PSICOLOGIA
DELLE MENTI ASSOCIATE
La Psicologia è
lo studio delle facultà del pensiero.
La più adulta e
perfetta forma del nostro pensiero è la contemplazione scientifica, - la
contemplazione dell'ordine universale, - dell'ordine nella natura e
nell'umanità.
Or bene, molti
sono gli uomini, molte anzi sono le nazioni, le cui menti non toccarono mai queste
sublimi altezze. Mentre il nome d'alcuni popoli si trova scritto con note
gloriose sul vestibolo d'ogni scienza, innumerevoli nazioni si sono estinte
senza lasciar di loro al mondo una sola idea. Oggi ancora le selve
dell'America, le lande dell'Africa, e dell'Australia, ampie regioni dell'Asia,
alcune estremità dell'Europa, sono seminate di genti dal cui sterile intelletto
il corso dei secoli non vide mai spuntare germoglio di scienza.
Mancò forse ad
essi alcuna necessaria facultà? La loro impotenza scientifica è forse una
condanna fatalmente inflitta dalla natura? - La nature de l'esprit
humain est la même chez tous les hommes, rispondono le scôle francesi.
Quando la psicologia annovera e descrive le facultà dell'animo, le considera tutte
come un retaggio commune degli uomini, come un segno caratteristico del genere.
Come dunque si
spiega codesto splendido privilegio del pensiero scientifico? S'è un
produtto spontaneo e immediato delle facultà umane, perché non si offre
egualmente in tutti i popoli? Quali sono le condizioni necessarie affinché le
facultà che si affermano eguali in tutto il genere umano, si esaltino fino a
questo àpice della loro potenza? Come nascono in seno ai popoli le scienze? V'è
una Psicologia delle scienze?
Tale è l'argumento ch'io propongo non
tanto a me medesimo quanto a chiunque ha fede che questi oscuri studii possano
aspirare con tutti li altri e come li altri ad un graduale progresso, per
potere esser poi ministri di pratico progresso ai popoli.
Signori, le
ricerche della Psicologia non sono vano pascolo di menti oziose. Il principio
psicologico della sostituzione reciproca dei sensi ha insegnato ai
nostri padri un'arte ignota al mondo antico, ha insegnato l'educazione
ragionata dei ciechi nati e dei sordi muti. Or v'è nelle nazioni un ordine,
cento e cento volte più numeroso, di ciechi nati ai quali la luce del vero non
è luce, - un ordine, cento e cento volte più numeroso, di sordi muti ai quali
la voce del vero percuote indarno li orecchi. Ma mentre in altri tempi le
scienze furono giurate al silenzio, celate misticamente al vulgo profano, ora
lo spirito del secolo vuole che diventino libero patrimonio di tutti i popoli.
I propagatori delle scienze devono dunque investigare per quali modi il massimo
numero delle menti possa venire eccitato e sussidiato a intraprendere tutto
quell'ulteriore lavoro mentale che supera i limiti dell'infimo senso commune.
Mi pare
evidente anzi tutto che gli elementi della questione sono a ricercarsi nella
natura umana e non nelle esteriori e materiali condizioni dei popoli.
Nel secolo
scorso, per autorità principalmente di Montesquieu e di Herder, si attribuì
somma influenza ai climi nella genesi della civiltà e perciò anche della
dottrina. Ma l'istoria delle scienze fa troppo contraria testimonianza. Se
l'India ci diede le cifre decimali, se li Arabi ci diedero il concetto o almeno
il nome dell'algebra, e della chimica; il logaritmo fu ideato nell'estrema
Scozia; Newton, l'interprete delle leggi delli astri, visse nel più nebuloso
dei climi; e Linneo, che unificò nell'idea del fiore tutto il regno vegetale,
visse tra le nevi della Svezia. A parte dunque i climi!
Più accetta, ancora
ai nostri giorni, è la dottrina che reputa il genio scientifico un distintivo
di certe stirpi. È chiaro che, ciò pensando, ogni popolo tende ad adular sé
stesso. È una forma della boria delle nazioni (Vico).
Questa naturale
e antica ipotesi dei popoli eletti acquistò nuova forza dalle due
novelle scienze che sursero dall'applicazione della botanica e della zoologia
alla geografia. Come ad ogni regione del globo fu data una propria flora e una
propria fauna, come certe specie, indigene ad una terra, rappresentano altre
specie dello stesso genere, negate a quella regione e concesse ad un'altra,
così pure, a complemento di tali varietà della creazione, una più ardita
ipotesi assegna in origine ad ogni terra una diversa specie del genere umano.
Certe varietà, o certe miscele di più varietà, sarebbero riescite più valide di
corpo o d'intendimento e atte ad espandersi più poderose sulla terra,
distruggendo o confondendo seco o in ambo i modi obliterando le altre stirpi
primeve. E così si sarebbero costituite quelle stirpi che sole si potrebbero
designare col nome di specie pensante: Homo sapiens.
Signori, non è del mio argomento
d'accettar questa ipotesi o d'impugnarla. Io non ho dunque a dire come si
dovessero in tal caso evitare quelle odiose illazioni che parrebbero dover
quindi scaturire a danno delle stirpi più deboli, e a conforto di coscienza ad
ogni sorta di conquistatori e d'oppressori. È noto quali conseguenze traessero
i fautori della schiavitù dei Negri dalla scoperta d'una costante differenza
nell'angolo faciale tra i Negri e i Bianchi, onde aver argumento che
quella stirpe fosse inetta ad ogni alto pensiero e predestinata a vegetare in
perpetua puerizia e in tutela necessaria de' suoi nemici. Voi vedete, Signori,
che se l'ipotesi fosse dimostrata, l'iniquità delle conseguenze non ci
esimerebbe dal dovere d'accettare una dura verità.
Vorrei
piuttosto prescindere da questa ipotesi nel nostro argomento. Piuttosto direi
che se con essa si verrebbe assai facilmente a sciogliere il quesito della
primitiva disparità d'intelligenza fra i popoli, ancora non si spiegherebbe
come una progenie gentile e sagace, una progenie per molti secoli gloriosa
nelle scienze, possa ad un tratto ricadere nella più profonda impotenza
mentale. Non si spiegherebbe come la stirpe greca, già feconda d'ogni frutto
scientifico, ombreggiasse poi per mille anni, infecondo plàtano, la terra di
Costantino. Non fu la spada dei Turchi che troncò nel secolo XV in Grecia la
vita della scienza; essa era già da mille anni inaridita. Non furono neppure,
come alcuno pensò, le controversie teologiche che preoccupando le menti le
avessero chiuse ad ogni altro pensiero. Perocché voi sapete che tra le dispute
pur teologiche della Sorbona s'agitava negli stessi secoli la nuova vita del
pensiero in Occidente. Infine noi vediamo oggidì nell'Asia cinquecento millioni
d'uomini, metà del genere umano, appartenente a nazioni ingegnose ed educate in
una tradizione scientifica assai più antica della nostra, giacer quasi
mentalmente petrificati, simili ai depositi fossili che fanno testimonio d'una
vita che non è più.
Pur troppo in
forza di cause che stanno certamente nel dominio della psicologia, un popolo,
il cui pensiero rifulse sul mondo per una serie di generazioni, perviene ad una
generazione che cessa di pensare, che depone quasi in sepolcro le facultà
ch'erano sì operose ne' suoi padri, che smarrisce perfino la coscienza di
possederle, ripudia come una colpa ogni novello pensamento, ogni novella opera
delle sue facultà. Fra le gare del progresso, Signori, la scienza non deve
obliar nemmeno la dolorosa teoria della decadenza e del regresso, il quale è
pure un fatto che si avvera e apporta talora non solo una lunga degradazione
dei popoli ma la loro estinzione. Ma forseché tutta una posterità nasce priva
di quella dote d'ingegno che distinse i suoi padri? E se ha le medesime
attitudini naturali e non se ne vale, qual è il principio che le venne
subitamente mancando? Qual è codesto principio che infonde lo spirito della
vita nell'intelletto delle nazioni, e poi di repente può abbandonarle ad un
sopore di morte?
E viceversa
l'ipotesi della disparità delle stirpi non può spiegare come le genìe sì
lungamente barbare degli Scandinavi, dei Germani, degli Slavi, dei Magiari,
quasi d'improviso, mentre l'Europa meridionale imbarbarita anch'essa non poteva
communicar loro un impulso scientifico ch'essa medesima più non aveva, poterono
determinarsi alla vita nuova del pensiero, e per l'intermedio di lingue
straniere e morte, iniziarsi nelle scienze tanto spregiate dai loro padri. A
risolvere il problema dell'improviso trapasso dei primitivi selvaggi
dall'errare ferino alla vita agricola, Vico ricorse alla imaginaria ipotesi del
primo fulmine e dell'improviso culto di Giove Tonante. Ma forseché quelle tante
tribù che rimasero tuttavia selvagge e che vivono nude e canibali ancora
oggidì, non hanno udito mai lo scoppio del tuono? Vico aveva ben avvisato,
primo fra tutti, che il mondo delle nazioni si doveva spiegare colle leggi
dell'intelletto; ma sul bel principio sottoponeva poi le leggi dell'intelletto
al caso delle meteore, e lasciava intentato all'analisi il problema iniziale.
A me parve
sempre che l'inefficacia dei nostri studii si debba al metodo prediletto ai
fondatori della Psicologia. Essi per conoscere le umane facultà presero a
scrutarle nel senso intimo, nella coscienza, nell'io. Ma parve a me che per
apprezzar l'artefice convenisse studiar le opere, che per conoscere le facultà,
ossia le attitudini a fare convenisse studiare i fatti ch'esse
compiono veramente; che pertanto convenisse perlustrare tutto il circuito delle
scienze fino al punto più eccentrico delle loro scoperte, e vedere di quali
facultà si potesse discernere in esse lo speciale intervento. Tracciata la
circonferenza, resta determinato il centro; ma non viceversa. Nel centro
psicologico tutto si unifica e si confonde in una vaga e indeterminata
capacità, mentre sull'ampio giro della circonferenza scientifica si possono
segnalare distintamente tutti i fatti dell'intelletto e per essi
irrefragabilmente le sue facultà, essendo evidente che chi ha fatto poté
fare.
Vi sono entro di noi certe forze alle
quali noi non abbiamo assegnato parte veruna nell'origine delle nostre idee, e
le quali anzi si considerano come estranie all'intelletto; e tuttavia, se
scrutiamo i fatti, troviamo essere state coefficienti potentissimi d'ogni
nostro lavoro scientifico.
Considerate l'istinto.
L'istinto è la facultà di compiere certi atti senza previa cognizione.
L'istinto è l'azione senza l'idea. È una facultà che per ciò appunto può dirsi
estrania all'intelletto. Eppure molti degli istinti nostri non possono dirsi
superflui ed indifferenti alla complessiva elaborazione del nostro sapere.
Colui che trovò
il primo teorema della geometria, avrebbe potuto inventare anche il secondo e
il terzo, avrebbe potuto compiere tutta la scienza. Ma la vita dell'uomo ha un limite;
il breve suo lavoro vien troncato dalla morte. Bisognò dunque che ad un
geometra succedesse un altro e un altro, raccogliendo ciascuno l'eredità del
suo predecessore, sicché alla fine tutta la catena delle verità ch'erano a
dimostrarsi rimanesse compiuta. Fu dunque necessario che la scienza divenisse
una tradizione in seno ad una stabile società.
Talete vide nell'acqua l'elemento per
eccellenza. Noi vediamo nell'aqua una combinazione; noi ne siamo certi, perché
possiamo disfarla e rifarla: il vero è il fatto, dice Vico. Avrebbe
potuto Talete ne' tempi suoi pervenire a tanto? Da Talete a Lavoisier corsero
ventiquattro secoli, seco portando tutto il lavoro della scienza degli antichi
Greci, delli Arabi e dei moderni. La scoperta dei componenti dell'aqua era un
ultimo gradino in una lunga scala di pensieri, a edificar la quale avevano
collaborato molte generazioni. Essa non era l'opera delle facultà solitarie d'un
uomo, bensì quella delle facultà associate di più individui e di più nazioni.
È dunque una necessità della
costruzione scientifica ch'essa surga nel seno d'una società, anzi di molte
società, dimodoché al mancar dell'una per qualche avversità l'opera possa
venir continuata da un'altra.
All'elaborazione
della scienza non basterebbero dunque tutte le facultà dell'intelletto, se
l'uomo non fosse già per istinto di natura un essere socievole, s'egli
avesse, non l'istinto del castoro, ma quello dell'aragno il quale abita
solitario nel centro della sua tela. Ecco dunque l'istinto entrare nell'opera
scientifica come un necessario coefficiente.
E v'entrano
altri istinti. V'entra quel bisogno di communicare altrui i proprii sentimenti
e pensieri, che vediamo nella più inculta feminetta. Quindi lo spontaneo sforzo
d'imparar la parola e di formarla; lavoro che noi andiamo proseguendo
coll'imporre un nuovo vocabolo ad ogni nuova scoperta, all'ossigene, al
silicio, alla locomotiva. E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le
voci scientifiche più astratte sono traslati o derivati d'umili vocaboli
d'ordine concreto e sensuale. E se spingiamo l'analisi più avanti e riduciamo i
derivati alle radici, troviamo residuare al fondo d'ogni più dotta lingua un
capo morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo. E qui ci si
affaccia un altro degli istinti umani, quello dell'imitazione; che se si
eccettua qualche specie d'augelli e di scimie, è uno dei più caratteristici
della specie umana; ed è di supremo momento non solo alla formazione della
parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo, combinato ad
altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e della tradizione
scientifica, onde proviene l'associazione delli avi ai posteri, dei maestri
agli allievi, e la perpetua successione nell'immortale opera del sapere.
E vi sono altri istinti che possono
svolgersi solamente in seno alla società. E son quelli che la scôla scozzese
chiama istinti morali e che altre scôle preferiscono di chiamar
piuttosto col nome di sentimenti. Tale è la credulità, l'adesione
all'amicizia e all'autorità, l'amor della lode, il terror dell'infamia.
Signori, io non
vi leggo un trattato; io vi propongo l'idea d'uno studio. La psicologia delle
scienze come quella delle lingue, come quella delle leggi e delle religioni e
delle istituzioni tutte è un ramo d'una psicologia delle menti associate, ch'io
vorrei non contraporre, ma bensì sovraporre alla psicologia della mente
individuale e solitaria. Tutti i pensatori sentirono che dall'intelletto
dell'individuo non si poteva salire alle alte astrazioni e alle sublimi verità.
Epperò furono astretti a supplire con ipotesi più o meno infelici, come l'anamnesi
di Platone, che considerava l'idea come una fioca reminiscenza d'una vita
anteriore; - come le idee innate, - come la visione di Malebranche, - come le
categorie del pensiero anteriori ad ogni pensiero, - come l'idea dell'essere
anteriore ad ogni idea. E con tutto ciò non davano ragione della differenza che
stava tra Polifemo e Archimede. Perocché la reminiscenza platonica, e le idee
innate, e la visione divina e le categorie e l'idea dell'essere, com'erano in
Archimede, scienziato, così erano anche in Polifemo, idiota e canibale.
Signori, il
lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola; il genio si
tien per mano alla catena de' suoi precursori. Perché si destino le idee,
devono attuarsi i più generosi istinti, devono infervorarsi gli animi. La
corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più
intelletti.
Io devo
scorrere a volo su queste idee. Lascio l'istinto; e tocco per un istante la
sensazione.
La sensazione
pare a primo aspetto il dominio nel quale è grande e forte la vita selvaggia.
Quante volte non si leggono meraviglie della vista acuta del selvaggio che
discerne nella sabbia le pedate della tribù nemica! Come paragonarle la fioca
vista nutante che si logorò alla lampada notturna e che Galileo spense nei cristalli
del telescopio? Signori, questa è un'illusione. Confrontiamo la somma intera
delle sensazioni che si schierano innanzi alla mente del selvaggio e alla mente
dello scienziato.
È vero che il
selvaggio vive assorto nei sensi; è vero che l'esercizio assiduo e la dura
necessità glieli rendono vigili e acuti. Ma s'egli avesse pure la vista
dell'aquila e l'odorato del cane, sempre è vero che le sue sensazioni non hanno
varietà. Sono le sensazioni che si possono raccogliere entro quell'orizzonte di
selve in cui si chiudono le sue consuetudini, i suoi timori. Poche specie di
piante, la più parte neglette e inosservate a lui perché inutili a' pochi suoi
bisogni; pochi animali; una riva di fiume, o di lago; gli antri e i tugurii che
ricettano la nuda tribù; le vestigia dei nemici o il loro terribil grido.
Quando noi pensiamo alle selve primeve, la nostra imaginazione può affollar
quasi in un punto tutte le più varie e molteplici apparenze. Ma non è così.
Ogni terra ha un aspetto suo; climi piovosi o aridi; le vaste arene
dell'Australia o le vaste paludi dell'Orenoco; òasi sparse di palmizii; o alpi
uniformemente annegrite dagli abeti; praterie su cui regna tale o tal famiglia
d'erbe, con aspetto nuovo e grato a chi arriva, uniforme e tedioso a chi
rimane. Nella nostra patria, più di cinquecento specie vegetanti, un quinto
incirca delle piante fiorifere, appartengono alle due sole famiglie delle
graminee e delle composite, le più delle quali si possono appena fra loro con
attentissimo studio discernere.
Ma il regno
della sensazione scientifica abbraccia tutte le terre e tutti i mari; i vulcani
e i ghiacciai, le pianure e i monti, gli arcipelaghi dispersi nell'Oceano e il
deserto senz'aque. Li animali delle varie zone e dei singoli continenti, il
camelo e il renne, l'elefante e il cangaroo passano a rassegna inanzi a lui,
vivono nelle sue stalle o nei suoi serragli; stanno ordinati ne' suoi musei,
disegnati e coloriti sulle pareti delle sue case. Qual Samoiedo vide mai le
piante o li animali o li uomini della Nigrizia? Il selvaggio può veder solo le
cose della sua patria; la sensazione scientifica abbraccia tutta la terra.
L'uomo civile non solamente riceve le sensazioni; ma le fa. Egli si àncora
inanzi alle isole dell'Oceano e assorda i selvaggi col tuono e col lampo delle
sue armi. La luce delle sue notti festive eclissa il chiarore delle stelle. I
colori di tutti i metalli, il fulgore di tutte le gemme; i fiori e i frutti
raccolti d'ogni parte e modificati dall'arte in varietà infinite che la natura
non conosce; le innumerevoli combinazioni dei suoni e dei tempi, tutta la
creazione della musica di cui nel seno della natura troviamo appena la prima
intonazione, sono tutti nuovi fenomeni che la facultà motoria attuata da altre
più sublimi facultà fornisce alla facultà sensitiva. Anche le sensazioni più
connesse all'appetito animale, si vanno variando e moltiplicando colla civiltà.
Noi non badiamo, ma pure sono oggetti ignoti alla vita selvaggia il vino, il
pane, e tutte le mille combinazioni dei sapori e di profumi.
V'è un mondo
invisibile all'occhio nudo, rivelato alla scienza dal telescopio e dal
microscopio. Noi possiamo discernere i monti della luna, le fasi di Venere, le
agitazioni della superficie solare, i punti lucenti della via lattea e delle
nebulose. Noi discerniamo li infinitamente piccoli che vissero in un grano di
tripolo, che vivono in una goccia d'aqua, che nuotano nelli umori della nostra
pupilla. Tutta la chimica è una rivelazione di fenomeni naturalmente
inaccessibili ai sensi. Qual selvaggio potrebbe veder sollevarsi dalle feccie
d'una fonte salmastra i vapori verdastri del cloro o i vapori violacei
dell'iodio? È questo un ordine nuovo di sensazioni che la scienza crea a sé
stessa.
E li apparati
elettrici sono come nuovi sensi; poiché con essi possiamo apprender fenomeni
che sfuggono a quei sensi che abbiamo da natura; possiamo entrare in commercio
con poteri della cui presenza nell'universo il selvaggio non ha percezione. È
lecito imaginare che come da natura ebbimo un senso che avverte le vibrazioni
luminose e un senso che avverte le ondulazioni sonore, così avremmo potuto
nascer muniti d'altro organo che indicasse come fa la bussola le oscillazioni
magnetiche. Forse è qualche interno sensorio di tal fatta che dirige certe
specie di rosicanti nelle loro migrazioni dal levante al ponente della Siberia.
Ebbene chi ci diede a scorta l'ago calamitato tra le nebbie dei mari, tra il
polverio del deserto, tra i labirinti delle miniere, chi tese un telegrafo
elettrico dall'uno all'altro declivio d'una montagna, dall'uno all'altro lido
d'un mare ci fornì dunque un equivalente ad un nuovo senso, utile e reale
quanto i sensi della vista e dell'udito. Nulla poi rileva all'effetto se sia un
organo corporalmente inserto nel nostro encefalo, o se i nuovi fenomeni
rappresentandosi nello spazio colle vibrazioni d'un ago o d'un manubrio si traducano
nel senso della vista. Per esso la mente nostra venne iniziata a un ordine
d'idee che la vista per sé non poteva donarci, e che più delli altri s'interna
negli arcani dell'universo.
Le poche
sensazioni del selvaggio sono sterili all'intelligenza, perché vaghe, incerte,
incommensurabili. Il selvaggio non può paragonare il calor di due estati, il
gelo di due inverni. Noi sì, col mezzo degli strumenti, precisiamo quanto varia
il freddo da neve a neve, quanto varia l'ardore da fornace a fornace. Noi
sappiamo a quale calore precisamente si liquefà il piombo, a quale il ferro,
quante calorie devonsi accumulare in una stagione per addurre a maturanza un
grappolo d'uva. L'apparato di Melloni accusa l'aggiunta infinitesima di calore
che ci apporta una persona che si affaccia all'opposta estremità d'una camera.
Fin qui vediamo moltiplicarsi sotto la mano della scienza i fenomeni della
sensazione; ma tuttavia ciascuno di essi rimane oggetto d'una percezione
individuale. Or bene, vi sono fenomeni che un individuo solo non potrebbe mai
percepire nella loro pienezza, nemmeno col ministerio degli strumenti, se non
vi si associano i sensi di molti. Li uomini che videro il ritorno della cometa
di Halley non sono più quelli che ne osservarono, settantacinque anni prima,
l'altro arrivo. Per determinare lo spazio su cui vibra un terremoto, bisogna
che più uomini si avvertano fra loro d'averne percepito la scossa ai limiti
estremi. Li osservatori che sparsi in diverse stazioni esplorano la tensione
magnetica del globo sono come le parti d'un commune sensorio delle
nazioni pensanti.
Signori, lo
splendido imperio della sensazione non è nei sensi dei selvaggi; esso è nella
scienza esperimentale, cinta di tutti i suoi mirabili strumenti, accampata
sulle mobili cupole degli osservatorii. E il poter della scienza si svolge nel
giro di tutte le facultà e tocca il sommo nello sviluppo delle facultà
riflessive.
A questo
chiamerò l'attenzione vostra in altra lettura.
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