XIII
A quest'ora le
corti d'Italia, liete di vedere atterrato il santo vessillo l'ombra del quale
fu sempre loro infesta, ben volentieri e apertamente, se vergogna non fosse,
porgerebbero all'Austria la mano, per soffocare la libertà e ripristinare
l'ordine antico. Ma ogni ordine che l'Austria può stabilire in Italia, è
anarchia. Dico anarchia il contrasto tra i pensieri d'una nazione e il fatto
delle sue leggi e della sua vita. Pure, solo da codesta procellosa e
sanguinolenta contradizione può scaturire la libertà; e dietro essa, e per
essa, la nazionalità. Solamente nell'abisso de' suoi mali può concepire il
popolo quella persuasione de' suoi diritti che ancora non ha, e che li adulteri
della religione posero finora in conflitto colla sua coscienza.
Fra le sue
sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un tesoro d'odio; e lo deve
al nemico stolto e feroce, che non seppe adoperar la vittoria se non a farsi
aborrire: un tesoro di fiducia; e lo deve a sè medesimo, perchè sa quanto ha
potuto e quanto può.
Milano non
sapeva di potersi destare una matina e senz'armi scacciare ventimila soldati;
nè Vicenza d'esser per virtù de' suoi cittadini una fortezza; nè il Cadore di
poter divenire isola inaccessibile in mezzo a un imperio nemico; nè Venezia
sapeva d'esser sempre signora delle sue lagune, e d'avere ancora in sè la
serena costanza de' suoi tempi antichi.
E il Piemonte
può volgere a salute la sua disfatta. Perocchè vide qual floscia tela fosse
quella della milizia del re; vide i capitani ignari, improvidi, infidi,
tentennatori, armistizianti, capitolanti, in somma traditori. Vide sparire sul
campo li sparire bellimbusti di corte; vide dalla più fertile terra d'Europa
riedere scarni e famelici i battaglioni; e dopo tanto nome d'esercito, e tanta
minaccia di scrittori, seppe d'avere avuto soli ottomila esperti soldati, e di
aver mancato delle più necessarie membra della milizia campale. Ma poco
sarebbe, se da questa dolorosa prova solo uscisse il Piemonte con un esercito
meglio raffazzonato e capitanato. La maggior ventura di quel regno si fu, che a
preparativo di guerra e lenocinio di conquista, abbia il re mandato inanzi la
libertà molta o poca della stampa, la impunità della parola, la ricognizione
più o meno intera del diritto che ha il popolo d'amministrare per mano delli eletti
suoi la cosa sua. E forse la superbia cortigianesca, se avesse saputo
aggiungersi li splendori d'una facile vittoria, non avrebbe poscia indugiato a
ritogliere al popolo quelli involontarii doni; si sarebbe appellata di nuovo
alli imprescrittibili e divini diritti della corona; avrebbe strappato l'arbore
della libertà, prima che mettesse radice in quella terra sì nuova.
Ma la
sconfitta palesò la pravità delle istituzioni che tenevano servo un popolo
forte. Le tradizioni feudalesche, che avevano colà per tanti secoli
sopravissuto alle rivoluzioni d'Italia ed anche a quella di Francia, ebbero
finalmente un crollo. Si chiarì quanto importi che i gradi dell'esercito siano
dati al merito, non venduti dalli spioni, nè aggiudicati nelle anticamere e
nelle sacristie. Se il soldato cittadino sarà d'ora in poi perseguito dai
camerieri di corte, potrà farsi tribuno del popolo; comandare i battaglioni
della guardia nazionale. Egli è tempo d'esigere la suprema di tutte le riforme
militari: cioè, ridutta l'influenza dei patrizii nell'esercito alla
proporzione medesima ch'è il loro numero nelle popolazioni, dalle quali
si traggono i reggimenti. Perocchè l'esercito altro non debb'essere che la
parte più giovine e più forte delle popolazioni; e deve pertanto rappresentarle
quali sono, e senza preponderanza e soverchieria d'alcuno dei loro elementi.
E quelle
finanze non devono più lasciarsi rodere in mille modi da poche famiglie, che,
sotto l'ammanto di molteplici titoli signorili, nascondono un'insatollabile
identità. Il popolo paghi; non non solo per pascere l'alterigia de' suoi
disprezzatori. I vasti poderi, sui quali s'impinguano le confraternite nutrici
all'ignoranza, alla superstizione, alla simulazione, alla delazione, siano sollecitamente
consacrati al culto della scienza e della verità; poichè la scienza e la verità
diventano forza viva sul campo di battaglia; e le guerre si vincono prima dai
generali col pensiero, poscia dai soldati sul sanguinoso terreno.
Per ultimo,
questa guerra diede al Piemonte e alla Sardegna il tricolore italico, ignoto
ancora a quelle regioni, com'era ignoto l'orgoglio dell'italica nazionalità. Il
sogno dei cortigiani e dei sofisti, il sogno dell'Italia Boreale, dell'Alta
Italia, dell'Italia non Italia, è miseramente dileguato. Il Piemonte non lo
deplori; era una grandezza mendace, una contrafazione della conquista
austriaca; era la tunica avvelenata del centauro; poichè cominciava con una
perfidia; e sarebbe giunta in breve alla soppressione d'ogni libertà; poscia
alla guerra civile; infine a divorzio dei due popoli, odioso, sanguinoso,
sempiterno, Sia specchio la Sicilia.
Ogni stato
d'Italia deve rimaner sovrano e libero in sè. Il doloroso esempio dei popoli
della Francia che hanno conquistato tre volte la libertà, e mai non l'hanno avuta,
dimostra vero il detto del nostro antico savio, non potersi conservare la
libertà se il popolo non vi tien le mani sopra; sì, ogni popolo in casa sua,
sotto la sicurtà e la vigilanza delli altri tutti. Così ne insegna la sapiente
America. Ogni famiglia politica deve avere il separato suo patrimonio, i suoi
magistrati, le sue armi. Ma deve conferire alle communi necessità e alle
communi grandezze la debita parte; deve sedere con sovrana e libera
rappresentanza nel congresso fraterno di tutta la nazione; e deliberare in
commune le leggi che preparano, nell'intima coordinazione e uniformità delle
parti, la indistruttibile unità e coesione del tutto. Finchè l'Italia avrà
governi sconnessi, muniti di forze ineguali, infetti dalla barbarica ambizione
d'assoggettarsi i vicini, la parte debole o corrotta sarà sempre tentata
d'invocare contro il fratello la spada straniera; e si ripeterebbe eternamente
la scelerata istoria della nostra servitù. Non v'è modo a obliterare le
diseguaglianze, e disarmare le ambizioni e le insidie dei reguli d'Italia e dei
municipii, se non la mutua tutela d'un congresso nazionale; essendochè i deboli
vi costituiranno sempre la maggioranza; e perciò il voto uscirà sempre propizio
all'equità e avverso alla prepotenza. E non vi è grandezza, nè forza, nè maestà
che sia maggiore di quella dell'universa nazione. Solo l'Italia può parlare da
eguale alla Germania, alla Francia, all'Inghilterra.
L'unità
nazionale si manifestò già certa in quell'istante in cui tutta Italia rispose
all'invito che si commise all'ale dei venti dalla assediata Milano. Chi sperava
prima d'allora nelle armi dei Toscani? Chi li aveva attesi sul campo ove quei
magnanimi giovani si diedero in sacrificio all'Italia? E i Tirolesi non
disdegnarono essi le loro memorie semigermaniche per dirsi figli primigenii
della vetusta Etruria, e patire piuttosto con noi, che trionfare coi nostri
nemici? E i Ticinesi, lembo di popolo rapito dalla libertà elvetica ai nostri
conquistatori, si mostrarono fratelli, prima colle armi, poi coll'ospitalità,
indarno combattuta e dall'Austria, e dalla Svizzera e dall'artificioso
Piemonte. E in questo pure si vide, che oggidì non v'è altro possibil vincolo
fra i popoli che quello della nazionalità, ossia della lingua. L'alto consiglio
elvetico, colla poco onorevole accoglienza alli esuli italiani, mostrò di
sentirsi magistrato d'una maggioranza germanica; rinegò la impassibile
neutralità della Svizzera antica; antepose il nemico austriaco al federato
svizzero; dimostrò quanto più possa il vincolo naturale della lingua che non il
fattizio nodo dei patti. E la Savoia pure sembrò accorgersi, dopo secoli,
d'esser parte del popolo francese. E così tutti codesti edificii, modellati sul
principio cosmopolitico della chiesa e del sacro romano impero, tendono a
rifarsi sul lucido e puro e perenne principio delle nazionalità.
L'errore più
grave, assai vulgare però in Italia, e generale in Europa, si è che la causa
italiana sia questione principalmente, anzi unicamente, militare. Giova
ripetere: l'Italia non è serva delli stranieri, ma de' suoi. L'Austriaco
venne in Italia e vi può rimanere solamente come mercenario d'una minoranza
retrograda, la quale si conosce impotente a dominare da sè la nazione. E
l'Austriaco si è perduto per l'arroganza sua di far da padrone, ove i suoi
patti erano solo d'essere il servo armato, e l'aguzzino d'un popolo che
monsignori e ciambellani volevano tenere in catena. Come mai ottantamila
stranieri, che vengono da una regione povera, semibarbara e discorde,
potrebbero opprimere colla nuda forza 25 millioni d'un popolo, cui la natura
privilegiò di sì alto animo e sì vario intelletto? Come lo potrebbero, se non
combattesse per loro l'ambizione e la perfidia dei prelati e dei cortigiani? E'
fatto che ventimila di codesti guerrieri, con sessanta cannoni, furono
scacciati in cinque giorni dal popolo d'una sola e disarmata città; - che
quattromila, i quali al 18 marzo erano di presidio in Vicenza, ne uscirono
senza contrasto, anzi implorando la scorta si sessanta cittadini armati, che li
proteggessero dalle popolazioni del contado; - che 18 mila furono, il 20
maggio, vergognosamente respinti a Vicenza da duemila Romani, cento Milanesi, e
millecinquecento Vicentini; - che altre migliaia in Brescia e in Bergamo, altre
centinaia in Varese, in Como, in Colorno, in Palma Nova, si capitolarono o si
diedero prigioni; - che settemila in Venezia si lasciarono imbarcare, assai più
agevolmente che non sarebbesi fatto di settemila capi di bestiame; - che in
ottobre ventimila uomini di codesta snervata soldatesca erano fuori di
combattimento, accovacciati nelli ospitali. E ottantamila di costoro saranno
l'insuperabile ostacolo ai destini di venticinque millioni di popolo italiano?
- No, non è questo!
Armasse il
Piemonte, non centomila soldati, ma cinquantamila, non dico meglio ammaestrati
e ordinati, ma solo non capitanati dai camerieri del re.
Nella
proporzione medesima, e assai mite, dell'uno per cento incirca della
popolazione, tutta l'Italia darebbe 250 mila soldati, e potrebbe agevolmente
sostenerli. E' già il triplo dell'esercito nemico; e col favore dei popoli
frementi e d'un cielo che divora li eserciti stranieri, e d'una terra munita di
monti, di lagune, di maremme, di fiumi, di canali, d'isole, d'inespugnabili
città, come potrebbe non vincere? Come potrebbe il nemico sdraiarsi per le
nostre terre a suggerne l'adipe agiatamente? E se non vivesse a nostre spese,
come potrebbe nella nativa sua povertà, e nello sperpero delle sue finanze,
alimentare lungamente un grosso esercito sulle balze del Tirolo e della
Carintia, o dentro le accerchiate fortezze? Anzi potrebbe una parte dei nostri
combattenti, eguale a quella ch'esso tiene in casa nostra, varcare le Alpi o
l'Adriatico. E sarebbe tempo di fare com'esso fa, e come facevano i nostri
antichi, quando combattevano Cartagine in Africa, e armavano a suo danno li
Africani. Tragittare in Istria; in Dalmazia; cacciarlo da Pola; gettare tra i
Croati la scintilla sacra; riconciliarli al Magiaro; farli una volta mercenarii
della libertà.
Nè si dica che
l'Italia non abbia quel numero di soldati. Il Piemonte ha il doppio forse della
parte sua, che sarebbe incirca 48 mila. Venezia ha certo i suoi 22 mila; i suoi
28 mila la Lombardia, anche senza noverare quelli che una prima vittoria
riscatterebbe dalle verghe nemiche. Il Trentino ne avrebbe a dare 3 mila;
Istria e Dalmazia 8 mila; 5 mila Modena; 5 mila Parma; 18 mila la Toscana; 29 mila Roma; 64 mila Napoli, che senza dubbio li ha, e 20 mila la Sicilia. E se ciascuno di queste regioni ne desse solo la metà, sarebbe ancora un numero
assai maggiore di quello dei nemici.
Se vi sono i
soldati, non manca in Italia la gioventù studiosa, e degna di capitanarli; e
l'arte della milizia è semplice; sopratutto ove si tratti di saperne solamente
quanto un povero Croato. E si vide a Curtatone e Vicenza, quali soldati si
facciano in pochi giorni li scolari e i maestri delle nostre università.
La popolazione
dell'Italia è pari di numero a quella che la Francia aveva al tempo della irresistibile sua rivoluzione! E oso dore, e potrei dimostrare, che il nostro popolo,
se non in Piemonte, certamente in Toscana, e nel Lombardo Veneto, e
nell'Emilia, è più culto che non fossero allora, e che oggidì non
siano, in Francia i dipartimenti del ponente sopratutto, e del centro, e del
mezzodì. Nè il volere finalmente manca ai popoli, purchè solo vi sia chi
decreti l'armamento in loro nome. La questione non è dunque tanto militare,
quanto civile. Ora qual sarà il magistrato che lo decreti?
Certo,
dovrebb'essere il magistrato dittatorio creato dalla Costituente Italica, per
governare la guerra, per attivare le finanze, e le banche, e le vendite dei
beni nazionali, per assegnare le quote dell'esercito ai singoli Stati, per
eleggere i comandanti, per infliggere l’infamia ai vili, la morte ai traditori.
Ma tra il
magistrato nazionale e li eserciti stanno le corti dei principi. E i soldati
obbediranno alle corti, e terranno fisso lo sguardo nel volto del principe.
Abbiamo visto i Napolitani andare al campo e tornare, al mutabile cenno del re.
Abbiamo visto i Piemontesi consegnar, senza rossore, al nemico le città che
dovevano difendere. Necèssita dunque che i decreti della costituente trovino
eserciti pronti a obbedirla fedelmente; ossia che trovino in ogni Stato un
esercito cittadino e non un satellizio di corte; al quale torni lo stesso
combattere i nemici, o trucidare i cittadini.
Perchè dunque
l'efficacia della Costituente sul campo di battaglia si faccia sentire, vuolsi
che abbiano vigor popolare i parlamenti d'ogni Stato. La Costituente potrà molto nello Stato Romano, perch'ella è identica col parlamento e col
ministerio. Sarà già men potente in Toscana, perchè quel parlamento precede da
altro fonte elettorale. Sarebbe inefficace in Napoli, perchè quivi il
parlamento non ha forza di rimovere dal governo dell'esercito satelliti
spergiuri e sanguinarii. Sarà parimenti inefficace in Piemonte, perchè
quantunque la corte siasi ritratta per ora dalla primiera via del sangue, e
tenga modi coperti e decorosi, è sempre fieramente avversa all'unità nazionale;
anzi teme nella Costituente un freno alle stupide sue cupidigie di conquista; e
ha radici nell'esercito e nel popolo più ferme che non la corte napolitana.
Sarà per ultimo poco efficace in tutta la Cisalpina, perchè i brigatori torinesi non lasceranno di frapporvi l'inciampo della fusione, e i giuramenti da loro
imposti a tutti li esuli che vollero rimanere armati.
La Costituente sarà all'Italia un'insegna gloriosamente e irrevocabilmente spiegata, una meta
finale e infallibile, un faro. Ma l'efficacia dipende dalla potenza e
popolarità dei singoli parlamenti, dall'uniformità e genialità della loro
origine elettorale, insomma dal progresso effettivo della libertà nei singoli
Stati. Col che vorrei avere adombrato che siasi per me inteso, quando più volte
dissi che non si perviene all'indipendenza, cioè alla vittoria
nazionale, se non per via della libertà.
Gioberti e li
altri piaggiatori della corte gridano al contrario che la libertà è già
soverchia; e che prima vuolsi pensare alla vittoria. Ed è per questa via
servile che ci condussero alla sconfitta, alla fuga, al tradimento. Il
tradimento cominciò fin da quando nel club Arconati di Brusselle s'impose a
tutti li esuli il sacrificio della libertà per l'indipendenza, cioè, per la
guerra regia: cioè, per la conquista della Lombardia : cioè, per la ripetizione
di Campoformio: infine, per la consegna di Porta Romana. Perocchè tutti questi
furono anelli d'una catena, che sarebbe loro proposito percorrere tutta da
capo. Vorrebbero che si smarrisse, una terza volta per noi, l'occasione di
vendicarci a libertà verace e intera. Sotto la loro scorta, l'Italia vincitrice
sarebbe rimasa con tutte le più cancherose sue piaghe prelatizie, fratesche e
cortigianesche. L'Italia vinta non ritenti l'impresa se non per la via della
libertà. Prima di vincere a Verona, era d'uopo aver vinto in Roma, in Napoli,
in Torino.
E vincendo in
Roma abbiamo vinto assai. Roma pensi che il suo Stato, in numero di popolo,
vince d'un terzo la Svizzera, e la vince per elementi di ricchezza
naturale e di civile unità; e si vergogni d'essere tanto più debole, e di non
bastare a farsi sicura contro qualsiasi nemico. Acquistata la libertà, vale a
dire, vinti i nemici intestini, poco è più a temersi dallo straniero; la guerra
diviene impresa consueta e materiale; nè i popoli stranieri hanno poi sì grandi
guadagni a fare in quella servitù che li ambiziosi loro oppressori vorrebbero
imporci.
La vittoria di
Roma sarà scala, tosto o tardi, alla vittoria di Napoli, ove li animi sono
mobilissimi, e sempre aperti alli impeti generosi e subitanei. Non così facile
è la vittoria della libertà nei cauti e freddi animi dei Piemontesi. Quivi una
servitù dissimulata dal militare decoro, tiene fondamenta non ancora tocche
dall'ariete del disprezzo popolare. Quivi le logore opinioni hanno difensori
non derisi, anzi autorevoli e lodati. Quivi i più audaci ragionatori, quelli
che sono creduti e si credono di pensare col secolo, non altro spargono intorno
che la polve e i tarli dei secoli andati. Sono costoro che vogliono operare
l'unione d'Italia, non col rapido e spontaneo moto dei popoli dietro il lampo
dell'idea e per impeto del sentimento, ma colli artificiosi lacci e le ferree
stringhe di Luigi XI e di Richelieu, come se li Italiani dovessero viver paghi
di seguire, a due o tre secoli di distanza, le altre nazioni. Sono costoro, che
dicono oggidì voler essi, al loro ritorno in Milano, sopprimere
immantinenti ogni respiro di libera stampa; poichè non li lascierebbe inchiodar
saldamente le tavole del fortissimo regno. Infelici ! si facciano indietro; e
lascino operare il popolo, il quale sa più di loro, e più di loro intende sè
medesimo e il secolo, e il decreto della natura e di Dio.
Sì, l'ultimo
dei Trasteverini mostra oggidì più sagacia politica, e più intendimento
dell'Italia e dei tempi, che non l'Azelio e il Gioberti e le altre stelle del
cielo subalpino. Molte acerbe parole sono in questo libro scagliate contro
Carlo Alberto; ma non come uomo, bensì come a simbolo e specchio di tutti i
cortigiani suoi. Perocchè tra Carlo Alberto e i Salasco, i Pinelli, i
Sommariva, i Lazari, i Cossato, li Olivieri, i Monetzemolo, li Allemandi, i
Cuggia, i Bava, i Durando e tutti quanti, non è differenza alcuna. E grande e
fatale è pure la similitudine ch'è tra quei reprobi, artefici della nostra
ruina, e li Azelio, i Balbo, i Gioberti. Sono tutti impedimenti all'unità
d'Italia, impedimenti alla libertà, impedimenti alla guerra passionata,
veemente, vittoriosa. Insomma, sono tutti appigli e amminicoli alla potenza
straniera. No, all'indipendenza non si perviene, se non per via della
libertà.
Non vedono
ancora, nemmeno i migliori, in Piemonte, quanto splendore e quanta potenza sia
nel nome d'Italia e di Roma. Non intendono quale incanto sia nella speme della libertà,
che al pari d'ogni altra bellezza è ancor più cara, desiderata, che posseduta.
Appetiscono, ancora, e sopratutto, d'essere accettati servi in corte; d'andare
a messa col re; sognano beatamente di ricevere dalla sua meno un ciondolo, una
chiave d'oro, e d'essere fatti degni di sporgergli la coppa, o il piatto, o
peggio. Io so che i facendieri Giuseppe Durini e Andrea Lissoni, quando, andati
a Torino per compiere il baratto della fusione, videro dappresso la millenaria
monarchia, quando videro le parrucche che con devozione di vestali vegliano a
conservare quel masso di perenne gelo che divide due grandi e generose nazioni,
esclamarono : qual deforme vecchia abbiamo sposato !
E alle
servitoresche ambizioni di corte sono complici molte famiglie illustri di
Genova, di Milano, di Piacenza, di Bologna, e perfino di Firenze e di Venezia,
che ignare o immemori dei loro domestici fasti, immemori dei padri loro che
fecero la lega di Pontida e affrontarono la lega di Cambrai, non sanno che il
loro posto è avanti ai popoli, non dietro ai re, nè a chicchessia. Non sanno
quanto l'Europa li abbia sprezzati e ancora li sprezzi; poichè li vide come in
letto di rose, sdraiati sul letamaio della nazionale servitù. Sarebbe tempo che
si rizzassero alla sublime superbia della libertà; nè soffrissero sopra il capo
loro più altro che la Legge e Dio; e imparassero dall'antico popolo fiorentino,
il quale, quando aveva più scienze e più arti che non tutta la rimanente
Europa, non volle altro re che Gesù Cristo. Il loro officio oggidì non è di
fregiare della servile loro presenza le anticamere dell'ossequiosa Torino, ma
d'assistere al risurgimento della libera Italia in Roma.
E i Milanesi
particolarmente e i Cremonesi e i Bresciani, i quali, non famelici, nè
accalappiati da militare giuramento, accondiscendano a rimanersi in Piemonte, e
pongano anzi mano in quelle publiche rappresentanze, se ancora non intendono
che furono traditi due volte, e che tosto e sempre lo saranno, sono ebeti al
tutto e orbi dell'intelletto. E se intendendo e credendo, prostituiscono
tuttavia la persona loro nel corteo del traditore, non mostrano dignità d'uomo;
e insultano alle miserie della patria. Il popolo se ne ricorderà un giorno. E
più facilmente oblierebbe d'averli visti ciambellani dell'Austria: perocchè
traditore è peggio che nemico.
Molti sono in
Italia propensi ancora a comperare a prezzo della libertà e della unità li
aiuti dell'esercito regio; sono uomini lenti alla speranza, pronti al dubio e
al timore; non confidano nella guerra di popolo; bench'egli avesse pur vinto i
vincitori del re! Pensano, ancora oggidì, che il Piemonte potrebbe fare anche
senza l'Italia; ma non l'Italia senza il Piemonte. Io tengo per fermo che il
Piemonte abbia mostrato abbastanza di voler fare da sè e per sè. Tengo
per fermo che il Piemonte anela omai solo ad aver Piacenza, o anche Parma,
facendo pagare in denaro ai popoli il risarcimento dei Borboni; insomma, come
al suo solito, aspira solo a uscire dal naufragio d'Italia con una scheggia
in mano. Tengo per fermo, che un'altra volta parimenti, non dichiarerà la
guerra se non alla sesta giornata. Finchè non vinceremo, ci lascerà
un'altra volta pericolare, come nei cinque giorni di Milano; ci lascerà perire,
come in Vicenza, in Chiavenna, in Valle Intelvi, in Pontida. Ma se vinceremo,
manderà tosto l'esercito, coi regii commissarii, e coi registri della fusione,
a sequestrare la nostra vittoria, a confiscare la nostra libertà.
Il nostro
sincero vessillo è in Venezia; e di là minaccia a tergo e sulle due rive
dell'Adriatico i nostri nemici. Caduta Venezia la guerra italica sarebbe
estinta; e l’unanime nostra rivoluzione verrebbe a chiamarsi non altro più che
una sedizione repressa. Lasciamo il Piemonte nella rete della sua politica;
volgiamo l'animo a Venezia; non lasciamola languire; quivi è il palladio
dell'indipendenza; in Roma è il santuario della libertà.
I vanitosi
marescialli non seppero valersi della cieca fortuna. A Porta Romana, non tesero
una mano cavalleresca al popolo tradito, salutando la sua bandiera, e giurandogli
pace e libertà; risposero colle fucilazioni alla generosità dei nostri giovani
verso li officiali prigionieri; strapparono dalla nostra terra tutte le radici
dell'antica autorità imperiale. Sono essi che insegnano la ferocia a tutte le
nazioni dell'imperio; le quali infine daranno loro una tremenda pariglia. I
marescialli rendono l'Austria impossibile.
Ma pur troppo
una guerra appassionata, aspra e diuturna è necessaria a ritemprare all'antico
vigore i popoli e rinovare tutte le nostre istituzioni. Io non desidero una
facile e molle vittoria, che ci lasci servi ancora delli interni padroni, e
servi ben tosto dei padroni stranieri. E quando penso che le guerre intestine
dell'Austria ci assicurano l'occasione d'una lunga guerra: e che una lunga guerra
rifarà la milizia italiana: e che, SENZA IL PIEMONTE , L'ITALIA TIENE ANCORA
VENTI MILLIONI DI POPOLO: io dico, lo dico con dolore, ma con ferma fiducia: IL
PIEMONTE NON È NECESSARIO!
Mentre io
stava per racconciare in italiano questo libro, alla caduta di Milano
conseguitò quella di Vienna, poi quella di Buda. È ben certo che risurgeranno;
poichè la forza ha differito le questioni, non le ha sciolte. Ma non credo che
la caduta di quelle città sarebbe stato intimo danno al principio della libera
nazionalità. L'Ungaro voleva esser libero, ma oppressore dello Slavo e del
Valacco. Il Viennese voleva esser libero, ma opprimere e lo Slavo e il Valacco,
e l'Ungaro stesso e l'Italiano. Solo nell'eguaglianza della sventura e nelle
necessita della guerra, potevano quei vanitosi popoli intendere, che senza
fratellanza non è libertà, e ch'è meglio avere fratelli liberi che servi
iracondi. Ogni popolo deve comperare la libertà col sacrificio d'una barbara
ambizione. Non si dominano le genti straniere senza mole d'eserciti, nè senza
arroganza di generali, che poi colle braccia dei vinti opprimono i vincitori.
È superfluo
omai toccare dei diritti che alcuno dei dissertatori di Francoforte o di
Cremsiera vollero attribuire alli imperatori germanici e ai loro eredi sull'Italia.
Il sacro romano imperio non era istituzione germanica, ma pontificia, imposta
dalla spada cristiana alla pagana e divisa Germania; e in esso tutti i popoli
cristiani erano eguali, com'erano eguali nella chiesa, come poi furono eguali
nella fratellanza araldica delle crociate. L'imperatore era re in Italia,
com'era re in Germania. I due Federici, e li altri che violarono i diritti dei
loro popoli d'Italia, furono puniti sul campo dalle città federate; le quali,
anche nella vittoria, non fransero i vincoli che le stringevano all'imperio;
perocchè questo altro non era che la chiesa stessa nella sua faccia corporea e
mondana; e quei popoli volevano difendere la libertà e il diritto; non già
uscir della chiesa o dello Stato. Quel diritto universale e cesareo,
subordinato al pontificio, ora è del pari estinto in Italia e in Germania; ma
un diritto proprio del regno di Germania sul regno d'Italia non fu mai.
Affatto
inudite sono poi le velleità di potenza maritima che vorrebbero alcuni
insinuare alla federazione germanica sul porto di Venezia. Venezia non fu mai
nemmeno città dell'imperio d'occidente; poichè al declino di quello non era
peranco nata; e al suo risurgimento era già libera e forte. Ella traeva la sua
vita dai mari d'Oriente; era come nave ancorata al lito dell'Adriatico. Il suo
popolo conservò sempre le tradizioni di quella origine che doveva a sè solo; e
i suoi naviganti ne fecero quel glorioso cantico
Venezia
la xe nostra
L'avemo
fata nu.
Senonchè, la corona imperiale,
che doveva congiungere in una famiglia tutte le genti cristiane, cadde in polve
prima di compiere l'annunciato prodigio. Ed ora le nazioni europee devono
congiungersi con altro nodo; non coll'unità materiale del dominio, ma col
principio morale dell'eguaglianza e della libertà. La Francia, già da sessanta anni scrisse questa verità nei Diritti dell'Uomo. E le
nazioni ora sono mature perchè la parola s'incarni nel fatto. Solamente quando la Francia avrà intorno a sè cento millioni d'uomini liberi, non sarà più costretta a tenere in
armi seicentomila soldati, nè ad affamare il popolo per disfamare l'esercito, i
cui capitani conculcheranno sempre la sua libertà. Poco importa che il
telegrafo ingiunga ai docili e silenziosi dipartimenti il comando d'un
imperatore o d'un re o d'un presidente; il destino della moltitudine dei
Francesi, fuori della cerchia di Parigi, fu sempre l'obbedienza; ed è una dura
necessità per conservare a fronte della Europa regia l'unità militare. Ma in
mezzo a un'Europa tutta libera e tutta amica, l'unità soldatesca potrà far
luogo alla popolare libertà; e nell'edificio costrutto dai re e dalli
imperatori potrà rifarsi sul puro modello americano. Il principio della
nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione militare che
anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell'Europa orientale; e li
tramuterà in federazioni di popoli liberi.
Avremo pace
vera, quando avremo li Stati Uniti d'Europa.
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