Del pensiero come principio d'economia pubblica
Testo
Nel corso ormai d'un secolo, la nuova scienza
dell'economia publica pose successivamente in
evidenza tre fonti di produzione, la natura, il lavoro, il capitale.
Questa è la fisica della ricchezza.
Rimaneva
ad aggiungere, che, supposte eguali presso diverse nazioni quelle tre forze
produttive, le ricchezze potevano
inegualmente crescere o scemare anche solo per certi fatti dell'intelligenza,
o per certi fatti della volontà. Sono fenomeni, che, svolgendosi
nell'uomo interiore, soggiaciono alle leggi proprie del
pensiero. Questo può dirsi la psicologia della ricchezza.
La verità di questo
principio è di prima e sommaria evidenza; eppure esso non fu ancora accolto nei
trattati come distinto e integrante anello della catena scientifica. I
pensatori dovrebbero adunque dedicarsi di proposito a
compiere questo nuovo passo nello studio della vita delle nazioni.
Furono li economisti francesi del secolo scorso,
che raccogliendo lo sforzo dell'attenzione sovra un sol punto, videro nelle
ricchezze solamente il dono della natura. Preoccupati di controversie
finanziali, intenti a trarre in luce quei fatti che inducessero
i governanti a non gravare di maggiori tributi una squallida agricoltura, che,
mal redenta dalla barbarie feudale, cadeva già schiava d'un despotico
accentramento, essi miravano con occhio geloso i favori che i potenti si erano
invaghiti di largire alle seducenti innovazioni dell'industria. E da una parziale analisi vennero ad un'immatura e vana
sintesi che negava l'utilità del lavoro. Poichè,
nelle loro viste, quanto aggiungeva il lavoratore ai produtti
naturali, tanto consumava per sostentarsi; sicchè,
mentre la più povera parte dell'umana specie si moltiplicava, il produtto nitido, riservato ai proprietarj
e rappresentato dall'affitto, a cose finite si limitava sempre alla primitiva
ricchezza naturale. Questa poteva bensì dal proprietario venir concessa in
porzione più o meno larga al lavoratore; ma in sè non poteva crescere nè
scemare.
Gli scrittori italiani di
quel secolo, e più gli inglesi, s'avvidero che l'analisi aveva preso un campo
troppo angusto; la trasferirono sovra altro punto; si diedero interamente a
dimostrare come la ricchezza, ben piuttosto che al fatto della natura fosse dovuta alle fatiche dell'uomo. Il
quale non solo provocava col ferro e colle seminagioni la dormente potenza
della terra; ma svolgeva coll'arte le attitudini
naturali delle cose. Analizzando i lucri del commercio, dimostrarono
che, sebbene sembrassero usurpazioni fatte dall'avidità d'intermediarj
parasiti a carico delle moltitudini, erano parte d'un'utilità
nuova, che le cose acquistavano venendo recate, dai luoghi e dai tempi
in cui giacevano superflue, ad altri luoghi e tempi ove riescivano
rare e desiderate. E videro come questa circolazione provocasse
una più larga produzione di quelle derrate che in ogni singolo luogo si
potevano ottenere con minor fatica più perfette. Onde varii
popoli, senza accordo fra loro, collaboravano inconsciamente ad un complesso commune di produzioni. Con ciò si dimostrava la crescente
potenza del lavoro associato; e si scopriva quel principio fecondissimo
che si chiamò divisione del lavoro. E siccome l'efficacia di questo deriva in parte dall'attenzione concentrata e
dall'abitudine, potevano dirsi giunti al confine per cui dalla fisica ricchezza
si trapassa alla psicologia; ma quivi si arrestarono; poichè
ogni punto di vista ha il suo limite. Intanto era dai loro studii
provato come il lavoratore non solo accrescesse il
reddito lordo, nel quale era compreso ciò che consumava egli stesso; ma producendo
più valori che non consumava, lasciasse un residuo nitido che si doveva
unicamente al lavoro.
Studiando poi l'uso che facevasi di codesta eccedenza dei
frutti in paragone dei consumi, s'erano avvisti che una parte del consumo era
solo apparente. Poiché serviva a compiere certe operazioni e ad
alimentare certi lavoratori ch'erano destinati a un corso ulteriore di
produzione; cosicchè il valore consunto ripullulava dopo un certo tempo in più larga misura, e
accresceva il reddito vivo della nazione. Codesta eccedenza, risparmiata a
posta in serbo per essere applicata a nuova produzione, costituiva il capitale.
Fin qui l'analisi, intenta
ai fatti materiali, aveva annoverato bensì tra le forze produttive l'opera dell'uomo, ma mirando alle sole braccia e non badando
all'intelletto. Non aveva considerato che alle braccia poteva
ben supplire la bruta energia dei venti, delle aque,
degli animali; ma che l'intelletto umano era una forza sopra tutte le altre
poderosa e impermutabile.
Fa meraviglia che Genovesi
ed Adamo Smith, ch'erano
professori di filosofia, trascorressero colla mente sopra l'economia publica, senza intravedervi il costante dominio di quelle facultà mentali ch'erano il primo campo dei loro studj. Genovesi, egli è oramai più d'un secolo (1757), non riconobbe
nell'intelligenza un'efficacia direttamente produttiva; ascrisse promiscuamente
fra i produttori indiretti i soldati e i dotti: -
"i quali, benchè non siano producitori
di nessuna rendita immediata, sono necessarissimi a
difendere quelli che lavorano, o a governarli, ad istruirli, a sollevarli; ond'è ch'essi giovano ad aumentare le rendite della
nazione". - E pertanto egli pensava che convenisse limitare il numero
loro, proponendo, - "come principio generale e fondamentale che la classe
degli uomini producitori di rendita sia la più
numerosa ch'è possibile, - e quelle classi che non
rendono immediatamente siano il meno possibile. - Imperocchè
è manifesto che le ricchezze d'una nazione siano
sempre in ragione delle fatiche". (C. XI.
XII.)
Vent'anni più tardi (1776), Adamo Smith
fu più assoluto nel suo dire, affermò che, "le classi dotte non producono valore alcuno, e che l'opera loro svanisce
nell'atto stesso in cui appare (II. 3)". Dimodochè
quel sommo pensatore non toccò l'argomento degli istituti di publica educazione se non a proposito della spesa.
Quarant'anni dopo Smith (1815), Gioja, sebbene fosse tacciato da molti di pender troppo al
lato materiale delle cose, sebbene non assegnasse all'intelligenza una propria
e proporzionata parte della scienza economica, mostrò, egli primo,
d'apprezzarne l'efficacia: - "In ogni produtto
si riconoscono distintamente due azioni: l'azione mentale e l'idea direttrice,
l'azione corporale e i moti d'esecuzione.
Siccome a ciascun moto del sonatore corrisponde una nota sulla carta musicale
che le disegna, così a ciascun azione dell'uomo
corrisponde nell'animo un'azione che la dirige. - A misura che crescono li ammassi scientifici, possono le
generazioni procacciarsi maggior numero di piaceri". (N.
Prospetto delle Scienze Econ. I. 50.).
Senonchè, l'idea di Gioja, trascurata da
lui medesimo, rimase, come di solito, stagnante in Italia e ignota agli
stranieri; laonde, parecchi anni più tardi (1828), l'anno, se non erro, dopo la sua morte, Say
nel Corso d'economia (I. 116) additando, pur di volo e
non di proposito, "ces comme
les bases des arts industriels
et des richesses"
- e dicendo aver ciò appreso dal vecchio Bacone,
potè lodarsi di non essere in ciò preceduto da verun altro scrittore. - "Ils
ont tous regardé les savants
comme des travailleurs improductif ".
Intanto erasi levata
in Francia una nuova scôla, che professando d'impugnare tutta la scienza
economica sino a quel tempo trovata e di volerla rifar da capo, solamente
trasferiva l'analisi sovra un nuovo punto, quello cioè del riparto delle
produzioni fra i membri della società.
Al punto al quale erano
giunti Genovesi e Smith e Say,
dacchè il reddito delle nazioni proveniva tanto dalla
natura e dal capitale quanto dal lavoro, il proprietario che concedeva al
lavoratore la terra, e che in sementi, arnesi, animali e viveri gli anticipava il capitale, era parso loro in ambo i modi
necessario e principale agente della produzione. La loro dottrina aveva
magnificato i possidenti, come se avessero creato essi la terra sulla quale
erano nati, e i capitalisti come se avessero creato essi il capitale, ch'era opera collettiva del lavoro di tutti. Sembrava strano
ai socialisti che gli avari accaparratori di grano e d'oro, mentre erano
segnati a dito come oppressori del popolo, venissero
in questa teoria presentati come suoi cooperatori e benefattori. La maggioranza
delle famiglie era diseredata della terra, che nascendo trovava già occupata,
diseredata dei capitali, dacchè la parte assegnata
sul frutto delle fatiche ai lavoratori era sempre così misera, che il risparmio
diveniva impraticabile. Perlochè, pensavano essi, il
capitale non poteva essere provenuto in origine da vero risparmio,
ma da ineguale distribuzione, che ad alcuni aveva assegnato un superfluo.
Tanto la terra quanto il capitale, a mente loro, appartenevano
dunque a tutta la società, anzi ai soli lavoratori; poichè
questi soli se ne valevano per ottenere la produzione a universale vantaggio.
Tutti quei membri dell'umana famiglia, che con pretesto di posseder terre o
capitali rimanessero inoperosi largamente vivendo, erano usurpatori delle
fatiche altrui. Allora s'udì quell'odioso detto: - «La
propriété c'est le vol». E anche i più miti riclamarono
per tutti i membri operosi della civile azienda il
sopravanzo del lavoro commune, ossia il capitale
sotto qualunque sua forma. Dimandarono pertanto il
prestito senza interesse, e l'uso gratuito delle sementi, degli strumenti e
della terra, che dissero il primo e il più necessario
di tutti gli strumenti, e perciò appartenente in perpetuo e inalienabile
diritto di tutta la società. Ad essi non bastò che
l'economia fosse, com'era, l'istoria naturale della ricchezza; vollero
che come il suo nome primamente significava, fosse la regola della casa
sociale: - «C'est donc une renovatio
complète de la société que l'économie politique
veut» (Pierre
Leroux - Encycl. Nouv. IV. 546). Avevano dunque
scambiato l'economia col diritto; non coll'antico
diritto civile, o col moderno diritto publico, ma col
futuro diritto sociale, che non era ancora nato; né poteva nascere se non dopo
l'economia, da cui doveva trarre ogni suo lume. Ben è vero che il
vocabolo d'economia significa legge e diritto. Ma
sotto quel nome si era svolta un'altra scienza, appunto come la geometria, che
in origine significava meramente agrimensura, senza mutar nome si era
trasformata nella più alta e pura contemplazione delle forme e delle grandezze.
Ciò era avvenuto anche della geologia, della fisica, della fisiologia, dell'istoria naturale. Gli uomini cercando una cosa ne rinvengono
un'altra; e lieti di ciò che hanno trovato, non curano di mutarne i nomi.
Chiamare inutile l'economia perchè non fosse il
diritto, era come chiamare inutile la botanica perchè non fosse l'agricoltura.
L'analisi che i socialisti
avevano voluto portare sulla distribuzione, venne a ricader da capo sulla
produzione; poichè vollero compartire i frutti secondochè ciascuno avesse contribuito a produrli: «à chacun selon ses
oeuvres». - E così addivennero
ad una distribuzione moralmente giusta, ma materialmente ineguale, che
ai meglio parteggiati dava adito a conseguire un superfluo, e perciò
diritto a farsene col risparmio un capitale. Con che riconsacrarono praticamente il capitale che teoricamente avevano
condannato; e riconobbero una proprietà che non era punto una rapina.
È ovvio che nell'ineguale
riparto dei frutti tra coloro che avessero contribuito
a produrli, il vantaggio toccava tutto all'intelligenza; ma era l'intelligenza
in quanto potesse presentarsi sul campo stesso del lavoro; era l'intelligenza
dell'artefice del direttore. Or bene v'è un'azione assai più remota ed elevata,
che l'intelligenza spande su tutta la produzione del genere umano. E non è
nemmeno quella che Genovesi aveva attribuito ai produttori
indiretti, e Gioja agli ammassi scientifici.
Gli atti
d'intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza più vaste e
universali, hanno dovuto necessariamente antecedere
ad ogni produzione diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v'è lavoro, non v'è capitale, che non cominci con un
atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro, prima d'ogni capitale, quando le cose
giaciono ancora non curate e ignote in seno alla
natura, è l'intelligenza che comincia l'opera, e imprime in esse
per la prima volta il carattere di ricchezza. "Il valore che hanno le cose
non si rivela da sè; è il senso dell'uomo che la
discopre". - Così scrive uno stimabile nostro contemporaneo (Rusconi, Prolegom. dell'Ec. P. cap. V).
Gli Inglesi e i Fiamminghi calpestarono non curanti le stratificazioni di carbon fossile accumulate sotto i
loro piedi per tutta la superficie di vaste provincie,
anche alcuni secoli dopo che Marco Polo lo aveva descritto come d'uso antico e
popolare presso i Chinesi. -
"Per tutta la provincia del Cataio è una specie
di pietre nere che si cavano dalle montagne come vene metalliche,
ed ardono come legna; queste mantengono il foco meglio della legna; e se
mettete la sera al foco, e fate che ben si apprenda, lo manterranno tutta la
notte; e ne troverete la mattina; in tutto il Cataio
non s'arde che queste pietre (Millione
C. XXI)". I Peruviani ignoravano l'uso del ferro, che i nostri
libri sacri fanno più antico di Noè
(Gen. IV. 22); ma viceversa conoscevano l'uso del guano, del quale i nostri
navigatori s'avvidero solamente ai giorni nostri, tre secoli dopo che avevano
preso vano possesso delle isole che ne sono ricoperte.
Miriamo al fatto più antico
e pertinace del genere umano, all'uomo selvaggio, quale per forza
d'inesplicabili destini si mostra ancora in questo secolo nell'Australia,
vagabondo sulle aurifere arene dietro la cieca vicenda delle piogge e della
siccità, senz'arco, senza veste, senza tetto, pago di rannicchiarsi quà e là sotto una rupe o in un
tronco. Il selvaggio è povero e nudo, soventi famelico,
talora canibale, non perchè un nemico gli contenda le
dovizie naturali che da tante migliaja d'anni giaciono intorno inoccupate; ma perchè non sa farne uso, né
cambiarle con altri, ma perchè non le conosce. Per esso
i preziosi legnami che l'ebanista e il tintore cercano nelle selve del Brasile,
sono inutili come le onde del mare; non prendono valore se non presso nazioni
che siano passate per lunga serie d'atti d'intelligenza.
Come per gli animali
ruminanti non ha la terra altro bene che l'erba dei pascoli e le aque abbeveranti, come per gli animali feroci altro non ha
che le carni dei più deboli, così per l'uomo non ancora acceso dalla ragione
degli infimi istinti a quella del pensiero, esso non ha se non ciò che largisce
all'orso, onnivoro al pari del selvaggio, ma che almeno non divora il suo
simile. Il selvaggio non è pastore; non sa far vivere seco
li animali per nutrirsi del loro latte, per inseguir sul loro dorso le fiere.
Certe tribù non conoscono metalli; Magellano ne trovò
alcuna ignara tuttavia dell'uso del foco. All'acquisto
di tutti i beni che oltrepassano i limiti del cieco
istinto dovevano precedere altretanti atti della
mente.
Prima che
l'uomo ideasse l'uso del foco e quello della lancia, della saetta, dell'arco,
della nave, del remo, della vela, della rete, egli doveva spandere più assidue
fatiche a procacciarsi colla caccia e colla pesca il cibo quotidiano e
difendersi dai nemici. Ognuna di queste
invenzioni lo fece men povero, meno incerto del dimani, meno agitato dalla fame e dalla paura. Or bene, la
capanna, il foco, l'arco, il laccio, la rete, sono doni dell'intelligenza. L'apprestarli, l'adoperarli, richiede inoltre una fatica; e questa
è da rinovarsi in perpetuo; ma l'idea inventrice,
concepita da un uomo, può valere per tutti e per sempre. L'esempio suo
la svela anche al suo nemico; e di tribù in tribù il beneficio si propaga per le foreste inospite a conforto di tutto il genere umano.
Ideato l'arco, ideata la
fionda, e la rete, il selvaggio può raggiungere la
fiera senza spossarsi nel corso; gli animali della terra e dell'aqua cadono nÈ suoi lacci anche
quando egli poltrisce nel sonno. È vero che l'apprestar la scure e l'arco è un lavoro; ma non è un lavoro perpetuo; non è un lavoro di
tutti; e risparmia a tutti un'immensa somma delle fatiche primitive. In ultimo
conto, si ottiene la stessa copia di vitto con minore sforzo; e a sforzo
eguale, se ne ottiene maggior copia. La nuova
ricchezza apporta riposo; ma ricchezza e riposo sono
frutti d'intelligenza. Non era esatto dunque il detto di Genovesi che «le
ricchezze d'una nazione siano sempre in ragione
della somma delle fatiche». Esse sono ben più veramente in ragione composta
dell'intelligenza e del lavoro. E ogni qualvolta
un atto del pensiero, abbreviando la fatica, aumenta il frutto, esse possono
crescere in ragione inversa della somma delle fatiche.
Parrebbe a prima giunta che
l'attenzione delle genti barbare dovesse confinarsi alla ricerca delle cose
necessarie alla vita animale. Eppure l'uomo, anche nello stato più selvaggio,
sente prima il bisogno d'ornarsi che non quello di vestirsi; i viaggiatori lo
descrivono nudo, ma screziato a varj
colori e fregiato di penne e collane: animal
gloriosum. Fin dai primi
rudimenti delle nazioni, l'intelligenza si rivolge ai bisogni morali, e
sopratutto a quella vanità che con barbari ornamenti prelude al fasto elegante
delle nazioni civili. Anche oggidì, chi s'accinge a far viaggio tra
siffatte tribù, suole a preferenza fornirsi di ciondoli, di campanelli, di
specchi e d'altre simili inezie dai selvaggi pregiate.
Ecco adunque fin d'allora avviato
il commercio del superfluo col necessario, il valor delle cose dipendendo più
dalla stima che ne fa la mente che non dall'utilità che ne riceve la persona.
Laonde la
misura dei valori, principio d'ogni cambio e d'ogni commercio, e fondamento di
tutta l'economia, risiede principalmente nella regione del pensiero; e varia
con ogni vicenda del pensiero.
Ecco adunque con ornamenti e strumenti di guerra e di caccia, e
frutti della terra selvaggia adunarsi un qualche avere, un qualche primo patrimonio della nuda tribù. Ecco nell'infanzia delle genti
atteggiarsi le quattro forze produttive, intelligenza, natura, lavoro e
capitale, in una serie che sempre ed ogni volta viene
aperta dall'intelligenza.
Quando una nazione è pervenuta ad assicurarsi certa copia
costante di cose bisognevoli, si chiude l'ádito ad un
nuovo corso d'atti mentali. Alla vita ferina e stupida succede certa poetica
barbarie, adorna di danze e di canti e di tradizioni ideali che spesso sopravivono a diletto e meraviglia d'una
posterità pensante. Ma per lo più, quando un qualsiasi
sistema di convivenza sia compiuto la tribù, se la sicurezza dei luoghi la
protegge, e se l'influenza esterna non interviene, lo conserva per abitudine;
gli adulti lo trasmettono per via d'imitazione agli adolescenti; l'autorità
delle tradizioni lo impone; l'orgoglio lo rende caro; pare il solo modo
possibile di vivere: idôla tribus. L'intelletto rimane in presenza assidua
delle idee trovate; poichè le invenzioni in quell'isolamento sono rari lampi fra l'oscurità dei secoli.
Si perpetua nel selvaggio una povertà contenta e superba. Questa pausa dello
spirito si ripete in tutti i successivi stadj dell'umanità,
ogni qualvolta un circolo d'idee comunque largo pur si
chiude. E poichè apporta un
assopimento dell'intelletto, è già perciò solo un regresso, un decadimento.
Nessuna idea va smarrita; ma cessa l'opera mentale, e si rilasciano nell'inerzia tutte le facultà.
Chiuso il circolo delle idee, resta chiuso il circolo delle
ricchezze.
Si suol riputare la pastorizia come
un secondo corso della vita errante, e quasi un necessario trapasso dal
selvaggio all'agricultore; ma non è un fatto
generale.
In alcune parti d'America
si trovano inizii d'agricultura
presso tribù cacciatrici; ma uso di pastorizia solo
nel Perù. Notò Robertson
negli aborigeni americani un abito d'incuria e crudeltà verso li animali. I Messicani erano pervenuti all'agricultura e ad altre arti molte e ad un rudimento di
scienza, e allevavano solo alcune varietà di gallinacei e di cani, di cui si
cibavano; quindi l'antropofagia durò presso di loro, ammantata di barbari riti,
fino all'arrivo di Cortez. Tracce d'antropofagia
perdurano tuttavia nelle fertili isole della Nuova Zelanda;
e se ne accagionò il difetto di grosse specie
animali; ma vestigia ne restano anche in Australia, ove la fauna primitiva
offre animali di una maggior mole. Nel nostro continente, fin dalle prime
ricordanze del genere umano, ci si affaccia l'idea del pastore. La pecora anzi tutto, la capra, il toro, il cavallo, il camello;
più tardi l'elefante, il renne; non sappiamo quanti secoli l'uomo spendesse a
radunare dalle foreste dell'Asia tutta la famiglia dei quadrupedi e volatili
domestici. Egli ebbe allora sotto mano un alimento certo ed equabile;
non fu costretto a precorrer colla caccia il ritorno della fame quotidiana; potè tranquillo aspettar nella sua tenda il dimani; mentre la folla delli
animali rendeva ubertosa la terra circostante; e dai
semi, dal caso adunati e sparsi sul suolo, spuntava senz'arte un primo
rudimento d'agricoltura. Non mai, nè prima, nè dopo, accadde che la ricchezza dell'uomo si addoppiasse in ragione più apertamente inversa delle
fatiche.
Ed essa diede campo ad
altri innumerevoli atti d'intelligenza; poichè, in
compagnia degli animali e per mezzo loro, potendo gli uomini facilmente
trasferirsi di terra in terra, poterono vedere le scoperte fatte presso altri
popoli, e seco propagarle in più lontane regioni. Questi fu beneficio grande della vita pastorale; e vi parteciparono
anche quelle nazioni che avevano dimore stabili; e che furono invase da
pastori. In America le tribù aborigene non poterono darsi codesto mutuo
ammaestramento, perchè non ebbero li animali adatti
alla pastorizia vagante; e così quelle che cominciarono a incivilirsi, non
poterono ajutarsi fra loro a imparare e pensare, poichè nè tampoco si conobbero.
Avvezzi
per tal maniera nei nostri libri a considerar sempre il pastore come un antecedente
dell'agricultore, noi non sappiamo apprezzare un
fatto d'ordine inverso, che solennemente si ripete ai tempi nostri, Noi
non osserviamo come lo Spagnuolo, varcando
l'Atlantico, d'agricultore nelle regioni della Plata si fece pastore; come l'Olandese placido e sedentario
si fece nella Terra del Capo nomade irrequieto simile al Tartaro; come
l'Inglese s'accostumò a vagar solitario dietro le sue pecore nelle lande
dell'Australia. Fu atto d'intelligenza;
poichè il colono potè farsi
più agiato errando dietro innumerevoli bestiami nello spazio immenso, che non
crocifiggendo le sue braccia sovra un angusto campo.
Questi esempi moderni
ricordano un fatto grande e antico; illustrano le origini delle grandi nazioni
europee. I Pelasgi, i Galli, i Britanni, i Teutoni, gli Slavi, i Lituani esercitarono nell'Europa
primitiva la pastorizia insieme ad una vaga cultura
annua, con possesso promiscuo ed incerto. Erano colonie di quelle genti
agricole dell'Irania, il cui stabil
vivere in campi e città vediamo descritto nel Zendavesta; erano tornate a vita pastorale nelle foreste
dell'estremo Occidente, appunto come i moderni Boer
in Africa e i Gauchos in America. E
trassero seco in quel barbaro esilio nel mezzo ai
selvaggi aborigeni i frammenti delle religioni e delle lingue, e gli strumenti
della vita agricola e industre dell'Oriente. Vico, venuto prima che l'Asia
svelasse il tesoro di quei venerandi libri, riputò sapienza della colonia
italica ciò che fu eredità d'una madrepatria lontana e
nelle perpetue peregrinazioni obliata. L'economia di quelle nazioni era mista
di civiltà e barbarie come le loro idee.
Quando l'uomo ebbe trovato in Asia il frumento e
l'orzo, come nelle regioni più orientali il riso, come nel Messico e nel Perù i maìz e la patata; e quando
si fu avvisto come da semi a caso sparsi intorno alla sua dimora quelle
preziose piante si moltiplicassero, egli al lume di quella semplice idea potè con pochi giorni di cure assicurarsi il vitto
dell'anno. E il lavoro si diminuiva più oltre, a
misura che si moltiplicavano le invenzioni accessorie alla seminagione e alla
mietitura, e sopratutto nel nostro continente quelle, rimase sempre ignote
all'uomo americano, del ferro, del carro, dell'aratro. La ricchezza dei popoli
si aumentò perfino coll'invenzione del riposo delle
terre, sancito con precetto sacro nell'anno sabbatico degli Ebrei. E altri incrementi di frutti senza incremento di fatica
arrecò l'avvicendamento di più culture, additato già come idea dÈ suoi tempi nei mutatis
foetibus di Virgilio, e divenuto principio
eminente dell'agricoltura moderna. Trovato un principio qualsiasi
d'agricoltura, era fatta anche la scoperta del valore della terra.
Il selvaggio aveva
sostituito alla fatica una forza gratuita, allorchè
aveva imaginato di sospendere al vento su la sua navicella una pelle o una stuoja o
una vela. A poco a poco il navigante notò che i venti
corrispondevano alle stagioni dell'anno ed agli aspetti delle costellazioni; e
che i flussi e riflussi e le correnti dell'alto mare assecondavano il moto dei
venti; potè segnar sulle tavole, al pari delle vie
della terra le vie del mare. E ad ogni nuovo passo della sua mente
osservatrice, s'alleggeriva la fatica e s'agevolava la ricchezza; sempre il
principio della nuova sua fortuna era nel movimento
del suo pensiero.
Ogni qual volta un artefice
trovò nuove materie da filare, da tessere, da fondere, vi fu chi pensò
d'andarle cercando presso quei popoli che le avevano da natura, ma non avevano saputo farsene profitto. Ogni nuova idea
dell'artefice diede una nuova idea al mercatante; generò un nuovo ramo di commercio. E il beneficio dell'idea nuova arricchì anche la tribù
barbara che dormiva inconscia sull'ignoto tesoro.
Il possedimento delle nuove arti procacciò largo
e tranquillo alimento a certe famiglie. Esse portarono seco
i secreti loro di terra in terra; il loro patrimonio era la loro idea. Sovente per la straniera origine e la religione diversa, restarono
divise dalla moltitudine; si fecero del sapere loro un'eredità, un privilegio
perpetuo; divennero una casta. Raccolsero nelle loro
peregrinazioni gli sparsi atti d'intelligenza di varie tribù; li trasmisero ai
figli; e per ammaestrarli, strinsero l'arte in regole, in proverbj,
in assiomi, magnificati dall'autorità dei maestri e del secreto, e involti
spesso in superstizioni e magie. Così si costituirono le prime scienze;
e ciò che Gioja più acconciamente chiamò ammassi
scientifici.
Quella
fortuita miscela di fatti e di fantasie, di pratiche cieche e d'audaci
astrazioni, di verità e d'imposture, ad ogni generazione imparata e insegnata,
fusa e rifusa sotto un assiduo lavoro di riflessione si ordinò; si divise in
parti; diede accesso all'analisi; la geometria potè
separarsi dalla medicina, l'astronomia dalla giurisprudenza, la scienza profana
e libera dal ferreo dogma. Ogni ingegno potè scegliere la sua via;
la forza mentale d'un uomo, e d'una classe d'uomini, si concentrò sopra un solo
ordine d'idee; il sapere sempre più si suddivise; il pensiero penetrò sempre
più addentro nelle cose. L'analisi è nel regno dell'intelligenza ciò che
la divisione del lavoro è nel regno dell'industria.
Costruita la scienza,
l'opera delle scôle si rivolse a fomento universale
di produzione. Le tribù dotte poterono ammaestrare le genti barbare che avevano
soggiogate colle armi o coll'incanto
dei riti sacri. Allora l'applicazione di tutti gli atti d'intelligenza, fino a
quel punto compiuti e unificati, si stese sopra vaste regioni, lungo il Nilo,
lungo l'Europa, lungo i fiumi dell'Irania,
dell'India, della China. Ogni sistema d'idee divenne un sistema
di lavori e di commerci, di potenza e di ricchezza.
Il pensiero di pochi
addottrinati era la forza suprema, era il destino, che reggeva la vita
d'innumerevoli generazioni di sudditi e di schiavi. Esso potè applicarsi agli argini dei fiumi, agli asciugamenti,
agli aquedutti, alle irrigazioni, alle misure della
terra, ai ponti, alle vie, all'educazione degli animali utili, ai
rapporti dell'agricoltura e dell'astronomia. E nel
tempo stesso si applicò all'ordine della famiglia nella poligamia o nella
monogamia; e quindi alle eredità ed ai possessi e a tutta l'economia publica e privata. Ma codesto ordine
dei lavori e delle ricchezze si attemprò alla gelosa
conservazione di quel predominio che le caste dotte avevano preso sulle ignare
e servili. Si costituì una tradizione di recondito sapere in mezzo al diluvio
della publica ignoranza. La casta agricola rimase
condannata ad assiduo lavoro e a miserabile e nuda umiltà. Povera
come i selvaggi, e inoltre stupida e vile, serva della gleba, non ebbe
nemmeno la coscienza di poter combattere i suoi oppressori.
Il superfluo della
produzione agricola venne consunto da altre caste,
alcune destinate a servire agli agi e al fasto della classe dominatrice; alcune
a simboleggiare e glorificare le sue idee nelle piramidi, nei templi, nei
colossi, nei sotterranei, nelle altre meraviglie dell'arte egizia, babilonica e indiana, alcune a conservare e compiere gli
asciugamenti, le irrigazioni, i porti, i ponti e le altre opere riproduttive.
Era un immenso capitale che diveniva utile e stabile patrimonio della
nazione sotto una forma determinata dal suo pensiero.
Si
pongano mutate le idee che stavano nelle menti della casta pensatrice; si ponga
uscita dalla teologia braminica l'eresia del
buddismo; si ponga contro il dogma della divina origine delle caste il
dogma dell'eguaglianza degli uomini nel nulla. Agitati da una nuova influenza gli animi del vulgo inconscio fin allora del suo diritto e della sua forza, tutto l'ordine di quella produzione, di quei
consumi, di quei cumuli, si trasforma e svanisce.
L'economia publica d'una nazione non si spiega dunque nè con Montesquieu, né con Adamo Smith; non si spiega nè con la natura,
nè col lavoro, ma coll'intelligenza, che afferra i fatti della natura;
che presiede al lavoro, al consumo, al cumulo; che li fa essere in uno o in
altro modo; che li fa essere o non essere.
Non ostante tuttociò,
ancora non si può dire che le scoperte le quali influiscono più direttamente e
vastamente sulla produzione universale del genere umano, fossero di natura
scientifica. In tutto l'antico evo e nel medio e nel moderno, non si possono
veramente considerare con Say le scienze "comme les bases des arts
industriels et des richesses". Non fu
il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell'Asia
il primo grano di frumento e lo ripose entro la terra col proposito di vederlo ripullulare; nè quello che saltò pel primo sul dorso al cavallo; o si trovò d'aver indurato col foco la sottoposta argilla; o d'aver
vetrificato le sabbie del lido colle ceneri dell'erbe marine. L'aratura, il
maggese, la rotazione erano pratiche cieche, eppur da
secoli benemerite ai popoli, quando la tarda chimica venne a spiegar le intime
ragioni della loro utilità. La stessa invenzione della bussola, che ci abilitò
a varcare tutti i mari, era un'osservazione fortuita, sconnessa, solitaria, che
non faceva corpo di scienza. Tutte quelle invenzioni furono
atti d'intelligenza, scaturiti in menti sagacissime
dall'immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica.
Il più solenne atto col
quale la scienza invase il regno dell'economia publica fu la scoperta dell'emisfero occidentale. Il
carteggio di Paolo Toscanelli con Cristoforo Colombo
attesta come quella mirabile impresa che mutò faccia ad ambo i continenti e
diede al genere umano un nuovo ordine d'economia publica
e privata, fu dedutta dal principio della forma
sferica del globo, e dalla geometrica certezza che per via dell'occidente si
doveva giungere all'estremo oriente. «E non abbiate meraviglia, scriveva Toscanelli, che io chiami ponente
il paese dove nasce la specieria, la quale communemente dicesi che nasce in levante; perciocchè coloro che navigheranno a ponente sempre troveranno
detti luoghi in ponente; e quelli che anderanno per
terra a levante sempre troveranno detti luoghi in levante».
Un altro dono della scienza
all'economia del genere umano fu l'invenzione della macchina a vapore. Da Erone Alessandrino alla prima locomotiva che corse fra Liverpool e Manchester passarono
duemila anni di preparazione scientifica. Più interamente alla scienza
appartiene l'onore d'aver applicato l'elettricità alla telegrafia, alla
tessitura, alla doratura, alla riduzione delle terre in metalli. Ma passeranno molte generazioni prima che le applicazioni pratiche di
questi pensieri scientifici abbiano una vasta e profonda influenza sulle
ricchezze dei popoli. L'uomo non può ancora imaginarsi
quali trasformazioni la chimica e la legislazione possano
operare sulla superficie della terra.
Intanto vediamo anche ai
nostri giorni grandissime innovazioni esser nate entro i
confini d'una mera sagacità pratica. Tali furono le filature mecaniche della seta, poi del cotone, della lana, del lino;
la costruzione delle rotaje di pietra, di ferro, la
propagazione generale dei pozzi forati, la tubulatura
sotterranea, prima per prosciugar le terre, poi per insinuarvi una ventilazione
fecondatrice, infine l'artificiosa modificazione delle razze animali.
La scienza oggidì ha intrapreso la gigantesca
operazione di descrivere e ridurre a rigida espressione razionale tutte le
pratiche dell'industria, dell'agricultura, del
commercio, della legislazione. La concimatura, la marnatura, i cementi, la
vinificazione, le distillazioni, la metallurgia, le machine,
le tariffe daziarie, le operazioni di credito publico,
si vanno scrutando al lume di tutte le scienze relative. Dai recessi oscuri
della psicologia, dal principio della reciproca sostituzione dei sensi, scaturì
l'arte di educare i sordomuti e i ciechi nati ad essere membri operosi della
società. È ben naturale che le nazioni dell'uno e dell'altro continente, presso
le quali le utili invenzioni divennero un fatto continuo e quotidiano, fossero quelle che avevano posto maggior cura a svolgere la publica intelligenza. Ed è naturale che queste siano eziandio le nazioni presso cui le
scienze stanno sotto l'alto influsso di quella filosofia esperimentale che da Bacone fu detta scientia
activa.
Ma v'è un altro ordine d'idee che mentre sembra
condurre li animi lungi affatto dalla cura delle ricchezze e d'ogni cosa
materiale, esercita sovra queste un imperioso dominio.
I Romani, avendo trovato
l'occidente quasi inculto, lo avevano sparso di
colonie e solcato di magnifiche strade, avevano coperto di vigneti le rive del
Rodano e del Reno. Era il progresso; era l'intelligenza che spandeva un nuovo
modo di vita sovra una semibarbara natura. Dopo due o tre
secoli, scese su quelle terre una nuova notte; le vie giacevano deserte e
inselvatichite; l'agricultore recideva li arbori fruttiferi per sottrarsi all'imposta; gli scrittori
paragonavano le desolate loro città ai cadaveri: semirutarum
urbium cadavera.
A compiere la ruina, una milizia barbara, dalle
frontiere che non sapeva difendere, rigurgitava sulle inermi provincie; i Goti fuggivano inanzi
ad Attila, flagello di Dio. Ebbene nel secolo quinto
questo decadimento era visibile e materiale; ma un decadimento invisibile e
morale lo aveva precorso. La futura barbarie della terra
romana erasi annunciata non solo col sepolcrale
silenzio dei giureconsulti nella prima metà del secolo terzo; ma col graduale
oscuramento degli ingeni, che si manifesta a
qualunque lettore che da Virgilio e Orazio discenda a Tertulliano e Arnobio. L'ignavia delle menti preludeva all'ignavia delle braccia. Quando nell'uomo la
ragione è vigile e forte, l'attività sua si spande sopra ogni cosa che lo
circonda. Ciò sia detto a coloro che credono i
puri studj letterari e filosofici sterile divagamento e ostacolo alla publica
prosperità.
Interamente nelle regioni
del pensiero si preparano quei destini che danno e tolgono d'improviso ai popoli e alle classi il possesso della terra e
degli altri beni. Ai fondatori del cristianesimo fu insegnato di non essere
solleciti del cibo e delle vesti, ma di cercare il regno di Dio e la giustizia;
poichè ogni altro bene vi seguirebbe: Et haec omnia adjicientur vobis (Mat. VI, 33). E così fu. Non erano trascorse molte generazioni, che li eredi di quella fratellanza di pescatori sedevano signori
di vaste eredità. Nell'ottavo secolo stringevano con Carlomagno
il patto che dava a vescovi e abbati la metà della
terra d'occidente coi servi condannati a coltivarla; e
fin dalle selve della Svezia e dell'Islanda si apportò a Roma il denaro del
pontefice.
Nel secolo settimo un'altra
idea teologica, venuta nella fervida fantasia d'un
arabo conduttore di cameli, attraeva un'orda di
pastori; e il corso d'un secolo bastò loro per appropriarsi di tutte le terre,
a levante fin oltre il Gange, a ponente fin oltre il Tago.
Perocchè a mente loro tutta la terra era di Dio; e perciò del suo profeta; e perciò dei fedeli
che credevano in Dio e nel profeta. Ogni anteriore diritto delle famiglie
restate infedeli fu negato e cancellato. L'infedele fu destinato al lavoro; il
fedele al godimento. Fu il contrario del detto: à chacun
selon ses œuvres. E così la proprietà,
in massa, va e viene colle idee dei popoli. Anche qui
la ragione del ripartimento e del possesso dei beni
non è a cercarsi nell'economia, ma nelle oscure fonti della teologia. La causa
di quella repentina e mostruosa ricchezza d'un'orda di
pastori non era stata certamente la natura, nè il
lavoro, nè il capitale; ma un fenomeno mentale, un
turbine e una tempesta d'idee, che dal pensiero d'un uomo prorompeva a
sconvolgere tutto l'ordine dei beni sovra un'immensa parte della terra. E
ancora in questo secolo decimonono, è forza cercare
nelle nozioni che questo fanatico del secolo settimo aveva del diritto di
proprietà, il principio per cui le belle regioni
dell'Asia Minore e della Siria sono nude e squallide solitudini.
I Romani contavano li anni dalla fondazione di
Roma. Prevalendo sull'imperio il cristianesimo, prevalse
l'uso di datare dalla nascita di Cristo. Avvicinandosi poi l'anno mille
di quest'era, si sparse nei popoli il superstizioso
grido: mille e non più mille; grido che probabilmente si ripeterà quando sarà prossimo l'anno duemila!
Allora nei testamenti
apparve la fantastica formula: appropinquante mundi termino.
Immense baronie furono legate alla chiesa; furono emancipati molti schiavi,
interi villaggi e città. Gli istorici videro in
questo delirio delle menti il primo impulso al risurgimento
delle popolazioni oppresse.
Gli istorici
sono unanimi a vedere altro maggior sovvertimento della ricchezza feudale nelle
crociate. Anzi veramente la prima di siffatte spedizioni,
mosse in nome e autorità del pontefice, fu quella che con una sola battaglia tolse
agli Angli e Sassoni il dominio della Britannia, e
divise tra sessantamila venturieri il godimento d'una
superficie di sessantamila miglia.
Ma
veniamo a cose più vicine. Voltaire, il difensore di Calas, di Sirven, di Lally, di Labarre, di Martin, di Montbally e d'altri innocenti immolati sul patibolo,
rivendica dalla schiavitù della gleba i dodicimila sudditi dei venti
canonici di S. Claude in Franca Contea. Non vince la
causa; ma la giusta e generosa sua parola scuote talmente l'animo del re, che
abolisce la servitù in tutte le terre della corona.
E l'idea di Voltaire gli sopravive; essa è incarnata nella nazione,
incarnata nel secolo. La notte del 4 agosto 1789, ogni servitù feudale è
abolita. Le menti comprendono la necessità d'un codice
civile; all'ombra del quale, in breve tempo, una vasta parte della terra di
Francia vien divisa tra i figli dei servi della
gleba. Mai nell'antica Francia, mai nelle antiche Gallie, mai sotto i re, nè sotto
i druidi, il villano era stato libero possessore del suo tetto e del suo campo
come un cittadino romano. Questo è ciò che alcuni chiamano con ineffabile
sorriso il Voltairismo, il Voltarianismo!
Sì; come il volto dell'uomo
e il suo braccio e ogni atto suo palesano ciò che avviene nel suo animo, così
nel commercio, nell'industria, nell'agricultura,
nell'aspetto delle città e più in quello delle campagne, dei ponti, delle
strade, nella forma e nella cifra delle publiche
gravezze, nel diseguale incremento delle popolazioni, nei registri delle
nascite e delle morti, delle nascite legittime e delle illegittime, in tutta la statistica,
in tutta l'economia, traluce il pensiero dell'intera nazione, il pensiero
dominante, impresso in lei da pochi possenti intelletti, che sono li arbitri
del suo destino, mossi eglino pure da altre più
sublimi necessità. Nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi
in essa dalla sfera delle idee.
E anche in questo momento, noi vediamo in Italia un'idea
trionfante, che colla mano d'uomini che lungamente si vantarono d'essere sprezzatori delle idee, caccia da vasti e antichi
possedimenti le corporazioni ecclesiastiche, e chiama a novella sorte le
moltitudini che per tante generazioni le fecondarono con abjette
e dispregiate fatiche.
L'uomo interiore possiede due forze: intelligenza
e volontà. La volontà è principio di ricchezza quanto
l'intelligenza.
L'uomo segue dapprima gli
istinti, e sopra tutto quelli in lui potentissimi,
della socievolezza e dell'imitazione. Vi aggiunge quindi l'esperienza sua propria; e può, coll'ajuto
della società, svolgere in grado sempre maggiore la riflessione; sicchè le sue passioni istintive, senza mai veramente mutar
natura, infine assumono forma di volizioni razionali o deliberate. Quegli
impulsi che determinano la volontà all'acquisto dei beni, si chiamano interessi.
L'uomo comincia a voler
direttamente i beni; poi impara a voler quelle cose per cui
mezzo si acquistano. Egli si forma dunque interessi immediati e mediati.
Ogni uomo avrebbe veramente
interesse che nel luogo ov'egli vive, e in tutta la
terra, fosse massima la copia dei beni; affinchè, compiuti gli scambj
tutti quanti, maggiore potesse essere la quota che ne toccasse in particolare a
lui.
Ma pur troppo egli può
anche determinarsi a cercare un aumento della proporzione sua
propria nel minoramento o nello spèrpero delle
porzioni altrui e della massa generale. Tale è l'interesse che move ogni eslege al pari d'ogni
privilegiato. Pertanto quella stessa volontà che tende all'acquisto dei beni,
può divenire un impedimento alla tranquilla e ordinata loro produzione.
La natura offre invano i suoi beni, quando l'umana volontà, sotto forma d'un
parziale e prepotente interesse, vi appone un divieto. Affinchè alcuni privilegiati potessero vendere a prezzo
d'oro nelle colonie le ferramenta di Catalogna e Biscaja, la
Spagna aveva vietato che si aprissero in America miniere di
ferro.
Non vi andava solamente
perduto il lucro delle ferriere; ma tutta la produzione agraria e tutta l'industria d'immense regioni rimanevano prive dei necessarj strumenti, o dovevano pagarli a prezzo smisurato.
Inapprezzabili tesori dovettero rimaner sepolti per secoli in un suolo troppo
avaramente tocco dal ferro. Il favore della natura fu egualmente inutile
all'uomo americano, prima della conquista, per difetto d'intelligenza,
come dopo di quella per impotenza della sua volontà contro una volontà straniera. È questo conflitto delle volontà, è questo divergimento degli
interessi, che rende dannoso e malefico qualunque dominio straniero. Il governo
d'una nazione comunque siasi
civile assume sempre nÈ suoi lontani dominj un aspetto di barbarie; egli è già più o meno
barbaro nel fondo delle sue provincie.
Fu già da molti osservato che quando gli statuti delle nostre città transpadane
riconobbero in qualunque possidente il diritto di condurre le aque irrigatrici per le terre dÈ
suoi vicini, attribuirono alla volontà dell'uomo intraprendente un predominio
sul nudo diritto di proprietà e sul volere dell'uomo inoperoso. Senza ciò, il tesoro d'aque estive che
le alpi versano nelle nostre pianure, sarebbe rimaso
perpetuamente inutile.
Se nella Terra del Capo si potè
propagandare la cultura della vite, egli non fu soltanto perchè il suolo e il
clima vi fossero naturalmente propizj. Fu perché quell'estremità dell'Africa pervenne in signoria degli Olandesi
e poi degli Inglesi: due popoli, che non potendo aver
vigne in casa propria, furono contenti di poterne avere in qualsiasi altra
parte dei loro dominj; e a tal uopo chiamarono quivi
una colonia di vignajuoli francesi. Ma se quella contrada fosse caduta in potere della Spagna
vinifera, questa non avrebbe mancato di proibire quivi pure la piantagione
delle viti.
I mari che cingono l'America per ogni parte, e conducono con tragitto
rettilineo a tutte le altre parti del mondo, rimasero inutili e innavigabili agli abitanti delle colonie spagnuole. Quel governo preoccupato da fallaci interessi,
si era prefisso d'inviarvi d'Europa sue soli convogli annuali, confinando il
commercio d'un mondo in un termine invariabile di quaranta giorni all'anno. Col trattato dell'Assiento
aveva poi concesso al commercio inglese di spedir colà un'unica nave per
anno; non avvedendosi che il commercio di quella sola nave avrebbe coperto il contrabando di mille. Ecco l'umana
volontà, spronata da un cieco interesse, accingersi a chiuder l'immenso oceano
che abbraccia tutta la terra.
Questa azione repressiva,
nemica del commercio e di tutti i vantaggi che il commercio apporta, si vide spinta a non più visto eccesso nel sistema continentale, che
sarebbe stato un immenso danno al genere umano e un esempio eternamente
pericoloso, se non fosse stato un'immensa illusione.
Siffatti dannosi arbitrj non hanno ancora ceduto ai riclami
della ragione e della scienza. Parecchie legislazioni interdicono più o meno anche oggidì alle colonie il diretto commercio
coi varii popoli. Quasi tutte le nazioni riservano più o meno ai proprii naviganti il
costeggio dei lidi e delle isole e la navigazione dei fiumi. Abbiamo veduto ai nostri giorni resa quasi impossibile dalle dogane di Modena
e di Parma la navigazione del Po. Abbiamo veduto impedirsi, or dall'Austria, or
dalla Russia, la navigazione del Danubio.
Li stati maritimi sono gelosi di
questi rami di navigazione, non solamente per falso concetto d'economia, o per
timore d'infezione politica, ma perchè li riservano all'allevamento dÈ marinaj per le navi da guerra.
In ogni modo, il libero uso delle aque navigabili
viene ad essere angustiato da veri o falsi interessi. Nessuno potrebbe fare un
calcolo remotamente approssimativo di tutti i beni che la volontà dell'uomo
preclude all'uomo; e che per un mero mutamento della sua volontà verrebbero quasi tratti dal nulla.
Più Evidente è ancora l'influenza degli
interessi sull'intensità ed efficacia del lavoro. Annunciò una spendida verità il poeta quando
disse che Giove toglie la metà dell'anima all'uomo, in quel giorno che lo fa
servo. È un fatto che in mano agli schiavi divennero sterili quelle terre che
in altri tempi avevano alimentato copiosamente una popolazione libera. L'antica
Italia aveva in pregio il lavoro dei campi; essa era mirabilmente coltivata, e
mirabilmente popolata, era la terra del Dio delle sementi:
Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus
Magna virûm...
i suoi capitani, i suoi senatori, non vergognavano di
mostrarsi agli stranieri colla mano sull'aratro. Nel medio
evo, altri guerrieri, che avevano portato seco da barbare origini il
disprezzo dell'agricoltura, lasciarono per molti secoli le terre nello squalore, abbandonandole ai servi della gleba; il nome d'agricultore, di villano, in Italia significò
brutalità, il Francia deformità, in Inghilterra sceleraggine.
Ma infine nuovi padroni, usciti con altro animo dalle città
industriali e mercantili, liberarono col ferro i servi della gleba, come
a Milano, o li redensero coll'oro, come a Bologna; vi
suscitarono l'arte agraria soi capitali, coll'opera, cogli scritti; l'Italia ritornò fertile e
popolosa. Oggidì gli Inglesi, nel possesso d'una terra suntuosamente e
dottamente coltivata, ripongono quella stessa vanità che i patriarchi celti e i baroni normanni riponevano a vederla sgombra d'uomini, e solo sparsa d'animali selvaggi. Nessuno rivocherà in dubio che
l'emancipazione dei servi della gleba in Russia non sia per attivare
prodigiosamente il lavoro, e accrescere a più doppii
la produzione delle terre e dei mestieri.
Tutto ciò che può dirsi in
favore della coltivazione per livello o per mezzadria, principalmente per
quanto concerne la vite, il gelso, l'olivo, il cedro e tutte quelle che si
potrebbero chiamare culture conservanti, si
riferisce alla volontà. Lo schiavo o il giornaliero, a forze eguali, a eguale intendimento, non apportano mai la stessa
vigilanza, e assiduità nella cura delle piantagioni, dei terrazzi, dei
sostegni. Sulle pendici della Liguria e della Valtellina, sulle riviere dei
laghi cisalpini, vediamo come l'agricultore, quando
impetuose piogge gli rapiscono le poche glebe sospese
sull'erta, vi arreca a spalle la terra; rifà da capo il povero fondo. Lo
straniero ammira l'arte; ma il principio di quegli sforzi e di quelli avvedimenti è tutto in una artificiale
volontà. Poichè se si muta il titolo del possesso e
dell'affitto, anche non mutandosi l'agricultore,
tutto quell'edificio sparisce, sparisce
la popolazione; un latifondo in breve diviene pascolo e selva. Quella forma di
vegetazione non ha radice nella terra, ma nell'uomo; non nei calcoli
dell'intendimento, ma nella forza della volontà.
Il lavoro del mezzadro,
vincolato a certi accordi col padrone, e a certe forme
consuete e quasi ereditarie, ha un limite che non oltrepassa. Ma vien facilmente superato dall'agricultore suburbano; il quale, per la vicinanza del
mercato e per l'intera libertà del suo contratto a denaro, opera come un
vero industriale.
L'aumento del reddito, che
si avverò in Italia e in Inghilterra nei poderi dati a
lungo affitto, si deve in parte bensì all'ampio capitale, e in parte si deve a
una intelligenza guidata da tutti i lumi del secolo; ma nè
quel capitale né quell'industria si presenterebbero
su quel terreno, se una data forma di contratto non assicurasse all'agricultore per un certo tempo il frutto d'opere che non
possono divenir utili se non dopo un corso d'anni. Il lungo affitto e il
rimborso dei miglioramenti costituiscono in sostanza un contratto d'assicurazione.
Tutte quante le assicurazioni
sui naufragii, sulle grandini, sugli incendii, sulle infezioni, sulle morti, sono impulsi e
conforti alle incerte e timorose volontà. E nei futuri
trattati d'economia si dovrebbero collocare sotto questa rubrica. Poiché certamente non derivano dalla natura, nè dal lavoro; e le assicurazioni mutue, e tutte quelle che
risultano dalle condizioni dell'affitto, non richiedono, nemmeno come
strumento, il capitale.
Anche nel commercio e nella navigazione, da un operatore
cointeressato si aspetta un servigio più sagace e fedele. Negli stabilimenti
dei fratelli Moravi, e dovunque il frutto del lavoro viene assorbito da una communità, sicchè l'individuo non possa sperare dalla propria
diligenza e perizia un proporzionato vantaggio, si osservò nei lavoratori una
certa indolenza, non scevra d'invidia contro chi mostri maggiore intendimento o
zelo soverchiante. Uno dei più tristi proverbii
nostri deplora come fatto a nessuno e perduto, ogni servizio che si presti al commune. Questo è lo scoglio a cui ruppero quasi tutte le
imprese dei socialisti. I fondatori avevano compreso in tutta la sua forza il principio del lavori, e in qualche parte il
principio dell'intelligenza; ma non apprezzavano l'efficacia del lavoro libero,
ch'è quanto dire della libera volontà. I riformatori economici, al pari dei
politici, trascurarono troppo la libertà. Essi non furono paghi d'affacciare
all'uomo l'idea; perchè non erano persuasi che, data l'idea, nell'essere umano
si svolge spontanea la tendenza all'azione, come nella puerpera, dato il parto,
si svolge spontaneo l'amore materno. Non avevano abbracciato nella
loro astrazione tutte le leggi dell'umana natura.
Se si mira sotto l'aspetto
dell'economia la publica difesa, si vede che il
soldato volontario, a pari numero e pari armamento, e perciò a pari spesa,
presta un servigio più efficace che l'uomo costretto,
il quale è privo sovente d'istinto belligero e
sostenuto solamente dalle stringhe della disciplina. Laonde
il più economico sistema di difesa, se non per un governo, certo per una
nazione, sarebbe quello che accoppiava il principio della milizia volontaria
dei Romani col principio della milizia universale
degli Svizzeri, tenesse ammaestrati, ordinati, armati e moralmente esaltati gli
abili tutti quanti, serbandosi ad ogni caso di guerra a fare un appello alla
volontà; e l'esperienza dimostra che le volontà rispondono con una vivacità
proporzionata al pericolo. Codesto elaterio delle
volontà non si può fomentare se non con modi attinti nella sfera dell'affetto. E sarebbe una nuova applicazione della psicologia
all'economia publica; poichè
il più grave quesito economico è oggidì quello d'istituire una publica difesa che non sia d'altra parte una publica ruina.
Nei premi e negli onori che i popoli cominciano
a tributare a quelli che apportano alle publiche
esposizioni strumenti, manifatture, frutti, animali, e nel valore solenne
attribuito alle invenzioni e alle altre opere dell'ingegno, v'è una forza che
aggiunge efficacia al lavoro e all'intelligenza, perchè aggiunge stimolo alla volontà.
Consessi legislativi, per
legge o per abuso eletti nelle classi opulente, tendono a riversare le imposte
sull'operosa mediocrità; tassano ogni atto di commercio, ogni trapasso di beni,
perfino la frequenza delle lettere, ch'è pure un
lavoro, e un genere fecondo d'utili combinazioni e provocatore d'attività.
Accrescendo li attriti che stancano l'industria,
rallentano la publica prosperità, in quanto essa
scaturisce dalla volontà.
Grande incentivo
all'industria è la concorrenza, fonte di prodigiosi sforzi di sagacia, di
solerzia, di risparmio; fonte di miseria a chi nella prova succumbe,
ma pur sempre cimento d'emule volontà. Una nazione la evita e la respinge; si
difende dal commercio dei grani esteri e delle estere
merci come da una sventura. Un altro, popolo o una nuova generazione del popolo stesso, non teme la libertà del commercio e sfida le
nazioni rivali. Solamente sotto il flagello d'una
spaventevole carestia, che tolse all'Inghilterra un quarto della sua
popolazione, fu vinta colà la causa del libero commercio. La perseveranza dei
novatori trionfò della pertinacia dei privilegiati, perchè
questa era soprafatta dalla mole dei publici
mali. Dopo il 1848, tutto l'ordine della produzione in Irlanda fu intervertito con nuovi patti di lavoro e di locazione. Il
male prima, il bene poi, non furono tanto opera della
natura, quanto delle leggi, dei contratti; in una parola, della volontà.
Per lo stesso modo, la
volontà signoreggia sulla accumulazione dei capitali,
ora sospingendo colle gare del lusso a disperderli, ora colle leggi suntuarie a risparmiarli. La sicurezza li alletta a giro
veloce; l'incertezza degli eventi, le leggi improvide,
l'arbitrio dei governanti, le gare delle fazioni tendono a farli stagnanti e
infruttuosi. Dipende affatto dagli ondeggiamenti della volontà, se i capitali debbano investirsi riproduttivamente
nelle ferrovie, nei canali, nei porti, negli istituti d'insegnamento, ovvero se
si debbano consegnare alle manimorte, propagatrici di
pigrizia e di superstizione.
Nelle guerre ambiziose e
aggressive, nella sfrenata emulazione degli armamenti, delle flotte, delle
fortezze, li eccessi a cui s'abbandona un governo
divengono una necessità per li altri tutti. Sotto forma del
debito publico, s'ingoja la
rendita netta delle terre; s'ingoja tutto ciò che l'agricultore deve ai favori della natura e al cumulo dei
capitali; la moltitudine dei possidenti si lascia stupidamente ridurre alla
condizione di meri affittuarj; si trasferisce in
fatto vero nel governo ogni proprietà, come nelle conquiste degli Arabi e dei
Normanni.
Chi fa il
proprio volere, chi si determina giusta i motivi suoi proprj
e le proprie idee, si dice libero; la libertà è la volontà nel suo razionale e
pieno esercizio; la libertà è la volontà.
Or bene, tutte le istorie ci attestano come la
libertà fu cagione che immense ricchezze si potessero
accumulare sopra paludose o aride o alpestri liste di terra, in Fenicia, in
Liguria, nella Venezia, nell'Olanda, nella Svizzera. Il primato sui mari
appartiene oggidì ad ambo i rami della stirpe anglobritanna,
ch'è quella fra tutte le grandi nazioni che serbò più
fedele e costante il culto alla libertà. Le sue ricchezze sono maggiori di
quelle degli altri popoli per forza di libertà, cioè
per causa che risiede nella sfera della volontà. Epperò,
per nostro conforto, sono accessibili a tutte le nazioni.
Se l'intelligenza promove la publica ricchezza, è d'uopo che la volontà la quale aspira
alla ricchezza favorisca lo sviluppo dell'intelligenza. I popoli civili possono
farlo, non solo presso sè medesimi,
e in coloro che contribuiscono ai medesimi lavori, ma benanche
presso gli uomini di lontani paesi, che secoloro
commerciano, ovvero producono o raccolgono cose che per qualunque indiretta via
possono pervenire a loro. Ogni uomo ha interesse alla cultura di tutto il
genere umano.
Perlochè tutti coloro che attendono a
qualsiasi ramo di progresso anche puramente scientifico, concorrono alla
cultura universale, all'universale aumento delle ricchezze. E
quanti, per ignobili loro interessi o pregiudizj,
interpongono ritardi alla pronta divulgazione della cultura, sia nella propria
nazione, sia nelle altre, fanno impedimento allo sviluppo di quella ricchezza a
cui per la via dei cambi e del commercio partecipa tutto il genere umano.
Tutti i governi che
aspirano ad imporre l'autorità loro ad altre nazioni, cadono in fatali
interessi che li traggono ad assopire le intelligenze per poter più facilmente
dominare le volontà. Perlochè ogni stato che tenta
acquistare siffatte ingiuste influenze, o che con trattati le riconosce e le
avvalora in altri stati, eleva un ostacolo alla libera intelligenza ed alla
produzione. E chi promuove la libertà della propria nazione e di qualunque
altra parte del genere umano, fa opera indirettamente vantaggiosa a sè stesso e a'
suoi. Giovano anche alla propria floridezza quegli stati che proteggono intorno
a loro l'istituzione di governi civili ed illuminati, e colle loro legazioni e coi loro amichevoli officj
propagano le mutue relazioni delle società studiose, le grandi esplorazioni
delle terre e dei mari, il reciproco commercio dei libri, i vantaggi delle
invenzioni, della proprietà letteraria e delle altre opere mentali; che aprono
ospitalmente le loro scôle alle nazioni straniere,
che mandano per converso la loro gioventù ad acquistare negli istituti esteri
quei lumi che ad un dato tempo non hanno mai, per tutta la sfera scientifica,
lo stesso grado di splendore presso tutte le nazioni.
Raccogliendo, diremo che ogni nuovo trattato
d'economia publica, dovrebbe formalmente classificare
tra quelle fonti della ricchezza delle nazioni l'intelligenza e la volontà;
l'intelligenza, che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che
guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso: la volontà, che determina
l'azione e affronta gli ostacoli.
Se i legislatori non
possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i beni che la natura
ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non
possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro,
se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale,
certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e
della libera volontà.
Aggiunga ogni scrittore a
queste nostre una nuova pagina, s'inoltri d'un passo
nell'analisi da noi tentata; e una meno imperfetta sintesi della publica economia potrà risponder meglio al voto delle
nazioni.
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