-4-
Se
nel regno d'Italia la casta dominatrice, soppiantata dai conquistatori franchi,
o logorata dalle guerre civili delle sei dinastie che si contesero la corona
fino al mille, aveva lasciato deperire le tradizioni militari, anche la casta
indigena, ad ogni generazione sempre più imbarbarita, aveva nel tempo stesso
quasi obbliato le tradizioni civili. Ma le città emersero da quell'abisso di
viltà insieme e d'ignoranza, subito ch'ebbero
ricuperata la milizia, e all'ombra sua, la popolazione, l'industria, i beni, le
leggi.
Nel
primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'êra ottava delle
città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa
ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle
investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un'indole teocratica. E alle crociate possono assimilarsi in certo aspetto, se non
le prime imprese dei Veneti in Istria e Dalmazia, almeno quelle dei Pisani e
dei Genovesi in Sardegna, in Corsica e nelle Baleari, e quelle dei venturieri
Normanni in Apulia e Sicilia. Perocché combattendo gli Arabi e i Greci come genti di fede nemica, da ciò trassero
popolarità e fortuna.
Ma
già nel principio del secolo seguente, ossia nell'êra nona delle città,
le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e
continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in
cerchio colle città finitime, come già l'antica Roma con Sabini e Latini.
Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia
militare dei barbari aveva trasandati e manomessi.
Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si
atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo
trent'anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le
città libere. Onde rimase abolito l'antico
regno e la dieta degli impotenti magnati che lo rappresentava in Roncalia,
innanzi al cui vano giudizio Federico stesso ne' suoi primi anni aveva citato
gli armigeri municipii.
A
quell'eroica lotta s'intrecciò nel tempo stesso la guerra tra le due milizie.
Perocché le leghe feudali di Castel Seprio e di Castel Marte ajutarono Federico
contro Milano, che per tanto non potè nemmeno raccogliere a
quel mortale conflitto tutte le forze del suo territorio. Codesta guerra
intestina nel seno d'ogni provincia, prolungata per tutto il secolo seguente,
trasse seco la distruzione delle castella, la forzata
aggregazione dei castellani alla convivenza municipale, e l'abolizione della servitù
della gleba.
Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti
tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione
sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale
imperiosa necessità di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe
Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno
d'essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei
raccolse in una cronica bolognese: «Nel 1236 furono liberati tutti i contadini;
e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti;
e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele
(cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i
signori conservarono i loro beni» (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei
secoli d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel
glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni
di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie.
Liberato
a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò
risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese
all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana
êra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne,
riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale
aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le
popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro
città, la cui legge si stese su tutta l'antica sua terra.
Fu
allora che i consoli milanesi Oberto dell'Orto e Gerardo Negro, per sottoporre
a forma di municipale giudizio anche l'arbitrio feudale, scrissero il libro de
Feudis; richiamarono la tradizione della forza alla ragione;
dettarono dalle mura d'una città d'Italia una legge, alla quale si venne poi conformando
tutta la feudalità d'Europa.
Nel
tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il
nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un'esenzione e un privilegio
concesso ai mercanti, e ch'era la più pura formula dell'eguaglianza, tra gli
individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi.
E così usciva dalle città un nuovo diritto delle
genti.
E
già fin dall'anno 1216, si noti bene la data, apparvero gli Statuti municipali
di Milano, che a guisa dei moderni Codici, nati seicento anni più tardi
da altra pur simile trasformazione della società, richiamarono le nazioni al
diritto romano e alla filosofia che lo aveva inspirato. Infatti
Milano, dettando al Capitano del Popolo il giuramento di conservare gli
statuti: «Vos, domine Capitanee, jurabitis... quod salvabitis et
custodietis ipsum Populum et Statuta...» gli ingiunse che, ove questi non bastassero, si conformasse
al Diritto Romano: et si deficerent, servabitis Leges Romanas (Verri.
1288).
La
terra, sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più
stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui
custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti,
venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto
romano in liberi patrimonj, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi,
ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime
città etrusche.
Ma
il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose
irrigazioni ch'esse con pensiero provido e con braccio possente e irresistibile
condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territorj intorno a
Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente
stupore, che siffatte imprese potessero aver principio
e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano
fra le stragi e le mine. Perocché il canale del Ticino si crede intrapreso
(1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu
combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali
irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i
suoi Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto
di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora
oggidì conciliare colla nuda idea d'un'assoluta proprietà.
Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna
Charta dell'irrigazione (Baird Smith, Italian irrigation. V. I.).
Con
altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale
proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto
più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto
si potè allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si
ebbe dovizia di materie a riedificarle.
Il
cronista di Bologna scrisse: «Il Comune riscattò i servi e le serve del
contado; e i signori conservarono i loro beni.»
Ma egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i
popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li
avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti.
Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi
schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da
livellarii e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi
frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere
e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle città; e queste crebbero
per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un
feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di
schiavi, potè dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue
derrate a prezzo inaudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a
favolosa opulenza.
E
come già fin da quel secolo vediamo in Milano l'imposta prediale estesa a tutte
le terre, e attivata l'idea d'alimentare la guerra col credito pubblico, così
già fin d'allora vediamo agitarsi la quistione del libero commercio dei grani.
In una concordia tra i capitani e il popolo di Milano (1225), si convenne che
il Comune dovesse introdurre grano estero; e sembra in meschina misura. Superbi
d'una ricchezza che ogni anno per arcana virtù cresceva insieme colle
popolazioni e colle industrie, i capitani rurali, fatti cittadini e venuti
dalle loro antiche solitudini a stringersi in numeroso e potente consorzio,
poterono ripetere impunemente in seno alla città gli usi e gli abusi feudali,
recarvi seco le guerre private e le vendette
ereditarie che tra loro li dividevano. Alzarono le torri delle loro case contro
quelle delle schiatte rivali, e sopra i tugurii del popolo; e dentro quegli
inaccessibili claustri si arrogarono d'esercitare le giustizie sommane, il
diritto del taglione, il diritto di pugno, il diritto d'omicidio e di composizione,
che la legge longobarda assicurava a chiunque potesse gettare alle famiglie
degli uccisi una vile moneta. Quindi sempre
maggiore ad ogni generazione la necessità di difendere colla forza l'antica
pace municipale:
Fiorenza dentro della cerchia
antica...
Sen stava in pace, sobria e
pudica.
Quindi
la necessità d'armare il magistrato. Tale era la violenta natura di questo elemento feudale, cui le città oltremontane non
ebbero mai a ricettare entro le loro mura, che alle città nostre parve
beneficio il riavere quei tremendi podestà, giudici insieme e soldati, col cui
braccio Barbarossa aveva voluto domarle: Mediolano destructa... tota enim in
conspectu ejus tremebat Italia... in urbibus Italiae suis positis Potestatibus.
(Vinc. Prag.).
Ma
i podestà, mezzo legisti e mezzo soldati, erano pur uomini della stessa tempra
di quelli ch'essi dovevano raffrenare. Anch'essi erano nell'inevitabile alternativa di scegliere tra l'una e l'altra parte nella
perpetua guerra tra il pontificato e l'imperio. Quindi la
giustizia o esercitata come un'ostilità, o come tale considerata da quelli che
dovevano soffrirla. E queste inimicizie
propagate continuamente dai podestà medesimi coll'errante loro ministerio di
città in città, si tessevano in una vasta dualità che involgeva tutta la
nazione. E andavano oltralpe a rannodarsi colle
antiche emulazioni delle due dinastie guelfa e ghibellina; l'esistenza delle
quali era ignota alle moltitudini che da loro prendevano il nome, e lo davano
in sanguinoso legato ai loro figli. Ma l'edificio
municipale, radicato per forza tradizionale nella città e nel territorio, era
così solido e fermo che né guelfi, né ghibellini con esilii o confische o
delitti o supplicii o battaglie o eccidii mai giunsero per tante generazioni a
soggiogarlo e assimilarlo. La città poteva ora esser tratta verso i guelfi ora
verso i ghibellini, ora vedersi svellere dal seno una parte de'
suoi figli ora l'altra, ma la cultura municipale continuò pur sempre
l'ammirabile sua evoluzione. L'alternativa dei guelfi
e ghibellini è accessorio; le due alte influenze che la promossero, erano forze
perturbatrici e modificanti; non erano il principio della vita municipale, come
sui mari il vento e la corrente non sono il principio pel quale il naviglio
galleggia e fende l'onda, né sono la ragione del suo viaggio.
All'età
eroica delle città non partecipò tutta la nazione. Nell'Italia meridionale i
municipii avevano ben conservato un resto di vita anche quando nella
settentrionale erano fatti cadaveri. Ma negli anni
stessi in cui Venezia, Pisa e Genova cominciavano le splendide loro imprese nel
Mediterraneo, nell'Egeo, nel mar Nero, e che Milano si apprestava nell'ineguale
sua lotta col gran potentato, i venturieri Normanni (1041), dandosi per
difensori dei popoli, e armandosi d'investiture pontificie che si arrolavano
nella gran corporazione feudale, avevano steso un nuovo dominio non solo
sull'antica terra di Benevento, ma sulla Calabria e sulla Sicilia. Infine
avevano spento anche gli stati liberi d'Amalfi (1131) e di Napoli (1138).
Il
regno normanno era feudale, ma nell'ultima e meno barbara forma della
feudalità. Il suo parlamento non era un consiglio di guerra come i malli dei
Merovingi, né solo un convegno di principi e prelati come le diete dei
Carolingi e degli Ottoni. Esso comprese ne' suoi tre bracci
anche i magistrati delle città, ma sotto la finzione giuridica, ch'esse
fossero patrimonio domestico del re. Non escluse del tutto
l'antico principio italico; ammise alla fonte delle leggi la città; ma la
subordinò ad un principio estraneo ed avverso; le assegnò una vita inerme,
servile e languida. E di tal modo per un'ampia
parte d'Italia si prolungò anche nei secoli moderni l'êra bizantina. Un popolo
disamorato, indifferente, abbandonò in ogni pericolo i suoi baroni, i suoi
prelati, i suoi re; soggiacque sine irâ et studio a
un mutamento perpetuo di dinastie. La terra, la cui prima conquista costò più
sangue ai Romani antichi, divenne il sogno aureo d'ogni venturiero che sperasse vincere al gioco dell'armi una puglia. Qual
divario immenso fra il vasto infermo regno, sedente nel mezzo di tre mari, e
l'umile angolo di laguna d'onde Venezia potè resistere a Carlomagno, a
Solimano, alla lega di Cambrai! Federico II, raccolta in dote colla moglie la
potenza normanna, volle dilatarla nell'alta Italia dove già possedeva i diritti
imperiali e aveva per sé la parte ghibellina. Vinto a Milano e a Bologna e
lasciatovi prigione due volte il figlio Enzo, rinunciò
alla prova. Ma dalla sua disfatta uscì la dittatura
dei Torriani, che abbracciò in breve sette città. La dittatura parve allora il
solo vincolo possibile tra popoli che, spinti assiduamente gli uni contro gli
altri dalle due rivali influenze, non avevano ancora aperta
la mente al concetto d'un diritto federale.
Sulle
fondamenta poste dai Torriani, i Visconti eressero uno stato ch'ebbe fino a
trentacinque città e si protese fino a Spoleto, accerchiando d'ogni parte la
libera Fiorenza; pareggiò quasi in grandezza il regno longobardo, superandolo
molto di dovizie e potenza. Ma essi non vollero aver
milizia popolare. Né solo tennero disarmate le città;
ma Ottone Visconti, il gran prelato ghibellino, atterrò Castel Seprio, il più
formidabil nido di feudatarj, e instituì perpetuo giuramento che i podestà non
lo lasciassero ristaurare. Quindi la salvezza dello stato e
l'onor della nazione data in arbitrio dei condottieri. Le città che
avevano affrontato vittoriosamente i due Federici, si trovarono retrocesse di nuovo
a quella condizione debole e passiva che avevano prima dell'arrivo dei Goti, e
che doveva trarle nel secolo XVI a nuova desolazione.
Ma
i Visconti disarmarono, non disciolsero, l'instituzione municipale. Le rimase
sempre il principio che distingue la città italica
dalla città transalpina, cioè l'intima unione sua col suo territorio, e la
tenace convivenza dei possidenti, che non vollero mai relegarsi nella campagna
che li nutriva, né sommergersi nella capitale che gli obliterava. Ogni
qualvolta l'eredità o la guerra o la ribellione dei popoli o l'infedeltà dei
condottieri scompose l'ampio retaggio dei Visconti, la scomposizione si fece
per città, come le rocce stratiformi e i cristalli si sfaldano
nel senso della loro formazione. Brescia, Verona, Padova or furono
dominio dei Visconti, or degli Scaligeri, or dei Carraresi, ora dei Veneti. Ma questo era un mutar di bandiera o di presidio; poco più che un
mutar d'alleanze; non turbò, né smosse l'intima vita municipale. La
città minore subì la legge del principe, non quella della città ove il principe
aveva stanza.
Nessuna
potenza lasciò più intera e indisturbata la vita municipale alle città suddite
quanto il senato veneto. Poiché, chiuso in sé medesimo, non
esercitò forza d'assimilazione; e i corpi decurionali, quanto più
erano opulenti, armigeri e altieri, tanto più avevano caro tenersi in disparte
da chi si poteva dir maggiore di loro. Quindi nei
tempi più calamitosi la costante adesione delle provincie alla città marittima
che apriva alle loro industrie i porti dell'oriente. Quindi la vivacità
e varietà delle provincie; ognuna delle quali aveva una vita propria, i suoi
statuti, la sua amministrazione, le sue terre, la sua industria,
la sua architettura, la sua pittura, le sue lettere, i suoi vizii, le sue
virtù, il suo carattere. Ma i veneti, pur come i
Visconti, lasciarono alle città le armi private, non curarono d'ordinare le
pubbliche. Né già potevano assentire alle provincie un'interessante
partecipazione alla cosa federale quando la negavano
anche ai loro concittadini.
La
vita municipale più intera, più popolare, più culta fu nelle città toscane.
Tutti sanno quali splendide vestigia essa lasciò nelle lettere e nelle arti.
Essa condusse un dialetto a tal proprietà ed eleganza che ogni altro popolo
della penisola e delle isole lo preferse al suo; e ne
fece il pegno della vita comune e del comune pensiero.
Ma
ciò che contraddistingue le città toscane e sopratutto Fiorenza, è l'aver diffuso
sino all'ultima plebe il senso del diritto e della dignità civile. Superarono
in ciò anche l'antica Atene; la cui gentile cittadinanza aveva pur sempre il
barbaro sottostrato della schiavitù. L'artigiano fiorentino fu in Europa il
primo che partecipasse alla cultura scientifica. Le
arti meccaniche vennero a connettersi intimamente colle arti belle; e queste colla geometria, coll'ottica, colla fisica. L'artista
toscano non circoscrisse il suo genio in un'arte sola. Leonardo e Michelangelo furono pittori, scultori, architetti, geometri, fisici,
anche poeti, anche filosofi. Perloché la varietà del loro sapere li condusse,
per necessità psicologica, dai particolari delle arti e dei mestieri ai
generali della contemplazione matematica. Ed ecco
nella tradizione toscana attivarsi a poco a poco nel corso di sei secoli il
metodo sperimentale, in cui l'occhio e la mano preparano i primi elementi della
scienza all'intelletto, e tutto il pensiero si preordina, non a speculazione
superba e sterile, ma a quella che poi Bacone chiamò scientia activa.
Già poco dopo il mille, e avanti la
prima crociata che cominciò ad aprir gli occhi alle altre genti, Pisa fondò
il mirabile e venerando complesso de' suoi monumenti. Or, dipartendo da quello,
si tessa la successione degli artisti scienziati: un Arnolfo di Lapo, un
Brunelleschi, un Leonardo, un Michelangelo. E si vedrà
la tradizione crescente e continua che trapassa dall'arte alla scienza
operativa e scopritrice in Paolo Toscanelli che fu la guida scientifica di
Colombo, in Galileo che s'armò del telescopio, in Torricelli che s'armò del
barometro, nell'accademia del Cimento, madre di tutte le accademie
scientifiche d'Europa. Così si venne a quella scienza esperimentale
che si guarda sempre innanzi, e mira sempre alla scoperta, e non si cura
di dire: ipse dixit. Questa è infine la vera ed intima forza che solleva
l'Europa moderna sull'antica, e sul medio evo, e sulla immobile
ed impietrita intelligenza del bramino indiano e del mandarino chinese, i quali
tengono fissa la mente solo negli oracoli del passato. Applicata all'intiera vita sociale, essa diviene quella idea del progresso
ch'è la fede comune del mondo civile.
No;
le fonti della scienza viva non sono nell'ambito logico, nella precisione
scolastica; non sono tampoco nel dubbio di Descartes, ma in quella
tenace coscienza del fatto che fa dire a Galileo: Eppur si move.
Leonardo (1459-1519) fu il primo a
scrivere che le scienze metafisiche «le scienze che principiano e finiscono
nella mente», non hanno verità. Agli eruditi che rialzavano al suo tempo
l'idolo di Platone in faccia all'idolo d'Aristotele, egli additò unica maestra
l'esperienza: «Questa è dunque mestieri consultare mai sempre; e ripeterla e
variarla per mille guise, finché ne abbiamo tratte
fuori le leggi universali». E un secolo
dopo di lui, la scuola toscana ripeteva con Galileo la stessa condanna
dell'arbitrio speculativo: «Alla manifesta esperienza si debbono
posporre tutti gli umani discorsi!... La logica è incapace affatto di trovar
nulla di nuovo!». La scuola esperimentale si
annuncia divisa dall'opera, e astratta in Telesio, ma dopo Leonardo; in Bacone,
ma dopo Telesio; in Campanella, ma dopo Bacone, e tardi; e inutilmente; e con
aspetto piuttosto di capriccio che di ragione.
Né
la scuola nata ed allevata con lungo amore nelle città toscane si circoscrive
ai fatti della natura; ma in Macchiavello s'interna entro i fatti della società
umana. Macchiavello è il mezzo termine che guida il
pensiero dai fatti di Tito Livio agli universali di Vico. Gli universali di
Vico scaturiscono dall'esperienza: «il vero è il fatto».
Vogliano gli studiosi compiere questa
ricerca delle fonti della scienza esperimentale nel seno delle nostre città. Ma
prima di finir questo saggio torniamo onde si mosse,
rammentando di nuovo come pur dalle città nostre uscì quel nuovo circolo di
scienza agraria che promette alle nazioni un'indefinita prosperità.
La
nuova giurisprudenza municipale nata dall'applicazione delle acque
all'agricoltura, è sancita nei nostri statuti, si associò nelle nostre
università collo studio delle scienze idrauliche, ch'erano anche già invocate a
frenar di nuovo i fiumi, e svenar le paludi, e sviare gli interrimenti dalle
lagune. Intanto nelle università transalpine, tiranneggiate dalla scolastica,
queste scienze e le matematiche stesse non avevano sede propria. E fino ai nostri giorni ebbero quivi a viver come di
contrabbando sotto il nome e l'ombra della facoltà filosofica. La grande agricoltura, posta per tal modo in perpetua cura d'un
corpo scienziato, si trasmutò in una assidua e gigantesca esperienza. E dal
seno medesimo delle città vennero in sussidio alla
nuova agricoltura i guadagni dell'industria e del commercio, il quale eziandio
trasportò fra le rudi tèssere del contado le sue consuetudini di conteggio, di
registri, di bilanci. La cieca pratica agraria si educò in calcolata e
variabile industria. La quale sul cader dello scorso secolo passò il mare con Arturo
Young e cominciò un nuovo circolo sul suolo britannico, d'onde si propagherà
per tutta la terra.
|