero forzarle; il che non avrebbe fatto senza tempo e sangue. Brescia ha mura e un castello, e quarantamila abitanti, e i colli intorno sarebbero stati difesi, come altre volte, dai valorosi suoi valligiani, e questa volta anche dai volontarii ch'erano da lungo tempo in quei monti. E in quei medesimi giorni, oltreciò, la trovai difesa da cinquemila uomini e diecisette cannoni, appieno tranquilla, quando il nemico era già in Cremona e in Lodi. Poteva difendersi come Vicenza e meglio.

 

Non si può facilmente credere che, se il re si fosse trincerato risolutamente sul basso Ollio, e non avesse lasciato partire, o fatto partire, le brigate fresche di De Ferrère e Sommariva, e avesse chiamato a Gavardo e a Brescia quanti armati avevano i Bresciani, e a Sàrnico e Bergamo i Bergamaschi, e i Comaschi a Pontida, il nemico avrebbe avuto animo di passar così fidamente l'alto Ollio e l'Adda. Perocchè in quei luoghi è agevole far contrasto, per l'altezza generalmente superiore della riva destra, attesochè da fiume a fiume il piano del Po discende sempre d'uno scaglione verso l'Adriatico. Un piccolo corpo regolare con forte proporzione di cavalli e d'artiglieria leggere, qua e compeggiando, avrebbe dato grande animo ai popoli di difendere tenacemente le città, i ponti, i boschi.

Accampato il re sul ponte del basso Ollio col suo gran parco d'artiglieria, non aveva solamente l'appoggio d'un fiume navigabile, ma parallelamente a quello e al Po aveva la Delmona e li altri profondi canali di scolo del Cremonese. Poteva valersi delle alte e continue linee delli argini per le communicazioni e le stazioni dei popoli armati; e con poche opere poteva spargersi intorno vaste inondazioni; fra le quali il nemico non poteva più aprirsi il passo con l'equipaggio di ponte, dirigersi colle solite carte. E infine Cremona medesima, divenuta testa di ponte, si poteva anche senz'esercito difendere assai più che Vicenza e Treviso, perchè bastionata, e non dominata da poggi; perchè ricinta di fossi, di paludi, di rive selvose, e fiancheggiate da Pizzighettone e dalla foce dell'Adda; perchè infine popolata d'uomini risoluti, ai quali si sarebbero tosto aggiunte turbe d'amici da Parma, da Piacenza, da tutto l'Apennino. In paragone alle città dell'Europa settentrionale, le nostre per la solida loro struttura possono tutte valere momentaneamente per fortezze.

Un esercito può sempre difendere a palmo a palmo il terreno, quando è circondato dal favore dei popoli, e sicuro della ritirata dietro un gran fiume come il Po. il nemico, per passione che potesse avere di mostrarsi ancora sotto i bastioni di Milano, avrebbe osato allontanarsi cento miglia da Verona, lasciandosi a tergo l'esercito del re, e i volontarii della frontiera tirolese, e i ventimila uomini del presidio di Venezia, e a destra Peschiera e Brescia e i suoi monti, e a sinistra l'Ollio e Cremona. Il piano tra Peschiera e l'Ollio è largo appena una ventina di miglia, e poteva da ambe le parti in una breve marcia essere intercetto, essendo pieno d'ostacoli, che la guerra di popolo doveva rendere più formidabili e numerosi. Ed è strano che li officiali d'un esercito, che non fece tentativo alcuno di difesa, riconoscano ch'era une des contrées de l'Europe la plus facile a défendre87; e ciò per i molti fiumi, e li infiniti canali, e le dense piantagioni, che intoppano ad ogni passo i cannoni, e non lasciano spazio libero alla cavalleria.

Sono moltissimi i casi, nei quali il generale in capo si lagna di non aver potuto operare, o perchè "il suolo folto di piante non lasciava vedere al di di cinquanta passi"; o perchè il terreno "ovunque sfondato, e i molti fossi che dividono i poderi erano pieni d'aque, e non restava communicazione possibile fra le truppe, tranne la sola strada". Le quali cose abbiamo caro a ripetere, perchè se mostrano ciò che quei dappoco non fecero, mostrano anche ciò che capitani d'altra scuola potrebber fare. Ma siffatti impedimenti si consideravano dai generali del re, sempre e solamente, per non andare inanzi; e non mai per tenere indietro il nemico. mai pensarono in alcun caso a imitare ciò che il nemico aveva fatto in quattro giorni di lavoro, dopo il combattimento di Curtatone, per chiudere loro quell'identica via di Cremona. infine considerarono mai la micidiale persecuzione che avrebbe fatta ai nemici il popolo, se una mano fedele, con ordine premeditato, l'avesse diretto a stancheggiarli, isolarli, e tribolarli d'ogni parte.

Come mai si osa affermare che una battaglia per difendere Milano sarebbe stata sans antécédent militaire? Tutta la pianura intorno a Milano, da Mantova sin oltre Alessandria, è una serie di campi di battaglia. Quivi sono le vestigia di Napoleone, di Souvaroff, di Joubert, d'Eugenio di Savoia, del re Francesco, di Baiardo, di Trivulzio, di Gaston de Foix, di Prospero Colonna, di Francesco Sforza, di Barbarossa, di Carlomagno, e perfino d'Ottone e Vitellio, d'Annibale e Scipione, di Marcello e Viridomaro. - Milano si difese contro i Romani; contro i Goti; vinse a Legnano i Tedeschi di Federico I; a Cassano i Saraceni di Federico II; a Parabiago la cavalleria francese; a Bicocca la fanteria svizzera. Marignano, Pavia e Lodi sono nomi noti a tutti i popoli. - Non sappiamo se in un officiale sia peggio ignorare l'istoria dell'arte sua, o negarla.

 

Insomma nulla era perduto per la causa nazionale, perchè si fosse perduto il monte di Rivoli o il poggio di Volta. si trattava di vincere battaglie campali, ma sì d'indugiare il nemico e acquistar tempo. E il buon senso naturale mise allora nell'animo di tutti il medesimo pensiero, di difendersi quanto si poteva, e frattanto far publica chiamata al popolo francese. Ma il re, nemico più al nome republicano che non a suoi parenti d'Austria, appunto non lo fece; e finse gesuiticamente di farlo, mandando in Francia il Ricci, per mera mostra; anzi peggio. Poichè, come afferma il colonnello Ludovico Frapolli, era all'intento, "non già d'operare di concerto con noi, ma bensì d'addormentarci, e procrastinando impedire ogni risoluzione del governo republicano". E affinchè i cittadini per avventura non facessero la dimanda da , fece dire dal governo provisorio, il 31 luglio, che "a rinforzare l'esercito italiano si aveva lusinga che presto giungesse l'aiuto francese, stato formalmente dimandato dal ministerio piemontese e dal governo provisorio di Lombardìa". Quanto al ministerio piemontese, era un'impostura; poichè anzi, come narra Frapolli, "la demenza delle camarilla s'accrebbe verso la fine di luglio al punto di far intendere alla Francia, che, se il generale Oudinot non sapesse rattenere i suoi soldati, sarebbero ricevuti a cannonate al Forte Damian, vantandosi che il re teneva a tal uopo da cinque a sei mila uomini nelle gole del Moncenisio!". Quanto al governo provisorio, fu infatti inviato a Parigi anche il marchese Guerrieri, uno de' suoi membri; e si lasciò per qualche tempo tenere a bada dal Ricci; finchè incalzato dalli altri Italiani che erano, e che sapevano dal ministro Bastide che non si era fatto nulla, ne mosse particolare dimanda a nome nostro; ma tardi, poichè il re aveva già consegnata Milano al nemico; era già il nefasto giorno 6 d'agosto. E li altri Italiani, in una separata dimanda che fecero al generale Cavaignac in quel medesimo giorno, si lagnarono che il Ricci "esitasse ancora a dimandare l'immediato intervento". Solo il dimani, quando già il telegrafo indicava a Parigi inevitabile la resa di Milano, il marchese Brignole presentò un dispaccio da Torino, che chiedeva il soccorso della Francia. Gli si diede la risposta omai solita a mandarsi ai re: troppo tardi.

Afferma il Frapolli che il governo francese nei primi tempi era veramente desideroso d'essere chiamato in soccorso della nazionalità italica; e anche dopo che si palesò l'impotenza del re, non vi si rifiutava; se non chè dovendo attraversare il suo territorio, non voleva farlo senza di lui consentimento. Ma il re non volle accettare l'esercito francese altrimenti che come suo proprio alleato. Il che gli si negò, con queste memorabili parole: "finchè si tratta di combattere insieme ai soldati piemontesi, ancora siamo pronti. Ma marciare per l'interesse del re di Sardegna, avviluppare il vessillo della republica francese con quello di Savoia, no mai!"88.

 

Appena la ritirata dell'esercito fu popolarmente nota, ci presentammo al governo, dimandando che istituisse un magistrato dittatorio per difendere la città. Casati era a Torino; Borromeo voleva schermirsi; gli dissi, che se lo facesse immantinenti, avrebbe la nostra gratitudine; e se non lo facesse, i cittadini provederebbero da , poichè la città per rispetti umani non doveva cadere in mano ai nemici. Il governo promise, ma temporeggiò in quella suprema urgenza un giorno intero; nominò infine il general Fanti, il dottor Maestri e l'avvocato Restelli. Erano uomini valenti e onesti, e amatori più o meno aperti di libertà; anzi pare che due di essi fossero proposti dal Mazzini; ma il popolo non aveva avuto campo a conoscerli. Fanti era venuto allora di Spagna, e non era forse mai stato in Milano. Infine il comitato di difesa non era supremo e dittatorio. il governo si dimise; seppe sciogliere almeno medesimo dalle reti del re. Quando il comitato mi richiese cortesemente dell'opera mia, gli scrissi che si facesse publicamente riconoscere dittatore e padrone. Non accettò il consiglio, e fu cosa fatale.

Anzi chè concentrare le forze e accelerarle, i facendieri le allentavano e stemperavano, adunando a verbose e molli consultazioni gente d'ogni colore, e di vario anzi contrario proponimento. Invitato e sollecitato da Restelli, mi recai, non mi ricorda se il 29 o il 30, a un'adunanza nel palazzo Marino; vi trovai uno o due generali del re, credo Sobrero, poi Mazzini, e il general Zucchi, e Garibaldi in tunica scarlatta, il conte Arese, il poeta Berchet, Filippo de Boni e non so quanti altri contraposti. In quella ch'io entrava a crescere quello strano miscuglio, si stava conchiudendo che si dovesse in primo luogo determinare le cose da farsi per difendere la città; e in secondo luogo le facoltà dittatorie da conferirsi al comitato di difesa testè eletto. Il primo punto dava materia senza fine; ed era un porre il carro inanzi ai buoi; poichè la dittatura era l'atto preliminare che doveva dare a tutti li altri vigore, ardimento e velocità, e ove fosse necessario, secretezza. Era chiaro che al punto della dittatura non si voleva venire; e che i generali del re si mescolavano con noi, solo per far credere in città che si facesse a consiglio nostro. Perlochè dopo tre minuti, senza aver detto parola, fattomi scorgere, quetamente me ne andai. Se ne accorse De Boni, e mi seguì per farmi rimanere; poichè quei buoni republicani parevano già contenti di vedersi solamente trattati con un di cortesia. Ma io gli dissi che la prima misura di salvezza era di mandar tutti i generali del re al campo, ov'era abbastanza da fare; senza ciò avrebbero continuato a sventare ogni sforzo dei cittadini; ma mi pareva inutile il dirlo, finchè nessuno aveva il potere di farlo; e il potere non si sarebbe conferito, poichè li stessi membri del comitato non volevano intendere l'apertissima necessità d'averlo, e d'esigerlo, o anco di prenderlo da stessi, appellandosi al popolo.

 

Pare che il Fava avesse avuto sentore della malvagia intenzione colla quale il re veniva a Milano; e che per vanità del secreto di Stato, se ne lasciasse sfuggir di bocca qualche cenno; ma chi lo intese, n'ebbe serio spavento; e ne parlò a un capo della guardia nazionale, che andò tosto a farne parola al conte Arese, collega del Fava medesimo nel consesso supremo di polizia. Dall'Arese fu mandato con viglietto all'altro collega Litta Modignani, il quale fece chiamar tosto il Fava. Ma questi con facezia veneta facilmente tranquillò il collega e li altri astanti. Era strano assai che il consesso il quale "doveva scoprire le corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni nemici", fosse per fare la sua prima e unica scoperta nella persona del suo presidente e del suo re! I popoli che vogliono esser liberi, non devono soffrire altra polizia che l'assoluta libertà della parola e della stampa, e la scelta popolare ed elettiva di tutti i magistrati. Allora non si possono più tessere vasti tradimenti.

Pare eziandío che il Fava avesse incarico di disporre che in qualche repentino impeto di popolo non si facesse ricapito a persona che attraversasse i disegni del re; e sembra che mirasse primamente a quelli che come membri del consiglio di guerra si erano mostrati contrarii alli armistizii e alle dedizioni. Aveva fatto arrestare già due volte Cernuschi, e una volta Terzaghi; e sempre inutilmente. La mattina del 1 agosto fece arrestare Giambattista Frattini, uomo affatto estranio alla politica, assai probo e assai conosciuto in commercio; il quale veniva sovente da me per un'impresa che si stava concernendo con banchieri svizzeri per migliorare la navigazione del Ticino. Mi recai tosto al comitato di difesa per farlo liberare, e per mostrar loro la necessità di abolire immantinente quell'officio di Sicurezza, fucina regia di diffamazione, di discordia e di confusione; mi recai anche dal Fava e lo svergognai bruttamente in mezzo a suoi aiutanti; ottenni almeno che nel frangente che poi venne, quelli scioperati non ebbero adito a fare altro maggior danno. All'officio poi di Santa Margarita venni a sapere che quell'arresto erasi fatto per delazione suggerita al mio domestico; e sotto titolo che Frattini avesse tenuto il giorno prima, con me, in casa mia, discorsi contrarii al governo. Avevano a tal uopo ubriacato nella notte e regalato il mio domestico; poi l'avevano arrolato in un reggimento, cosicchè tornò a casa solo al mattino e per congedarsi; e fu egli medesimo poi che appostò il Frattini e lo additò a chi doveva arrestarlo. Così si preparava l'insidia per me; strana sorte, se mi fossi trovato chiuso a chiave in Castello da quei satelliti, il dell'arrivo di Radetzki!

Il comitato di difesa tentò in quel precipizio di far quanto poteva; dimandò un prestito forzato di 14 millioni alle famiglie agiate; chiamò alle armi tutti li uomini dai 18 anni ai 40; mobilizzò cento uomini per ogni battaglione di guardia nazionale; adottò uno studio fatto già dal mio amico ingegnere Filippo Bignami per la difesa dell'Adda; si fece progettare altre fortificazioni per la campagna e per la città di Milano; ma non pensò a incendiare e minare il Castello. Chiamò la leva in massa del paese fra l'Adda e il Ticino, ordinandola per communi, e destinando a lavorare quelli ch'erano proveduti solo di strumenti, e a respingere il nemico quelli che avevano armi. Ma il re non volle destinare alcun corpo di soldati, intorno a cui questa povera gente potesse rannodarsi, e spargere con maggior frutto il suo sangue. La volle lasciar sola lungo la parte superiore dell'Adda, dicendo ch'egli voleva difendere la parte inferiore; il che poi non fece.

Ordinò il comitato che dalla provincia si apportassero subito in Milano ventimila sacchi di frumento. Ma senza ciò, v'erano in Milano ammassi bastevoli ad alimentare per più d'un mese tutta la popolazione, se vi fosse rimasa. Attestò infatti Pietro Molossi, capo del magistrato d'annona e uomo integerrimo, che v'erano a notizia sua 4500 sacchi di riso, 12400 di frumento e farina, 6500 di grano turco, vino per tre mesi, altre derrate per tempo assai maggiore. Imagazzini di viveri erano muniti chi per 20 giorni, chi per 30; e da ultimo il timore delle nemiche rapine fece entrare in città tanti generi.e oltre alle solite masse del fieno di maggio per l’intera annata, altro in gran copia vi era entrato in quei giorni, perché il Comitato levò la gabella. Inoltre molte famiglie, già deliberate a sostenere un ‘assedio, s’erano raccolte in casa quanto bastasse per loro, e alcuni anche per li improvidi congiunti e amici. Infine era impossibile che il nemico potesseavvolgere tosto in efficace blocco una cittàvasta, in un terreno frastagliato da tante piantagioni, tanti canali, al cospetto di un esercito che aveva sei reggimenti di Cavalleria, e fra tanto popolo armato, senza esporre i suoi posti ad essere da fronte e da tergo, e tagliati a pezzi. Quanto alle munizioni da guerra, senza comprendere ciò che l’esercito aveva seco, e ciò che poteva aver tosto dalla vicina Alessandria, tutti i quartieri delle guardie Nazionali, i quali erano più di venti, erano provisti a dovizia. Ho testimonianza scritta che per quelle solamente del Duomo, v’erano in Campo santo 135 barili di polvere, 12 casse di cartuccie e altre di capsule e accèndoli. 300 mila cartucce si erano distribuite ai cittadini nel giorno 3; 300 mila nei giorni precedenti; cinquecentomila erano in corte; 400.000 al ministerio della guerra; e inoltre v'erano in altri luoghi 9 mila di kilò di polvere da cannone, e 45 mila di polvere da fucile. In fine molti privati si erano provisti largamente e di polvere forestiera e di quella della polveriera suburbana, che ne aveva messo in vendita per 4 continui mesi, 600 kilò al giorno. Si era costruito un nuovo molino nell'interno della città; tutte le spezierie s'erano converse in fabbriche di polvere e cotone fulmineo, come nei 5 giorni. S'intendeva di fare grandi mine. Si apprestavano inoltre ogni giorno 350.000 cartucce. Quanto al piombo, nei serrami delle case, nelle stamperie e in cento rami d'industria e di commercio, ne aveva la vasta e operosa città per parecchi milioni. Accadde poi che alcuni barili di polvere, ch'erano nell'armeria del genio, scoppiarono, con morte di molte persone. E quantunque la capitolazione fosse già fatta, i generali del re ne menarono gran rumore, come se non vi fosse più polvere in città. Il che fece dire a molti che fosse opera loro89.

Non ommisi per parte mia di suggerire vari provvedimenti, che mi folecito di accennare, perchè potrebbero forse giovare in altro tempo e luogo. Raccomandai che all'arrivo del nemico si ostruissero intorno alla città tutte le aque correnti, che si facesse una cerchia di fango90; dal che si avrebbe ostacolo materiale al libero giro delle artiglierie; confusione di molte strade colle linee dei canali; separazione dei corpi che intraprendessero il blocco; guasto inevitabile dei cavalli; impossibilità in siffatta stagione a quelle genti settentrionali di rimanervi anche solo pochi giorni, se non esponendosi a rapida distruzione. Infatti, anche senza ciò, in ottobre ventimila uomini, un quarto dell'esercito nemico, giaceva nelli ospedali.

Raccomandai di scemare l'effetto dissolvente della fusione, col preporre alle guardie nazionali capi che si fossero mostrati alla prova nei combattimenti di marzo, in luogo di quelli che si erano nominati per libidine di setta, e fuori dell'aspettativa di nuovi cimenti. E per porgere ai meno bellicosi un titolo a ritirarsi onorevolmente, proposi che in ogni quartiere, a voto delle guardie stesse, si deputassero alcuni officiali alla cura delle vittovaglie, dei poveri e altretali cose, conservando pur loro il titolo e li spallini. Rendendo elettivi e ordinando per parochie questi officiali di pace, si poteva liberar la città anche dalla peste delle tre polizìe. E li uomini forti e sinceri avrebbero ripreso l'influenza che i facendieri perdevano.

Proposi di richiamar subito dalle montagne i volontarii di Milano e delle città vicine. Era Milano il punto decisivo da salvarsi. E quanto più erano i volontarii, tanto men pretesto vi sarebbe a mettere in città i soldati del re.

Tuttavia, richiamando i volontarii, non si dovevano lasciare aperte le valli, esposta da tergo la linea che si stendeva dal confine svizzero dello Stelvio sino a Peschiera. Proposi perciò d'istituire un'altra linea di punti forti, lungo lo sbocco di tutte le valli sulla pianura, da Peschiera sino al confine svizzero di Como. Così, con poco sforzo, la metà montuosa della Lombardia rimarrebbe involta e coperta da tutti i lati.

Li abitanti di ciascuna valle dovevano attendere solo alla custodia di pochi e vicini punti, fidando che nelle altre valli si farebbe altretanto. Una parte dei volontarii formerebbe un corpo volante per apportare soccorso ai luoghi assaliti. Con ciò si torrebbe il principal difetto delle leve in massa che, accumulandosi sovra i punti in apparenza minacciati, lasciano infine scoperti quelli che il nemico ha veramente di mira; e allontanandosi troppo dalle case loro, non possono poi durare, per disagio di viveri e d'alloggiamenti, e abbandono delle cose loro a ignoti pericoli; onde al primo disastro vanno facilmente in confusione e avvilimento. Sarebbe piuttosto a chiamarsi armamento territoriale che leva in massa; impaccio universale al nemico, e appoggio ai difensori.

Il comitato vide l'utilità della cosa; ma si trattava di determinare i luoghi e le opere da forsi, e ordinare i capi delle valli, l'armamento, le munizioni, le raccolte di viveri, i messi, i segnali, i luoghi di salvamento e di graduale ritirata, e altre cose molte, le quali si sarebbero appena potute prevedere a assestare, se vi si fosse indefessamente atteso fin dal primo giorno della nostra liberazione. E il nostro comitato di guerra aveva veramente cominciato a fare, prima della fatale venuta del re, che ci aveva come impietriti. Pure il nuovo comintato m'incaricò di fare quanto poteva, dandomi in compagnia un veterano del genio. Giunto a Lecco il giorno 2, vidi con meraviglia, come fra l'imbecillità del governo e de’ generali, quei valorosi popoli di fossero già posti all'opera da , per difendere almeno il loro territorio. V'erano sentinelle da ogni parte, come in una piazza di guerra, quantunque 260 di quei giovani fossero già allo Stelvio; v'erano quattro cannoni sulla piazza; si erano fabricate in quelle ferriere alcune centinaia di lancie in forma di daga, e alcune migliaia di forconi; si lavorava a munire con muraglie e mine la chiusa fra l'Adda e il monte. Ci chiesero fucili, qualche altro cannone, e sopratutto ordini risoluti, anche per non sostenere, privati, tutta la responsabilità dei publici danni. Misi d'accordo quella brava gente per aggiungere un'altra linea più avanzata, in comune col distretto di Caprino; al che si trascelsero i due punti di Villa d'Adda e Cerchiera. Determinammo che i tre distretti di Caprino, Lecco e Valsàssina, avrebbero costituito una sola sezione, la quale avrebbe in comune il comando, la difesa, e le successive ritirate fino al fondo della Valsàssina. E doveva connettersi con un'altra sezione, che difenderebbe la valle del Brembo, col popolo dei distretti d'Almenno, Zogno e Piazza. Una terza sezione, per la valle del Serio, si formerebbe dai distretti d’Alzano, Gandino e Clusaone: una quarta si formerebbe dalle valli Calepio e Cavallina colla Riviera d'Iseo; una quinta dalla Val Trumpia; una sesta dalla Val Sabbia colla Riviera di Salò. Le sezioni di Val Camonica e di Val Tellina avrebbero atteso solo a resistere verso il Tirolo. Alcuni distretti però dovevano star pronti a far fronte da due parti; così Lovere poteva esser chiamato a concorrere anche colla Val Camonica; la Val Trumpia colla Val Sabbia. Bergamo, Brescia e Peschiera sarebbero state antemurali della linea, e avrebbero atterrito il nemico dall'impegnarsi seriamente entro le valli. Con provedimenti non molto diversi, si poteva rendere quasi impenetrabile al nemico anche la pianura; poichè dopo tuttociò, vi era pure un esercito.

A Bergamo trovai Garibaldi con molta bella gente, e fra l'altra un corpo di volontarii pavesi. I cittadini avevano barricate le porte della città bassa, e preparavano qualche difesa sul monte, ma avevano pochi cannoni e nessuna munizione; avevano solo 500 fucili militari, benchè avessero mandato a Milano 44 mila franchi in anticipato pagamento d'altri fucili; e avessero mandato alla zecca mezzo milione d'argenti, senza ritorno di denaro. In Val Calepio si era tagliato il ponte all'Ollio; e il Berizzi, che poi perì sul Gottardo, raccoglieva un migliaio di montanari, per sostituirli in Bergamo a quelli che Garibaldi voleva condurre al soccorso di Milano. A Brescia si fortificavano i colli; ma il popolo si lagnava dei capi albertisti, che distoglievano dalla difesa, e consigliavano di sottomettersi alli Austriaci. In tutti i villaggi si faceva buona guardia giorno e notte, e tutti erano volonterosi di far qualche cosa, ma non sapevano dove recarsi, mancavano d'armi e di capi. La nuova del tradimento di Milano giunse a Bergamo nell'istante che, abbozzata sui luoghi la linea di difesa, io stava publicando un indirizzo ai montanari, per chiamarli a darvi una mano. Aveva mandato Cernuschi a Milano a prender armi; tornò con mille e duecento fucili; ma giunsero a Lecco la matina del 6, quando le strade erano affollate di montanari che tornavano già indietro, senza aver trovato armi, modo di combattere. Alla Chiusa Veneta si disfacevano già le fortificazioni; sulla piazza di Lecco stavano abbandonati i cannoni; li feci imbarcare; feci prendere il largo a una buona carica di munizioni. Da tutte le parti si udivano i montanari maledire il re dei signori!

 

Aveva il re proseguito la strana e sciocca sua ritirata. "Durante il cammino mi richiese, dice il Bava, se non vi sarebbe stato mezzo di difender quella città (di Cremona), per noi tanto interessante, onde poter almeno far uscire il resto dei nostri malati e dei nostri magazzini. Ma io mi credetti in dovere di far osservare, che la cosa era arrischiata anzi che no, con l'Adda alle spalle. Che nullameno, formando due ponti, traendo partito da quello di Pizzighettone, e prendendo una buona linea, in quel paese boschivo e solcato di canali, si sarebbe potuto tentare l'impresa, forse con successo, per alcuni giorni. Laonde partii subito per Cremona, onde cercare e stabilire le posizioni.

Verso le 11 del matino, il cannone si fece sentire sulla stada di Piadena. La brigata Savoia era attaccata. Feci speditamente avanzare alcune compagnie di bersaglieri, due battaglioni d'Aosta e qualche squadrone di cavalleria; e i bravi Savoiardi vedendosi soccorsi, si fermano e contengono il nemico.

Nel matino era stato costrutto un ponte a Grotta d'Adda; si contava di gettarne un altro alquanto superiormente; un terzo era nella piazza di Pizzighettone; la quale in fretta veniva messa al coperto d'un colpo di mano. Così assicurati alle spalle, e in un terreno ripieno d'ostacoli e preparato previamente, sarebbe stato facile il difendersi gagliardamente con soldati disciplinati. Ma lo sconforto andava grandemente crescendo nelle file.

Mi risolvetti di supplicare il re di permettere che l'esercito uscisse di Cremona91.

Tutte le divisioni dell'esercito furono alloggiate, quello stesso giorno, nei villaggi della riva destra dell'Adda, fino al ponte di Lodi; nella quale citta stavano la divisione lombarda e i Toscani. - Nella notte del 31, ricevetti avviso dal generale d'Aix, che il nemico stava sulla sinistra dell'Adda92.

Nel matino del 1 agosto, si udì qualche colpo di cannone nella direzione di Grotta d'Adda. E verso le sette mi pervenne altra lettera del generale d'Aix; nella quale mi avvisava che la sua artiglieria non poteva essere collocata; che il nemico gettava il suo ponte; e ch'egli in conseguenza stava riunendo le sue truppe, e prendeva la direzione di Cornovecchio e Piacenza.

Partii subito, onde contramandare l'ordine della ritirata. Mi informo di quanto accadde, e mi si risponde che il nemico ha già passato il fiume! Mi rivolsi verso Pizzighettone, onde darvi le occorrenti disposizioni per lo sgombro, non essendo la piazza vittovagliata93.

Il Ferrero attribuisce l'abbandono dell'Adda alla viltà del generale marchese Sommariva; il quale, per la seconda volta, e sempre impunito, e quindi si può dire, per volontà del re, abbandonò il campo di battaglia; e condusse precipitosamente a Piacenza le brigate Aosta e Regina, tre batterie e alcuni squadroni94.

"Messa Sua Maestà a parte di quanto accadeva, prosegue il Bava, dimandai quale direzione volesse tenere. Passando per Piacenza e Pavia sulla destra del Po, l'esercito sarebbe stato subito al riparo, dietro un grande ostacolo; e noi rimarremmo sul fianco sinistro del nemico, s'egli tentasse di marciare su Milano. Ma siccome non potrebbe dirigervi che un distaccamento, probabilmente egli rinuncierebbe ad una così fatta impresa; e sarebbe obligato a tenersi a noi di fronte"95.

 

Ma in tal caso il re aveva gelose cure in Milano; e non poteva lasciarla alli impulsi dell'esaltazione cittadina. Perlochè, il giorno 2, quando Fanti e Restelli, vedendo abbandonata l'Adda al nemico, e resi vani i preparativi da loro fatti sulla parte superiore del fiume, si recarono a Lodi per sapere a che gioco giocasse Sua Maestà, non furono graziati di udienza dal re; ma ebbero risposta dai generali che intendeva recarsi a Milano, per difenderla, contando sull'opera dei cittadini.

Richiamarono dunque dell'Adda a Milano la leva in massa e li ingegneri, per restringere a tutti li sforzi alla difesa delle mura. Avevano ripartito la città in quartieri; ad ogni quartiere era fatto assegno di munizioni, d'ingegneri, di pompieri, di chirurgi, di sovrintendenti. E parecchie migliaia di braccianti, collo stipendio di tre lire al giorno, furono posti a munire di terrapieni le parti men difese.

Senonchè obliarono la prima e suprema di tutte le difese, chiuder le porte, e rompere sotto pena di morte ogni communicazione coll'esercito del re, lasciandolo operare nella campagna come gli convenisse. Infatti, mentre fra l'immensa agitazione del popolo, era più necessario di lasciarlo reggere da mani nelle quali avesse conoscenza e fede, il re afferrò quell'infausto momento per prendere vano e insidioso possesso della Lombardia. Il giorno 2 di agosto, il governo provisorio dichiarò di cessare. Il giorno 3, si costituirono commissarii del re, un generale Olivieri e un marchese di Montezèmolo, uomini dei quali il popolo nostro mai non aveva udito il nome. Si prestò ad assisterli nell'impresa Gaetano Stringelli, figlio di quello ch'era secretario della reggenza, quando Milano fu data alli Austriaci nel 1814.

Il re doveva prendere, poichè doveva consegnare.

Il governo provisorio si era impadronito del paese in quel giorno medesimo che Radetzki uscì di Milano; e lo tenne fino a che Radetzki non fu tornato sotto le mura. I suoi fasti cominciarono dai tentativi d'armistizio, e finirono colla complicità del tradimento. E codesti uomini hanno la fronte di esibirsi ancora, al cospetto dell'Europa, rappresentanti e depositarii della nostra indipendenza!

 

Il giorno 2 a mezzodì, i soldati che dovevano consegnarci al nemico, giungevano alle nostre porte; si accampavano in semicerchio a mezzodì e levante, dal canale di Pavia a quello dell'Adda.

Primo pensiero dei miseri accecati cittadini era stato di rifornire d'ogni cosa bisognevole l'esercito, di cui si decantava la disperata penuria. Il dottor Foldi, partendo da Milano alla sera, per consegnare a Lodi un convoglio di pane ch'erasi già diretto a quella volta, incontrò a Marignano i commissarii militari, che gli dissero esservi sovrabondanza di pane, ed esserne anzi in ritorno coi soldati venti carri (bare). Dimandarono in quella vece lardo, riso, sale. Foldi, reduce in Milano, prima di mezzanotte faceva apprestare le 30 mila razioni richieste; e recatosi al convegno dei deputati della guardia nazionale, si trovava la lettera del generale Sonnaz, apportata da Beretta membro del governo, nella quale manifestava piena sodisfazione per la regolarità dei provedimenti.

E il matino seguente, nel medesimo convegno, parlandosi di difetto che fosse di vittovaglia al campo, due dei deputati dissero che anzi i generali ne mandavano indietro, perchè d'impaccio ai soldati.

Giunte le truppe, il comitato fece confortare con pane bianco, e doppia razione di carne arrostita e di salato, di formaggio, di vino, di sigari, e distribuir loro quarantamila camicie nuove chieste a tal uopo ai cittadini. Questa volta non v'erano mani infedeli fra le provisioni e i soldati. "Le truppe erano commosse dalle fratellevoli cure; e quando le guardie nazionali, e molti cittadini si recarono nelle file dell'esercito a portarvi le parole della simpatia e del conforto, risposero loro quelle brave truppe di voler difendere la città, di voler vincere o morire insieme"96.

 

Era la parte più valorosa dei nostri giovani o trattenuta sul lago di Garda dalle false nuove, o a Brescia con Griffini, o a Bergamo con Garibaldi, o nel battaglione di guardie mobili in Venezia, o collocata dalla strategia del re fuori di città e dove la sua presenza non desse animo al popolo e nervo alla difesa. Si adoperavano oltreciò i generali a sconfortare i cittadini. Sobrero, per vuotare le casse, pagava in quei medesimi giorni mezzo millione di conti arretrati. I figli stessi del re, trattenendosi familiarmente coi capi delle guardie nazionali, insinuavano l'opportunità della resa. Olivieri, chiamati quei capi, lodò il buon animo e l'ardore che mostravano, esortò alla disciplina, poi partecipò quasi come una calamità che potrebbero venir chiamati a combattere in campagna aperta. "Picchiò e ripicchiò sulle parole campagna aperta; scrive un di loro. E parmi siasi messo di malumore, quando, anzichè vederci spaventati dall'imminenza d'una battaglia a sostenerci da noi novelli soldatucci, ci sentì tutti ad una voce promettere sulla vita nostra che nessuno si sarebbe mai ritirato dalle file; e che però noi lo pregavamo a lasciarci entrare nelle file stesse come semplici soldati, sostituendoci nel comando militari esperti".

Era il nostro popolo per malignità dei governi disusato alla milizia; ma aveva nelle vene il sangue de' suoi padri, e la vicinanza del pericolo glielo accendeva. Onde fin dal giorno 3, voleva rialzare le barricate; e nei quartieri abitati dalla fervida plebe già vi si poneva mano. Ma il comitato fece bensì all'uopo qualche ordinamento, convenendo colli ingegneri, fra le altre cose, dei varchi da lasciare ai carri dei viveri e delle artiglierie; ma raccomandò ai cittadini d'attendere il segnale che si darebbe colle campane. Se nonchè, saputosi ciò dall'Olivieri, se ne dolse aspramente; e protestò che valendosi de' supremi suoi poteri, richiamerebbe i signori del comitato ai limiti del loro incarico, parendogli modo inopportuno di difesa, e impedimento anzichè aiuto a un esercito.

Al matino del 4 udissi tuonare alle porte il cannone. Il popolo atterrito, "ma fieramente ansioso" dimandava le armi e le barricate, dimandava la campana a martello. Scrive uno dei comandanti della guardia nazionale: "Non ripeto qual entusiasmo destò in tutti il primo colpo di cannone. Io dovetti usare di quell'autorità che fino a quel punto non avevo mai conosciuto di avere, per rattener quelli che guidava al Dazio, i quali volevano correre disordinatamente al luogo ove il cannone li chiamava. In un batter d'occhio io ebbi al Dazio più di tre quinti del mio battaglione. Anche quelli della riserva, solo che fossero capaci di portar armi, corsero a me, pregandomi di non risparmiarli. Per tutta Milano era un'allegrissima gara d'onore".

Fanti e Restelli, recatisi tosto dall'Olivieri, gli chiesero licenza di preparare ad ogni evento le barricate, anche per occupare coll'apparato e coll'opera della difesa l'animo dei cittadini. Il satellite ricalcitrava; diceva non doversi fomentare vani spaventi; essere indecoroso l'ingombrare di siffatti inciampi una città difesa già da 45 mila soldati. Pur tuttavia promise che, dovendosi trovare quel giorno a mensa col re, gliene avrebbe mosso parola.

Quale insania era stata mai quella d'un popolo, che per sua virtù e per bontà di Dio essendo libero, s'era ridotto a implorare da quelli ignoti, a implorar quasi ginocchione sotto la loro mensa, la facoltà di difendere dai nemici la sua città !

Quale slealtà in quelli officiali, che ancora al presente, e dopo che ogni speranza di far frode al vero dovrebb'essere in loro svanita, insultano ai vani sforzi che il nostro popolo faceva di svincolarsi dal regale tradimento ! "Nous nous attendions à voir arriver tous ces jeunes Milanais, qu'on nous avait représentés comme résolus à s'ensevelir sous les ruines de leur ville. Mais je ne puis citer ici, qu'une vingtaine d'individus vêtus et armés en héros de mélodrame, qui sortirent de Porte Romaine au pas de charge, criant à gorge déployée: Morte ai barbari!"97. Il frivolo derisore non sa che la guardia nazionale aveva uniforme militare? anzi uniforme, dal color verde in fuori, modellato servilmente su quello dell'esercito piemontese? - Questi non sono modi da soldato.

 

Intanto che i generali si adoperavano dentro la città a sconcertare la difesa, si studiavano d'acquistar tempo al di fuori, non già valendosi di quel terreno intagliato e di quelle folte piantagioni, per far trinceramenti d'ogni parte; ma lasciando, sulla diritta via, crudelmente esposti i loro soldati a non so quale scelerata contrafazione di battaglia. Avendone più di 40 mila dei loro o dei nostri, e altra gente che accorreva d'ogni parte, non mandarono aiuto ai pochi combattenti; li lasciarono assalire di fianco; lasciarono prendere un cannone, o come altri dice, sei cannoni; soffrirono che qualche pugno di nemici si mostrasse impunemente fin sotto i bastioni. Pare che volessero aver pretesto di ritirarsi entro la città ed occuparla.

All'annuncio di quei nuovi disastri, il comitato, senza rincorrere più oltre il regio commissario, fece battere la generale, toccare a stormo tutti i campanili dentro e fuori la città, e distribuire ai cittadini le armi, che il ministro Sobrero teneva sepolte ancora nei magazzini. Se ne trovò da dare alla plebe quante ne volle; e rimasero ancora nelle casse tremila fucili che intatti furono preda al nemico ! Le guardie nazionali si raccolsero; i vecchi, le donne, i fanciulli accorrevano a far barricate; a mezzanotte l'ampia città era un labirinto inestricabile. ogni tristezza era dissipata; quel torpore servile, che dopo la poltronerìa della fusione s'era messo nelli animi, si converse in repentina alacrità; riluceva in tutti i volti la bellicosa letizia dei giorni di marzo.

Riverberavasi intanto entro le più interne vie il fosco chiarore delli incendi che li officiali del re ordinavano, per torre, dicon essi, all'artiglieria nemica ogni riparo98. Ma prima di arderle, avrebbero dovuto difenderle; e meglio, farle saltare in aria quando v'entrassero i nemici. E non si vede come l'incendio dei tetti o delle porte o delle masserizie, potesse impedire al nemico d'appiattarsi egualmente dietro le rimanenti mura e feritoiarle. Aveva forse tetto il cimitero di Santa Lucia a Verona? O credevano che fossero colà i tugurii di paglia o le case di legno della Russia, che il foco potesse distruggere fino alle fondamenta? - In fatto, era per funestare la moltitudine, e far paura a chi aveva roba.

Alcuni edificii erano già in fiamme per comando del re, quando un aiutante di campo venne a dimandare in suo nome al comitato di poter incendiare le case prossime alle mura. Il comitato rispose meravigliandosi che il re dubitasse che i cittadini fossero volonterosi a qualsiasi sacrificio. Infatti appena seppero che non era eccesso di nemica barbarie, ma provedimento di disperata difesa, salutarono con alti evviva all'Italia quelle gloriose fiamme. E si videro alcuni dar colle mani loro il foco alle proprie case. Si estima il danno a qualche millione; e quello delle merci e delle masserizie vi è per più della metà. Il che prova come non si operasse tanto per togliere precisamente i ripari al nemico, quanto per disconfortare all'ingrosso i cittadini.

Abitanti delle vicinanze della città dicono, che la vista di quelli incendii, e il suono delle campane per tutta quella notte dopo il tristo silenzio del matino, mise un indescrivibile sgomento in Radetzki e suoi generali. Avevano dunque avuto la fortuna di vincere con sì poco merito la guerra del re, per venire a far naufragio un'altra volta sotto quelle infauste mura? Molti credettero in quell'istante che la inesplicabile ritirata a Cremona e a Lodi, fosse stata un laccio per trarli lungi dalle loro fortezze, in mezzo a popoli nemicissimi, e a stradefacili a disfarsi; e mandarono a esplorare se mai la campana a martello si udisse anche alle loro spalle. L'arrivo di Garibaldi con Mazzini, da Bergamo a Monza, quasi alle spalle delli assalitori, con cinquemila uomini regolarmente armati, e le immense turbe di montanari che li seguivano con armi e senza, destarono profondo spavento nel nemico. Anche il contado di Cremona, dopo il passaggio delli Austriaci, visto che non erano i centomila che i generali dicevano, anzi nemanco la metà, si sommoveva d'ogni parte. Brescia e Peschiera e tutta la montagna erano in armi; i volontarii combattevano a Lonato; Venezia e Bologna erano pronte a profittare della pochezza dei nemici sul basso Po. Era venuto il momento in cui si vedesse quanto poteva una nazione.

 

Ma in quella medesima notte, alla luce di quelle fiamme, sfilavano tacitamente entro la città le baionette del re, circuivano le mura, prendevano fatale possesso di tutte le porte. Che più? il re medesimo apportava la sinistra sua presenza in mezzo ai cittadini.

Udiamo il suo generale. "Chiamato al palazzo reale, mi vi condussi subito, passando per mille barricate che li abitanti inalzavano festevolmente; e a cui stavano lavorando con un ardore che mi colpiva. Vidi molte persone portar viveri ai nostri soldati, dir loro parole di consolazione, somministrare aquavite, apprestar fochi per asciugarli dalla pioggia sofferta.

Quantunque tutti fossero inzuppati dall'acqua, tutti mostravano d'esser contenti. - Giunto al palazzo del re, intesi come S. M. avesse ordinato di radunare i suoi generali, per conoscere il loro avviso su ciò che fosse stato da operare in sì dure circostanze. Ci si disse che il gran parco d'artiglieria aveva naturalmente preso la direzione di Piacenza al nostro arrivo sull'Adda; quindi la nostra mossa verso Milano l'aveva diviso da noi. Siccome i piccoli parchi avevano proveduto a sostituire le cartucce adoperate in quello stesso giorno, non poteva quindi farsi conto che sulle munizioni da guerra in distribuzione presso i soldati. Era benissimo nella città qualche provisione di polvere, ma senza proiettili, segnatamente pei cannoni. Quanto ai viveri, non ne esistevano che per pochi giorni; ed il tesoro non ascendeva a più di franchi 120 mila. Queste cattive novelle persuasero a tutti l'impossibilità d'una lunga e onorata difesa. Tutti i membri del consiglio non esitarono a dichiarare che una tale condizione di cose rendeva indispensabile l'entrare al più presto in communicazione col maresciallo Radetzki, onde proporgli la resa della città. Si spedì quindi subito un officiale generale, che trovò il maresciallo a Sandonato; con cui facilmente si mise d'accordo; poichè L'INTERESSE D'UNA CONVENZIONE SIFFATTA ERA RECIPROCO!"99.

 

Surse l'alba del 5; la città era preparata ad ogni assalto; li uomini in armi; pronto il soccorso ai feriti; fumavano tuttavia li incendii intorno alle mura. Ma il cannone taceva. E una taciturna e tetra agitazione pervadeva i battaglioni del re

Verso le nove, furono chiamati in casa Greppi al Giardino i municipali; poscia, a richiesta loro, il comitato di difesa e i capi della guardia nazionale. Trovarono entrando il conte Resta, che colle lacrime alli occhi accennò loro confusamente di gravi calamità. Ma nell'anticamera, ov'erano Salasco, Pareto, Bava, Olivieri e altri siffatti, trovarono straordinarie cordialità, e sorrisi, e strette di mano. Poscia Olivieri si mise placidamente a dire, come il re, per difetto di denaro e viveri e munizioni, e per salvare la città, avesse capitolato; perlochè faceva loro sapere che l'esercito regio si ritirerebbe al di del Ticino; e un'ora prima d'uscire di Milano, metterebbe il nemico in possesso d'una delle porte; si era già determinato che fosse Porta Romana. Quanto ai cittadini compromessi, il maresciallo non garantiva nulla, non mescolandosi egli in cose di polizia; ma per quanto era in lui, li farebbe trattare con equità; e concedeva anzi licenza che seguissero, per la via di Magenta, l'esercito del re, fino alle sei di quella sera.

Mentre tutti stavano immoti fra lo stupore e lo sdegno, il marchese Pareto soggiunse: "già ben veggono ch'è inutile combattere colla necessità: anche l'intervento francese non sarebbe certo; e in ogni modo non potrebbe quell'esercito arrivare, se non fra una trentina di giorni".

Restelli disse, che per un siffatto tempo vi erano viveri a sufficienza; e in un Milano non poteva ad ogni caso esistere il necessario denaro. Ma Pareto l'interruppe dicendo: "e una città che attende nel suo seno un esercito, deve trovarsi sprovista di munizioni da guerra?".

Rispose Paolo Bassi: "ora dimanderò io, come mai un esercito che si chiude in una città per difenderla, arriva senza munizioni?"

Restelli allora si rivolse al generale Zucchi, ch'erasi fatto in quei giorni capo delle guardie nazionali, e disse : "veggo ch'è cosa fatta, e che dal re e da' suoi nulla più resta a sperare. Ma dacchè Milano diede il primo esempio in questa guerra, ora dia anche l'ultimo. E le ceneri di questa città coprano i nostri cadaveri! Zucchi, voi siete nostro comandante, non ci abbandonate voi?"

Zucchi dimenando freddamente il capo, rispose : "Che pro ne avrete voi, dopo che nelle ceneri di questa bella città avrete sepellito i vostri cadaveri?" Olivieri e Pareto approvarono. Pietro Maestri, Enrico Besana e Paolo Bonetti stettero con Restelli; ma Paolo Bassi ch'era podestà, disse che quando il re abbandonava la città, conveniva rassegnarsi e salvarla all'ira nemica.

Il maggiore Capretti dimandò a che fossero dunque chiamati? Non a consiglio, poichè era cosa fatta. Forse perchè non osando il re assumere in suo nome la capitolazione, volesse farli responsabili in faccia al popolo? E protestò ch'era dovere del re dichiararsene autore. Al che tutti li altri cittadini avendo aderito, Pareto disse che andrebbe immantinente a parlarne al re. Frattanto si dimandò all'Olivieri, come non si fosse messa una parola per assicurare i nostri soldati e le guardie nazionali. Olivieri, dopo lungo circuito di parole, conchiuse poter essi seguire l'esercito come individui. Capretti gli rispose: "Dal momento che fu accettata la fusione, noi abbiamo il tristo diritto, che però non credo sarà riclamato da alcuno, che l'esercito piemontese sia tenuto una cosa sola col nostro e colla guardia nazionale". Olivieri disse che avrebbe ordinato l'esercito in tre colonne, e avrebbe accolto nel mezzo le guardie nazionali che volessero accompagnarlo. Capretti rispose, che se più della metà del suo battaglione avesse deliberato d'andare in Piemonte, egli l'avrebbe seguito; ma ciò non essendo, egli prenderebbe quella via che gli paresse più opportuna alla sua salvezza e all'interesse della patria. Olivieri si rivolse a' suoi confratelli, dicendo : "qui è un caso nuovo; il maggiore ritiene ch'essi possano ritirarsi in quella via che più loro piace, come sarebbe in Francia. Io credo di no; perchè nella capitolazione è detto che devono seguire, l'esercito piemontese, anzi per la strada di Magenta. Che ne dite voi?" E tutti li altri confratelli risposero, non esservi dubio.

Si dimandò allora se il marchese Pareto non tornasse colla dichiarazione del re. Uno dei generali crollò il capo dicendo che il re già partiva. - Tutti allora uscirono precipitosi.

 

Il funesto annuncio correva già sordamente per la città. Pure una scellerata dissimulazione continuava la vile comedia della difesa. A mezza matina, tre officiali del genio con dieci soldati della medesima milizia, accompagnati dal cittadino che comandava il posto delle guardie nazionali a Porta Nuova, riappiccavano il foco alla casa già mezzo consunta di Gaetano Scotti; e stavano per ardere anche una vicina casuccia ov'era il suo scrittoio, quando un altro cittadino, che sapeva già per uno dei municipali la novella della resa, s'interpose dicendo che si risparmiassero almeno i registri d'un negoziante, massimamente dacchè il re abbandonava la città. Li officiali si ritrassero bensì da quella casa; ma si volsero ad ardere ciò che rimaneva delle scale e dei palchi delle vicine case Regazzoni, Castiglioni e Bellezza.

Queste smorfie dei militari facevano parer mendace la novella già per se tanto dura a intendersi dalli ostinati cittadini. Anzi li infelici che furono primi a proferirla in mezzo alla plebe, non solo furono gridati traditori e spie dell'Austria, ma trucidati. Montignani, uno delli amministratori dell'Italia del Popolo, perchè disse che la resa era ben possibile, fu preso da alcuni furibondi, e già stavano per fucilarlo; ed egli dimandava che lo conducessero sul vicino bastione e lo facessero almeno uccidere dal nemico, quando un capitano di guardie nazionali lo riconobbe, lo abbracciò fratello republicano, e lo salvò: il povero popolo guardava attonito, non intendeva più nulla. Quelli che avevano più ciecamente creduto, prorompevano in più disperata rabbia; erano essi, che, bestemmiando al nome del re, facevano furibonda calca intorno al suo palazzo. Li arringava il dottor Oldini, ch'era albertista e capo d'una società di costituzionali che si adunavano sopra il caffè Cova, e avrebbero voluto la fusione, ma solo a guerra vinta. Le carrozze già preparate alla fuga del re, furono capovolte per chiudergli il passo; i generali che si affacciarono alle finestre a dar parole, furono accolti dai loro partigiani a fucilate. Alcuni pretendono che il re medesimo toccasse al collo la scalfitura d'una palla. Alcuni soldati, ch’erano sparsi per la città con loro parenti, e in fratellanza col popolo armato, non credendo alla resa, colle lagrime alli occhi pregavano i cittadini a tranquillarsi e intender ragione. Qualche officiale, non meno leale, ma più esperto delle cose della sua patria, si strappò dispettosamente li spallini, dicendo di voler morire col popolo; e il popolo rispondeva: viva il Piemonte e infamia a Carlo Alberto! Era la voce stessa ch'io aveva fatto udire nella sala del governo provisorio il 24 di marzo. Allora poteva essere una voce di salvamento; oramai era vano strido di disperazione. Chi affida ai nemici nati dalla libertà la cura di salvarla, s'aspetti di vederla tradita.

 

Se il re giudicava impossibile la difesa, poteva rifiutare di parteciparvi; ma non doveva occupare la città, mai consegnarla di sua mano al nemico. Poteva dire onoratamente : "voi volete tentare un'impresa disperata; la città è vostra; fate voi. Non potete però costringermi a prendere sopra di me la sua ruina. Lasciate dunque ch'io vada co' miei soldati; e fate ciò che Dio v'ispira."

Ma in tal caso, ecco ancora fra la casa d'Austria e la casa di Savoia un popolo combattente; ecco l'aborrito spettro della libertà in Italia. Dunque prima d'uscire da una porta, doveva il re consegnare l'altra porta al nemico.

Senonchè, vedendo indomito ancora il popolo, non ostante l'assenza di tutta quasi la gioventù, e temendo di rimanere fra le convulsioni del gigante egli medesimo avvolto e annientato, ricorse a nuova simulazione. Fece gridare dal general Bava, che, ammirando l'animo dei cittadini, aveva deliberato di versar loro seco il suo sangue e quello de' suoi figli. Il popolo parve calmarsi; ma un cittadino propose che il re con tutti i suoi magnati fosse custodito, in pegno della veracità della sua parola; altri propose che la promessa fosse confermata dalla bocca medesima del re. Usciva allora Carlo Alberto sulla loggia, tra un frastuono d'applausi e di maledizioni. Gli si gridò che si voleva vedere il nero sul bianco, che si voleva una promessa stampata. Obbedì; fece publicare queste parole: "Il modo energico col quale l'intera popolazione si pronuncia contro qualsiasi idea di transazione col nemico, mi ha determinato di continuare nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Io rimango fra di voi co' miei figli." E nello stesso tempo mandò il general Bava a cercare una scorta di soldati, che potesse trarlo fuori di città. Ma il popolo non voleva dar passo a nessuno. L'astuto generale disse allora, che se lo tenevano prigioniero, era impossibile che dirigesse le truppe contro il nemico. "Venni abbracciato, egli scrive, da più di duecento persone, perchè le mie guide gridavano ch'io andava a far riprendere le ostilità; altri poi, che nulla sapevano della mia missione, mi copersero d'ogni sorta di villanie"100.

La promessa del re fu accolta con tripudio da pochi insanabili; ma con tetro sospetto dai più. È fatto notevole, che non si udì fra tanto tumulto un grido solo che fosse di politica e non di guerra. Li amici della libertà tennero anche in quell'estremo la data fede; tennero il giuramento di guerra vinta, benchè perfidamente infranto dai settarii del re. Lo tengono ancora oggidì, citando il ministerio Gioberti a mandare in Roma i deputati del popolo a deliberare anzi tutto della guerra, e non d'altro finchè non sia vinta la guerra.

Frattanto i soldati sfilavano tacitamente lungo i bastioni, traendo seco anche le munizioni e le artiglierie dei cittadini. Si erano levati dalla zecca e si accompagnavano a Torino quattro millioni di metallo, fuso delli ori e argenti dei cittadini.

Il re doveva consegnar Milano, per avere l'impunità, e prendere a Piacenza un brano di conquista, una foglia del carciofo. Poteva farlo, perchè aveva i suoi soldati, e teneva dispersi i nostri; e ad ogni caso aveva anche i soldati del nemico. Da due giorni non v'era altra legale autorità che quella de' suoi commissarii. Il governo provisorio, tramutato in consulta con diritto di partecipare ad ogni trattato, non era quasi considerato per nulla nella capitolazione; non fu considerato poi nell'armistizio; avrebbe dovuto protestare contro il tradimento, dichiarare sciolto il paese da ogni vincolo verso il fedifrago re. Preferse di tacere, e di conservarsi con turpe silenzio un posto nella regia anticamera. Il re faceva spargere nello stesso tempo la falsa novella che l'esercito di Radetzki, per ausiliarii bavaresi e d'altri confederati, aveva centomila combattenti. I cittadini, appena riavuti da lungo delirio, sentivano pesarsi sull'animo la materiale impossibilità di resistere ad ambedue i nemici. Quelli che avevano venduto la libertà e le più care opinioni per la speme dell'indipendenza e per l'ombra della forza militare, erano attoniti e quasi insensati. Dov'era dunque il regno fortissimo dell'Alta Italia, dell'Italia Boreale, il cui solo nome scritto sui registri doveva esser pegno di vittoria e di pace perenne? In quella orribil notte, l'ansietà, la rabbia, la disperazione, e in molti il pentimento, tolsero di senno un centinaio di cittadini. Tutti poi, col cader della speranza, rinasceva la pietà dei figli e delle donne, e il pensiero della privata salvezza.

 

Intanto il Bava, giunto fra i soldati, trovò, che, udite le voci di tradimento e di morte, alcuni volevano che si entrasse di forza in città per salvare la vita al re. "Quale spettacolo avremmo noi presentato all'Europa, egli scrive, se in mezzo ad una pugna fratricida, fosse venuto Radetzki col suo esercito, per rimetter l'unione in una famiglia composta d'elementi così contrarii?"101. Poteva aggiungere che Radetzki certamente si sarebbe messo col re; poichè il generale ha già confessato che avevano entrambi "RECIPROCO INTERESSE".

Alcuni generosi intanto volendo, almeno col proprio sangue, onestare quella indecorosa fine, uscivano a bersagliare una volta ancora il nemico, che lentamente veniva occupando i luoghi lasciati vacui dai soldati del re. Ma il Bava, dic'egli, fe' cessare benchè "con molta fatica, quelle inutili bravate"102.

Alle dieci della notte, egli mandò un certo Manzoli a esplorare a che punto fosse il re; poi si recò egli medesimo furtivamente fino alla piazza Belgioioso; e quando vide rari i cittadini, e finito il pericolo, andò a prendere soldati a Porta Orientale; e nel ritorno incontrò "fra le oscure e silenziose vie, tentone fra mezzo alle barricate" il re, che fuggiva a piede, seguito da bersaglieri e guardie. Dicesi che fosse uscito per una casuccia laterale, travestito da gendarme e menando a mano un cavallo, e raggiungesse in quell'arnese le guardie, che in agguato lo aspettavano. Camminò più d'un miglio, fino al collegio Calchi, accosto alla Porta Romana; ove almeno poteva avere aiuto anche da Radetzki. "Nel tempo convenuto, le truppe si trovarono in movimento, dice il generale, eccetto il battaglione che doveva consegnare al nemico la Porta Romana! A due ore, io partii dal collegio con S. M. a piedi; e c'indirizzammo a Porta Vercellina, in mezzo a nuove grida forsennate, che chiamavano il popolo alla porta medesima, per impedirne al re l'uscita. Seguimmo la strada delli spaldi (sono più di due miglia), fra spessi colpi di fucile, che si facevano sentire da tutte le parti, e il suono a stormo di tutte le campane, circondati da fitte tenebre, rotte solo di quando in quando dalla tetra luce dei molti incendii, che per spirito di malvagità e di rapina, si erano messi intorno alle case"; pag. 100. Si dimentica il generale d'aver narrato, poche pagine inanzi, che quelle fiamme erano preparate per comando suo, d'aver detto a pag. 91 : "intanto venivan prese, col pieno consenso del municipio, le occorrenti disposizioni, perchè se il nemico avesse obligati i nostri ad abbandonar quelle case, fosse il tutto pronto onde metterle in fiamme." Pare quasi di assistere alle confessioni d'un malfattore, fra le cui rotte e incoerenti risposte balza fuori involontaria la verità.

Il brutto spettacolo non finì alle porte; poichè i contadini nulla sapendo della resa o d'altri siffatti avvolgimenti, accorrevano pur sempre alla difesa della città. Dice il generale, e sia questa l'ultima citazione dal suo libro: "i nostri soldati, incontrando contadini armati, chè lo erano tutti, ed erano frequenti, non vedevano in essi che sicarii pronti a sgozzare la vittima designata; e quindi senza far parola, li disarmavano, li cacciavano a terra, e così li tenevano, finchè fosse passato oltre il re"103.

All'alba del giorno 6, prima che i soldati di Carlo Alberto consegnassero a Radetzki la Porta Romana, più di cento mila abitanti, ch'erano stati fermi e sereni al tuono del cannone, si precipitavano fuori delle altre porte. Donne, infermi, bambini, famiglie povere che non erano state mai lungi dalle mura native, di trascinavano fra la polve delle strade e fra i campi, senza saper bene ove andare, o di che sostentarsi. I soldati piemontesi, raggiunti dalle miserabili turbe, si staccavano dalle bestemmiate bandiere per assistere i più infelici, portando fra le braccia li infanti che non potevano più reggersi in piedi. Al confine piemontese, i generali avevano già dato la parola d'ordine d'insultare i rifugiati, per salvare medesimi dallo sdegno che la calamitosa istoria avrebbe acceso nei popoli. A Novara parecchi dei nostri furono vituperati e battuti, come traditori dell'Italia e del re.

Ci aveva trovati il re vittoriosi, gloriosi, concordi tutti nel provido patto della guerra vinta; ci aveva sconcertati, istupiditi, disarmati, consegnati infine al nemico; rimaneva solo di rapirci quella pietà che poteva consolare l'esilio. Fu la voce del nostro tradimento e della nostra viltà, ripetutami in Parigi per ogni parte ove fosse penetrata persona dell'ambasciata del re, che mi pose in mano la penna. Potevamo rassegnarci a perdere ogni cosa, non l'onore.

E resta ancora ad attingere un'ultima citazione dal libro del Ferrero. "Il 7 agosto, verso le cinque, li officiali di guardia al ponte del Ticino ebbero la visita di otto giovani officiali austriaci. Li abbiamo invitati a dividere le frugale nostra mensa, Accettarono con somma gentilezza. In poco d'ora la più schietta cordialità regnava fra noi. Dopo due ore i nostri ospiti si levarono; e ci siamo avviati a condurli fino al di la del ponte - In mezzo al ponte due sentinelle erano in faccia; vedendo il buon accordo che regnava tra li officiali, quei bravi soldati avevano pensato a ravvicinarsi. L'Austriaco tendeva al suo confratello di guardia la metà della sua pagnotta nera; e il granatiere savoiardo gli porgeva la sua zucca piena di vino. Quella vista fu il segnale per noi di nuove proteste di stima, e ci dividemmo vicendevolmente contenti e superbi;"104. Il povero officialetto di Sua Maestà, digiuno d'ogni sentimento nazionale, non si avvede come questo semplice suo racconto trafigga nelle viscere un popolo oppresso, disperso e martoriato. Quale stranezza non era mai stata quella di lasciarci toglier quasi di mano i nostri nemici; e delegare il materiale incarico d'una guerra morta a uomini che non avevano sofferto ingiuria, e non sentivano passione alcuna ! Così è; la guerra regia non poteva esser più che un sanguinoso tornèo.

 

Intanto rimaneva chiuso in Peschiera il quarto reggimento provisorio coll'artiglieria d'assedio. E i generali e ministri, sempre svogliati e traditori in ogni cosa, non avevano, dopo due mesi di possesso, rifornita la piazza di grani e di foraggi, nemanco di sale. E il nemico non tardò, come il re, a bombardarla; fece fare immantinente undici batterie, due delle quali incrociando i fochi, interdissero ogni accesso al lago, ove stavano ancora i volontarii. Già, quattro giorni dopo la presa di Milano, era esplosa la polveriera e distrutta la caserma dell'artiglieria, quando al 12, arrivò il cavalier Feccia di Cossato, e consegnò la fortezza al nemico, per ordine del re; e in quella malnata furia di dare ogni cosa al nemico, lasciò in sua balia il parco d'assedio, che ora poi vanamente si riclama.

Aveva parimenti promesso il re di consegnare i forti d'Osopo e d'Anfo; i quali erano acquisto nostro, e non erano mai stati in potere delle sue truppe. Ma Osopo non badò a quei vili accordi, e continuò fino a settembre la difesa cominciata in aprile.

Rocca d'Anfo fu consegnata da un altro Durando, fratello del salvatore di Vicenza. Fatto comandante generale dei volontarii, egli lasciò senza contrasto occupare da cinquecento nemici l'alta valle del Càffaro, ch'è la chiave di tutti quei monti. I volontarii gridavano al tradimento, e stettero per ammazzarlo; ma egli non si smarrì d'animo, e con arte e pazienza seppe trarli fuori dalla Rocca e da tutti i loro nidi, e ne condusse a Bergamo settemila. Quivi giunti trovarono un presidio nemico di soli millecinquecento uomini; il quale atterrito presentò loro le armi; e lasciò che a tamburo battente e tricolore spiegato, s'impossessassero del monte sul quale è l'alta città e il castello. Il bellicoso popolo applaudiva, sperando vedere un combattimento, e avervi la sua parte. Ma il Durando tenne quieta ogni cosa; e non volle pure che si sottraesse ai Croati un mezzo millione ch'era nella cassa provinciale, e che avrebbe fornito il pane a quelli che volevano combattere. Scrittore e guerriero, compiè quel nuovo Xenofonte la sua ritirata, girando quanto più lungi poteva dalla frontiera Svizzera e dai monti, d'onde qualche scintilla avrebbe potuto scendere su quella generosa gioventù; passò rasente quasi le porte di Milano, col turpe foglio di via del generale nemico; e consegnò in Piemonte i volontarii. Molti dei quali, per necessità d'esilio, ebbero a giurarsi soldati alla persona del re; e non più alla libertà, e all'Italia. E quivi rimarranno, finchè il tempo maturi di ricacciarli in Lombardia. Così fu rimosso il pericolo che la guerra di popolo riardesse.

I volontarii d'Apice che da quattro mesi difendevano i varchi alpestri onde scendono l'Adda e l'Adige, ebbero a disperdersi in breve per manco di vestimenta e di pane. Saverio Griffini, che aveva avuto la disgrazia d'esser fatto generale dal re, lo obbedì consegnando al nemico Brescia; e condusse fuori di paese cinquemila volontarii. Sia per poca cognizione di carte, sia per simulare intenzione di resistenza, partendo da Brescia prese la via dei monti; e a stento potè trarsi fuori del passo d'Aprica, ch'è quasi impraticabile ai cannoni; ricusò di spazzar via cinquecento nemici che sorprese isolati e spaventati in Val Tellina; consegnò uomini e armi ai Grigioni.

Garibaldi fu il solo che tentasse servare accesa la sacra fiamma; ma era troppo tardi. La gran giornata era al tramonto; era mestieri rassegnarsi, per cominciarne dall'alba un'altra con meno infidi auspicii. Garibaldi non seguitò il consiglio da noi mandatogli, d'inoltrarsi subitamente nell'ampio labirinto delle montagne che ingombrano tre quarti delli stati imperiali d'Italia; di trarre a le migliaia di volontarii, di regolari, di cittadini erranti; torli di mano a Durando e Griffini; rannodarsi a Venezia e Bologna che stavano impavide; profittare dell'immobilità del nemico, confitto ancora in Milano, e non senza sospetto del ritorno del re, o della venuta di soccorsi francesi. Ma per fatale attrazione verso il Piemonte, Garibaldi preferì rimanersi tra il lago Maggiore, la Svizzera e il nemico, in luoghi ove, non potendo moversi, o doveva tener piè fermo contro una forza maggiore, o ricadere in breve sulla frontiera e lasciarsi disarmare. Tuttavia lasciò co' suoi fatti d'arme una profonda impressione di terrore nel soldato nemico.

Sulla fine di ottobre, Mazzini fece ritentare da Dolzino, Medici, Daverio, Apice ed altri, lo stesso cimento nelle medesime anguste valli, tra il confine elvetico e i laghi; e già vi rispondevano dai monti di Pontida le bande d'Alborghetti. Ma secreti contrordini di Torino tennero immoti i Bresciani, anche in questa prova minori del loro nome, e ottusi al segno di non comprendere ancora che in Torino è il più duro ostacolo all'italica nazionalità. Molti capi negarono poi di trarre a troppo incerta impresa popoli che fidavano generosamente in loro. La stagione era troppo avversa; i monti già ingombri di neve; il professor Gavirati e altri giovani perirono di gelo sul monte Jorio. E il popolo nelle città non si era peranco riavuto dalla percossa e dallo stupore, ed era snervato dalla tema dei tradimenti. Una rivoluzione è una febre, e non viene a tutto un popolo per comando di chicchessia. È mestieri aspettarla. E tornerà.





86 Récit authentique etc., par A. Tedesco major etc.



87 " Les grands lacs qui baignent le pied des Alpes, les rivières qui viennent se jeter dans le Po, forment autant le lignes militaires. De nombreux canaux, des fossés profonds bordente toutes les routes, et les champs sont palissadés d'arbres et de haies. La cavalerie ne peut manoeuvrer sur un pareil terrain, et l'artillerie trouve des obstacles à chaque pas ". (Ferrero, p. 16).



88 Vedi i documenti annessi all'opuscolo: Les dernies événements de Milan. Paris, Dumaine, 1849, p. 40, 59, 60.



89«5 août. La poudrière de la ville vient de sauter; sans doute nous devons à un traite la perte du peu de munitions qui s'y trouvaient encore. Du reste la capitulation est signée.» (Ferrero, p. 111).



90  A tutti è nota la battaglia di Marignano, ove perirono molte migliaia di svizzeri; ma pochi sanno che il danno loro fu per divisamento ch’ebbe il famoso guerriero Gian Giacomo Trivulzio d’inondare intorno le campagne. Nell’Istoria di Milano del Verri, tom. III, pag. 192 si legge il passo seguente della Cronica di Marco Burigozzo: «Il signor Giovan Jacopo, come astuto capitano, venendo li Sviceri in campo su certo prato; et lui li dette l’aqua; per modo che la fu una grande ruina quelli poveri Sviceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati, e homeni maltrattati, tutti pulverulenti dal mezzo in suso, e dal mezzo in giuso bagnati».

Alla battaglia della Bicocca parimenti il popolo milanese si valse di certi fossi per avviluppare li Svizzeri e ucciderne tre mila.



91 [E. Bava, op. cit., p. 82, 83]



92 [E. Bava, op. cit., p. 84]



93 [E. Bava, op. cit., p. 85]



94 Sans même essayer de défendre ces positions, il s'est retiré precipitamment sur Plaisance. Reste à comprendre comment ce général, ayant sous ses ordres deux excellentes brigades (Aoste et La Reine) trois batteries d'artillerie, et quelques escadrons de cavalerie, n'a pas su rester à son poste". (Ferrero, p 104).



95 [E. Bava, op. cit., p. 86]



96 V. Ultimi tristissimi fatti di Milano, 2.a ediz., p.8.



97 [G. M. Ferrero, op. cit., p. 109]



98 "On nous fit incendier quelques maison l'on craignait que les Autrichiens ne s'embusquassent avec de l'artillerie". (Ferrero, p. 108).



99 [E. Bava, op. cit., p. 91, 92, 93]



100 [E. Bava, op. cit., p. 97]



101 [E. Bava, op. cit., p. 98]



102 [E. Bava, op. cit., p. 99]



103 [E. Bava, op. cit., p. 100]



104 [E. Bava, op. cit., p. 116]






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