Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Carlo Cattaneo Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
VI Il Comitato di Guerra
L'esercito di Radetzki non aveva più forza di domare la città. Rimaneva a noi di dargli lo sfratto. A tal uopo bastava intercidere la sua linea sui bastioni; poichè i corpi ch'egli aveva accampati ad ogni porta, sarebbero rimasi subitamente privi d'indirizzo e di vittovaglie. Ma nel Comitato di Guerra i pratici inculcavano di non far punte, e di allargarsi equabilmente in tutto il giro delle mura; sicchè seguendo quella norma, avremmo dovuto giungere al bastione nella parte di levante, ossia di Porta Tosa, che è la più vicina al cuore della città. Ma è quartiere di poco popolo; onde mi pareva che ad occuparlo legassimo molta parte delle nostre forze, senza potervi trovare di che ingrossarle. Non opponendomi a codesto disegno, anzi prestandomi quanto per me si poteva ad effettuarlo, pensava nondimeno che convenisse liberare immantinente un rione anche più lontano, solchè potesse fornire gente e armi. La quale mi pareva una regola ben chiara di quella nuova dottrina militare delle barricate, che Dio destina a svergognare e conquidere li eserciti stanziali, solo ostacolo ormai alla libertà delle genti. Avrei dunque anteposto di far impeto verso Porta Ticinese, quantunque doppiamente lontana. Chiamata non a torto cittadella, ha quasi un popolo suo proprio; e protende anche fuori le mura due sobborghi, tra mezzodì e ponente, in riva ai due navigli; sicchè avrebbe intercetto a molto maggior distanza le comunicazioni del nemico, e preclusagli una via di ritirata. Mi volsi per tanto a quella parte; ove per giungere si varcava la Fossa interna della città, sovra una barca attraversata, presso al ponte dei Fabri. Al di là l'aspetto dei quartieri dominati dal nemico faceva strano senso. L'occhio attonito vi cercava indarno le vie frementi di baldanzoso popolo come nell'interna città; li spazii erano affatto deserti; le porte e le finestre gelosamente serrate; il rintuono di due batterie vicine e il grandinare dei fucili si udivano soli in quella morta solitudine; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il meriggio, e pareva sera. Le case communicavano fra loro secretamente per aperture praticate nelle camere, nelle cantine, nelli orti; e nel percorrerle si smarriva ogni riconoscimento dei luoghi. Ad un tratto, si rinvenivano congregate in certi loro ricoveri molte donne con infiniti fanciulli, a farsi animo tra loro e aiutarsi. Le più povere, non essendo state in tempo a ricevere al sabbato i pochi denari della settimana, non sapevano più come fare; poichè era già il mercoledì. I nemici in quel vicinato avevano arso donne e infanti; e per fare spavento e strazio, bersagliavano dal bastione le case; quelle genti parlavano di loro come d'indemoniati. Mi dimandavano s'era vero che colle bombe avessero già disfatto il Duomo. Più inanzi, famiglie d'amici miei erano talmente serragliate per salvarsi dalle palle le quali trapassavano finestre e usci, che in mezzo al vicino rimbombo ci fu forza vociferare più d'un quarto d'ora per farle affacciare alle finestre ad assicurarsi ch'eravamo amici. Ma non appena ebbimo fatto intendere che dovevamo solo spingere attraverso alla via carri e carrozze; e quasi per incanto balzarono fuori d'ogni parte giovani armati; e ancor prima di chiudere bene quei ripari, bersagliavano audacemente i nemici accosciati sull'orlo del bastione. Il coraggio è attaccaticcio come la paura. Intanto file di donne, traendo a mano i figliuoli, e recandosi sotto il braccio il fardello delle cose più care, uscivano dalle case ov'erano assediate, era già il quinto giorno; e chine dietro le barricate e per i fori delle muraglie, si avviavano in salvo, rendendoci affettuose grazie che fossimo venuti a levarle di mano a quei mostri. Traforando un altro muro e strappando un'inferriata, giunsimo dopo mezzodì entro l'ampio recinto della dogana di Viarenna, che tocca il bastione, e lo domina in luogo ove non è più largo di cinque a sei metri. Il Naviglio che esce dalla città, passa quivi per disotto al bastione; ma i gabellieri erano fuggiti colle chiavi del cancello; e si fece vana prova di forzarlo. I giovani impazienti cominciarono, contro le mie istanze, a tempestare dalle finestre della dogana il bastione, abbattendo anche alcuni ussari che portavano ordini; il nemico s'accorse che si stava per aprir quivi la città; i Reisinger per una viuzza laterale accerchiarono la dogana. Furono respinti; nel ritorno in città trovammo due dei loro cadaveri attraversati alla via. Ma il cancello non si potè più aprire; e il pittore Borgo Carati che più tardi vi si cimentò, ebbe a ritornare col suo cappello calabrese forato da due palle, senza potervi peranco riescire. Qualche ora dopo, il bastione veniva occupato, alquanto più a tramontana, dalla compagnia del cittadino Colombo. Intanto dalla parte opposta della città, quelli ch'erano con Luciano Manara, facendosi avanti con barricate mobili, fatte di grosse fascine rotolanti, espugnavano la Porta Tosa, difesa da forse duemila uomini e sei cannoni. E a sera, li insurti della campagna aprivano di forza Porta Comasina. L'intento mio nel porgere questi particolari, non è di fare una descrizione del combattimento, al che mi mancano troppi fatti; ma di additare quelle circostanze che dimostrano come Radetzki non potesse assolutamente sostenersi più a lungo in città. Le masse colle quali occupava isolatamente le porte, venivano in quella sera ad essere fra loro separate; e sarebbero poi state ad una ad una accerchiate dal di dentro e dal di fuori, e oppresse dal numero. La ritirata era inevitabile, urgente. È un fatto capitale; e vuolsi mettere bene in chiaro. Poichè si è poi asserito molto vanamente, che se Radetzki uscì disordinatamente di Milano alla sera del 22, fu per sottrarsi all'esercito piemontese; il quale veramente non comparve sotto le nostre mura se non dopo il mezzodì del 26. La risoluzione di romper guerra all'Austria fu presa a Torino la sera del 23, per effetto del tumulto che produsse nel popolo la nuova della nostra liberazione. Quel manifesto di guerra fu il primo frutto della nostra vittoria; e non viceversa. La cronologia è l'occhio dell'istoria.
Radetzki, per celare la sua ritirata, giovossi della prima oscurità; faceva battere tutti i suoi tamburi e tuonare tutti i cannoni, quasi intraprendesse un disperato assalto; aveva messo il foco a varie case. Mentre io mi sforzava riconoscere da luogo alto la posizione delli edificii che si vedevano ardere a levante e settentrione, ad un tratto divampò verso ponente, dietro i torrioni del Castello, una colonna altissima di fiamme, come se il nemico fosse a distruggere quel ricovero che non poteva difendere. Ma era solo una vasta congerie di paglia, di carri e di masserizie ch'egli abbruciava nel gran cortile d'armi, per consumare, a quanto sembra, i cadaveri de' suoi, giusta il suo costume di occultare quelle tristi prove della sconfitta. - Dicesi ardesse, morti o vivi, anche alcuni prigionieri e ostaggi, dei quali nulla più si seppe, e nessuna reliquia rimase! Mentre il bagliore delli incendii e la furia delle artiglierie teneva intento il popolo, le colonne nemiche, richiamate da ogni parte e ammassate dietro il Castello, sfilavano dense e furtive sui viali del bastione. Ma molti dei cittadini, fatti accorti della mente del nemico, accorrevano a tribolarlo, prodigando oramai essi pure il foco; dacchè nella sola caserma dell'Incoronata avevano rinvenuto ventiquattro migliaia di polvere. Al di fuori, i montanari si aggrappavano sugli arbori e sui tetti delle case per trarre di piano sul bastione. Di tempo in tempo, e quando quella molestia era troppo grave, i battaglioni nemici sostavano, rispondendo con poderose scariche. Li assidui colpi cingevano la città d'un semicerchio scintillante; col mutare del vento udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il battere a stormo dei sessanta campanili ormai tutti liberi. Il nemico s'inoltrava lento e stanco fra mille ostacoli; in qualche luogo trovò il bastione già ingombro di piante atterrate; spese tutta la notte a trarsi fuori della città. Doveva condurre seco le artiglierie, le bagaglie, i feriti, più di trecento famiglie d'officiali e d'impiegati stranieri, i decrepiti generali, li sventurati che il capriccio militare aveva fatti ostaggi, e qualche migliaio di soldati italiani. Molti di costoro erano stati saldi contro i colpi dei fratelli; ma non tutti sapevano rassegnarsi a seguire nella fuga lo straniero. Alle crociere delle vie, dove era facile sottrarsi, i generali paravano loro in faccia la bocca del cannone; alla menoma esitanza, si udivano li officiali gridar loro: o avanti o morti!
Alla fine il nemico fuggiva. Quei cinque giorni gli erano costati quattromila morti2. Di quattrocento cannonieri erano avanzati cinque; l'artiglieria era data a condurre ai cacciatori tirolesi. Ecco ov'era giunto in breve quel vecchio provocatore, che colle sue violenze aveva tratto un popolo mansueto a farsi disperatamente ribelle, minacciava per barbara iattanza di domarlo con le bombe e il saccheggio e li altri mezzi! Egli è ben certo che quella risoluzione di fuggire con un esercito avanti a una turba di quiriti, con tanto sacrificio della superbia militare e dell'odio inveterato, fu atto d'animo bassi, ma forte; fu tanto ignominioso, quanto prudente e necessario. Solo poche ore di dubbiezza; e le strade gli erano rotte intorno; e Verona e Mantova, ribelli come Milano e Venezia, li serravano le porte sul viso. La vasta Mantova era presidiata di tre battaglioni, in gran parte italiani.
Scampato da Milano sul far del giorno, e voltosi a Lodi, poichè la via più alta e asciutta per le terre di Bergamo e Brescia era già preclusa, l'esercito vinto si trovò nel mezzo del paese irriguo, lungo strade in ogni senso incrocicchiate e orlate di fossi. Non era arduo per noi rompere tutti i ponti, rovesciare nei rivi le strade, arrestare le aque e farle rigurgitare sui prati, atterrare le continue piantagioni che li orlano e li attraversano, avviluppare il nemico in una palude artificiale, ove il passo dei cannoni e dei carri fosse impossibile. Fra noi si suol dare a quella moltitudine di fossati il nome appunto di rete : e tale precisamente appare a chi la vede disegnata nelle carte. Ma l'esperienza non aveva rivelato ancora al popolo quanta efficace difesa egli vi avesse. Inoltre era mestieri a ciò ch'egli fosse venuto in governo d'altri uomini che non erano quei ciambellani malcontenti. Ed era mestieri che costoro avessero almeno un disegno meditato, e tempo, e uomini, e forze, e denari, e cose molte che non escono da terra all'improviso, e che forse, per ciò che si è detto, coloro non amavano avere. Infine da cinque giorni non avevamo riposo; molti, dal primo momento in poi non avevano riveduto le loro case; appena si potevano reggere in piedi. Per fermo ci eravamo ben messi all'opera con tutto l'animo. Era voto universale che s'incalzasse il nemico; ma volevasi qualche ora a lasciar respiro ai più affaticati, a far rassegna della gente buona di camminare, ad accozzare un armamento meno imperfetto che si potesse, a scegliere i capi, a farli conoscere tra loro, a fornir tutti di polveri, cibo e denaro, e sopratutto a stabilire precisamente ove andare, e che fare. Fra un nembo di notizie esagerate e guaste che piovevano d'ogni parte, mi parve unico consiglio fermare per un'ora in tutta la città il martellio delle campane, per raccapezzare almeno da qual parte tuonasse il cannone. - Si udì solo verso Marignano. - Era dunque chiaro, che li uomini di quella terra, o del Lodigiano, da sè e ad insaputa nostra, contendevano al nemico il passo del Lambro. Pertanto indirizzammo subito a quella volta i più volonterosi di Milano, e quei che giungevano da Como, da Lecco e dalla Svizzera. Ma siccome il nemico, nel suo passaggio, diceva dappertutto d'uscire di Milano solo per adunar viveri, e di volere fra due giorni o tre ripiombare sulla città, colle forze raccolte di tutti i presidii vicini, e colla gente che arrivava dal Veneto; e siccome noi nulla sapevamo ancora della sollevazione operata in Brescia, in Cremona, in Venezia : così fu forza raccomandare ai nostri combattenti sì mal provisti e male ordinati, di tenersi sempre fra il nemico e le nostre mura.
In quel mezzo la città s'era ripiena di gente venuta da tutte le terre intorno. Alcuni avevano armi; altri venivano a cercarne; altri a salutare li amici usciti del pericolo, o a non trovarli più; altri solo a satisfarsi nel vedere le vestigia della pugna. Le turbe dei contadini stavano immote come greggie a rimirare i cocchi e i mobili pomposi accavallati in mezzo alle vie, li spezzami delle tegole sul terreno sconvolto, le mura crivellate dalle palle, le logge di granito spaccate dal cannone, le reliquie tuttavia fumanti dell'incendio, i cadaveri stesi da riconoscere nelli ospitali, o malsepolti in Castello e abbandonati nelle fosse; e in mezzo a tanti orrori, mover serene quelle donne, che colle mani loro aveva divelto i selciati e caricate le armi, e quel popolo placido e faceto, che godeva a udirsi dire valoroso e vittorioso da quei duri uomini dei campi e delle montagne. Ma la turba oziosa per poco non mutava quel terribile momento in uno spasso da carnevale. La folla e la confusione ci crescevano impaccio nel dare alloggiamento ai volontarii e viveri e armi; laonde ci parve mestieri fare a buona distanza della città quasi un cordone, che diradasse quanto si poteva l'arrivo delli uomini disarmati. E invitammo il governo a ordinare alle communi di trattenerli alle case loro quanto si poteva. Lo invitammo anche a inviare in ogni distretto uomini capaci di volgere a frutto quell'ardore dei popoli. Ma di ciò non si fece nulla. Una compagnia di cittadini s'incaricò di vegliare notte e giorno il circuito delle mura, e andar fuori pattugliando sulle strade maestre; cento Bresciani s'incaricarono d'esplorare armati a maggior distanza; un'altra compagnia si avviò verso Melzo, per raccogliere certi Croati vagabondi, e certi cannoni affondati fra le risaie. Una compagnia d'ingegneri fu deputata a sopravedere le barricate in città; e un'altra a curare che nel premunire le strade al di fuori, non si facesse superfluo guasto delle piantagioni e costruzioni publiche e private.
Nello stesso primo giorno della nostra libertà, invitammo i cittadini a dare il nome, o nella guardia civica, o nelle colonne mobili che dovevano occupar subito le Alpi. Non si potevano volgere a più adatta impresa quei giovani, tanto generosi quanto inesperti dell'arte militare. Su quell'aspra frontiera, potevano ad un tempo combattere e studiare, costringendo intanto il nemico a far la guerra in paese sterile, e a tutta sua spesa; epperò con pochi soldati, e con nessun vantaggio de' suoi cavalli e delle artiglierie. E il nome stesso delle Alpi, e del confine d'Italia, e dell'italica fraternità, doveva accendere le menti. Ed è l'idea che vincerà tutte le altre, le quali dai cortigiani vennero poste inanzi; ma non sono di lunga mano eguali di grandezza e semplicità e verità. E i giovani, quanto più culti, accoglievano tanto più volonterosi quell'invito alla guerra delle Alpi. E anteponevano mettersi a spalla la carabina, all'andare colle insegne d'officiali recando fra le moltitudini armate il frutto dei loro studii. Pure, l'esperienza mi ha persuaso non doversi commendare l'istituzione dei battaglioni academici e delle legioni sacre, irrilevanti sempre per numero fra le masse inerti. Egli è come se in corpo vivente si separassero i nervi dai muscoli; l'intelligenza non ha dove incorporarsi; e la forza rimane senza lume e senz'impeto. Si raccoglievano cavalli per cominciare un reggimento; Carnevali metteva scola d'artiglieria; il toscano Montemerli di fanteria. Si riscattavano le armi disperse; si facevano rimovere li ostacoli posti dall'Austria al commercio delle armi; negozianti svizzeri, tedeschi e altri, sin da quando la città era assediata, avevano già incarico da noi di recarsi nei loro paesi a raccogliere quanto d'armi e d'altre cose da guerra si potesse. La fabricazione delle polveri ebbe vasto incremento.
I promotori delle dimostrazioni avevano accattato l'aura popolare, ma non avevano fatto ordinamento alcuno dei popoli; ci fu necessità adoperarvi tosto qualunque volonteroso giovine ci venisse fra quella agitazione alla mano. Li deputavamo a munire i paesi in pericolo, a levar uomini, a dar loro quelle armi, quei capi e quell'indirizzo che si poteva; e a trasmettere eziandío simile incarico ad altri nei territori circostanti, ove per noi medesimi non si conosceva persona da ciò. Tutte queste cose si facevano con precipitosa sollecitudine, e piuttosto per mettere in capo agli altri di fare, che per fiducia che avessimo di compiere noi quanto necessitava. Il mio protocollo, del solo giorno 23 di marzo, conta 172 numeri; e ancora molte ordinanze non si trovano registrate. L'esecuzione era pronta, e talora chiamava nel giorno medesimo altre ordinanze.
“Al Comitato di guerra.
23 marzo
"Secondo li ordini ricevuti, raccolsi la piccola truppa e m'avviai sulla strada postale di Lecco, lanciando piccoli distaccamenti verso il Bergamasco per osservare il nemico e molestarlo alle spalle. La mia truppa si è ingrossata col fare della strada; e m'avvio a Lecco, spargendo nella Brianza altri piccoli distaccamenti. Noi guardiamo lo stradale militare che mette allo Stelvio; faremo saltare quella galleria, e preparammo già minato il ponte di Lecco. Quella truppa che tanto si distinse all'assalto di Porta Comasina, si distingue ancora per la sofferenza e l'infaticabilità. A Monza alloggio alla Villa già Reale; e domattina parto. Il municipio di Monza non si distingue per il suo ordine, e per la sua cura. Tanto credo di loro annunciare di tutta fretta, aspettando a Lecco una loro risposta. F. Ticozzi
Nella medesima sera si provedeva.
Dal Comitato di Guerra, 23 marzo
"Si autorizza il sig. Giuseppe Scanzi a volersi recare istantaneamente in Monza, onde prendere gli opportuni concerti, per riordinare la difesa di quella città. Giulio Terzaghi
Perchè si veda come non si ristette per noi d'incalzare a forza di popolo il nemico cedente, ci sia lecito recare le istruzioni che ancora in quel primo giorno di nostra libertà dettammo di fuga ad Attilio Cernuschi uno dei sette che deputammo in diverse parti del Cremonese. "Il commissario a Cremona, è specialmente incaricato di estrarre della massa dei soldati che si sono sottomessi, alcune colonne mobili; le quali condotte da capi di buona volontà e abilità (proveduti questi di aiutanti con cavalli), si dirigano prudentemente sopra il nemico. - Il primo intento sarà quello di mantenere coi debiti riguardi le communicazioni tra Lodi, Cremona e Crema, spezzando il paese interposto, interrompendo le strade con fossi e barricate di terra e piante, massime dove siano chiuse fra due aque, e formandovi ridotti chiusi per ogni lato. - I corpi essendo privi d'artiglieria e cavalleria, marceranno accompagnati da certo numero di carri, destinati parimenti a formare improvisi ripari in qualunque situazione. Non bisogna dimenticare, che nello spazio tra Cremona e Brescia si trova la gran massa delle forze nemiche; in mezzo alle quali non bisogna avvilupparsi con masse irregolari, e senza ordinamento fra loro. Bisogna sopratutto approfittare delle molteplici linee d'acqua che interrompono il paese, difendendo e fortificando e punti di communicazione. Bisogna premunire Cremona, spiegando qual sia il modo tenuto dai Milanesi nel barricare le loro città; la cui efficacia fu provata dall'esito felice, e dalla continua impotenza del nemico. Bisogna eccitare i Cremonesi a costituire immediatamente un Comitato di Guerra, formato dai giovani più arditi e influenti, con qualche uomo d'antica esperienza; ed esortarli a nutrire con assidui proclami l'entusiasmo popolare. Il Comitato di Cremona dovrebbe inviare immediatamente un rappresentante pressi questo Comitato centrale. Deve provedersi di denaro, per mantenere le communicazioni, e mettere in attività gli uomini del popolo. Deve instituire tanto la guardia civica per la custodia della città, quanto le colonne mobili per le operazioni sopradescritte di campagna. Il comandante d'ogni colonna mobile si metterà in relazione col capo dello stato maggiore generale delle colonne mobili il sig. Giorgio Clerici. La grandezza delle gloriose nostre circostanze deve suggerire mille altri ovvii consigli e partiti. E sopratutto deve destare una nobile emulazione nella primaria classe delli abitanti i quali non devono rimanersi addietro di ciò che i loro parenti e amici fecero in Milano. Salute e vittoria. 23 marzo Carlo Cattaneo
Il Comitato di Cremona fu istituito; e molte cose operò; e ne diede ragguaglio; ma non ho la sua lettera; trovo però la mia risposta; "Vi si rendono grazie della cara vostra di ieri. Ciò che avete operato merita lode; ma non perdete tempo. Il nemico è in ritirata; e non potendo più valersi della postale di Mantova, nè di quella di Brescia, va stentatamente ravvolgendosi per tortuose vie verso la pianura bresciana, sia per riescire nel campo di Montechiaro, sia per raggiungere i forti di Mantova, questa città essendo già in potere delli abitanti. Raccogliete in colonne mobili i più animosi fra gli uomini che avete; avvicinatevi più che si può al nemico per tribolarlo nella sua lenta ritirata, ch'egli non può operare se non in ragione di sei o sette miglia al giorno; - fategli rompere le strade sulla fronte. - Mettetevi in relazione colli officiali, facendo loro offerta di buon trattamento, se si arrendono. - Nei movimenti appoggiatevi ai luoghi abitati, per non essere ad ogni evento sorpresi dalla cavalleria o dall'artiglieria. Fatevi accompagnar da carri ingombre di fascine e materassi, per farne barricate ambulanti. - Mettetevi in relazione colla colonna mobile bresciana; e colla milanese e svizzera del comandante Manara, che deve trovarsi verso Soncino, all'avanguardia delli ausiliarii piemontesi. Operate, operate, empite la vostra pagina, come noi abbiamo empito la nostra. Vogliate scriverci ogni giorno. Vi salutiamo caramente. 28 Marzo Carlo Cattaneo
Non si lasciava di dirigere e spingere i volontarii che giungevano d'ogni parte.
Ai bravi Genovesi accampati sulla strada di Pavia.
N. 135. Milano, 23 marzo.
Vi siamo riconoscenti del soccorso fraterno che ci recate. Avete caro sapere che la nostra città è salva e libera e affatto sgombra del nemico sino da ieri sera. Il nemico dirige le sue masse confuse e avvilite principalmente verso la strada di Lodi, Crema, Cremona e Mantova in gran parte già attraversate e guaste. I suoi movimenti divengono ogni istante più tardi e difficili. Valorosi amici ! Se volete avere la vostra parte alla vittoria, non perdete tempo, sollecitate i vostri passi sulle vestigia del nemico fuggente. Dio ci voglia felici, come ci volle liberi e gloriosi. Viva l'Italia
Carlo Cattaneo - Giorgio Clerici.
Altri furono invitati a sollevare a tergo del nemico il Mantovano; Luigi Torelli fu mandato il 24 in Valtellina, a sollecitare che si occupasse lo Stelvio, a far atto d'amicizia coi Tirolesi dell'alto Adige che hanno favella tedesca, a legarsi per passo d'Aprica colla Val Camonica, e quindi pel Tonale col Tirolo italico, ove nello stesso tempo deputavamo un cittadino di quel paese. A quei primi giorni in Trento, ove tutte le famiglie più potenti stavano per noi, vi erano in tutto duecento soldati. - Ci rivolgemmo perfino al comandante dei civici di Bologna, perchè varcasse il Po, e occupati i colli Euganei e i Berici, turbasse tosto al nemico le strade di Padova e di Vicenza.
Non perciò fidavamo solo in quell'impeto dei popoli e nella instabile volontà d'un principe. Il Comitato nostro doveva essere il trapasso a un ministerio di guerra, che ordinasse un esercito regolare. Certo era ad aspettatrsi che i ministri e generali del re alleato mostrassero tutta la proverbiale loro alterigia a chi non avesse fatto altra milizia che quella delle barricate. Chiamammo dunque presso al Comitato i veterani dell'esercito italico; molti de' quali erano già colonnelli e generali sul campo di battaglia prima del 1814, e quando i generali presenti di Carlo Alberto erano ancora tenenti o guardie d'onore. Il rispetto militare che al loro grado e all'esperienza si doveva, sarebbe stato un riparo anche alli altri cittadini. Ma con ciò mettevansi a capi della libertà armata uomini avvezzi dalla gioventù alla riverenza del comando assoluto, e irrugginiti inoltre da trent'anni d'ozio. Pensavamo ovviare, ponendo loro a lato giovani solerti, che in breve si appropriassero il frutto di quella perizia antica. Ma la calda gioventù non amava rinunciare alle lusinghe della bella guerra, per incarcerarsi nelle stanze d'un ministerio; e i veterani poi non volevano intendere qual parte d'opera la patria da loro si aspettasse. Volevano imporre al moto spontaneo d'un popolo le consuetudini d'un tempo d’obedienza, e le forme solenni d'un ordine stabilito. Volevano, a cagion d'esempio, costituire subitamente un ministerio completo in tutte le sue sezioni; al qual modo avremmo avuto in quei primi giorni più gente nel ministerio che non nell'esercito; poichè si stava ancora per fare il primo reggimento. Li feci pertanto accontentare d'una sola secreteria, colle tre sezioni che la necessità delle cose sempre vuole : il personale, il materiale, i conti. Ponendo in mano a quei veterani napoleonici la nomina dei nuovi officiali, volevamo sopratutto preservarci da quella cancrena funesta al Piemonte, d'accomodare i gradi dell'esercito ai gradi servili di corte. E v'era di peggio. Poichè al 26 marzo, il giorno medesimo dell'ingresso dei nostri alleati in Milano, il governo provisorio, senza udire il nostro avviso, si era avvinto a commettere l'istruzione del nostro esercito a officiali piemontesi fuori di servigio. E come tali gli si mandavano poi slealmente da Torino uomini già scacciati dall'esercito dal re; a cagion d'esempio, un Farcito De Vinea, il quale venne messo tenente- colonnello del primo reggimento, a fianco dell'onorato nostro colonnello Sessa; ed ebbe poscia a dimettersi, perchè l'Italia del popolo, publicò i documenti del suo disonore. Ed è chiaro che quando il Piemonte dopo trenta e più anni di pace chiamava in campo ogni sorta di soldati, li officiali valenti e volenti non potessero trovarsi fuori di servigio: ma di ciò si dirà diffusamente a miglior luogo. Non solo il governo provisorio lasciava per tal modo indegnamente avvelenare l'esercito nascente; ma propendeva a indugiarne la formazione. Lasciava lungamente oziosi, poi sbandava, forse tremila soldati italiani che si erano ribellati all'Austria in Cremona e Pizzighettone, e ben altri settemila ribellati altrove. Metteva impaccio di mille sottigliezze all'armamento. Nel primo giorno della nostra liberazione, i nostri commessi avevano comperato in Lugano quattrocento fucili, i soli che vi si trovassero in quel momento; e il governo tergiversava al pagamento, onde estorcere un'agevolezza di mezza lira per fucile; e intanto il cannone di Radetzki tuonava a Marignano; e quella terra era in fiamme. Noi avevamo naturalmente dato ai nostri l'uniforme verde ch'è il nazionale d'Italia; ma il governo provisorio voleva di queto metterci addosso la divisa dei soldati del re. Certo doleva a quei retrogradi che risurgesse colla tradizione dei gloriosi suoi colori l'esercito ch'essi nel 1814 avevano tradito all'Austria. E citavano frivole scuse, ora dicendo che il panno verde non si sarebbe trovato; ora dicendo che quello era il colore men di tutti durevole. - Vedrà bene un giorno quella gente servile il verde della bandiera d'Italia sventolare al sole della libertà, quando la croce bianca e la coccarda azzurra saranno ricordi d'un tempo che non ritorna. La nostra gioventù non volle vestire altro colore che il verde!
Il 25 marzo fu dato dal governo provisorio il comando del futuro esercito a Teodoro Lechi. Negò egli ai volontarii la licenza di combattere, citando la regola vecchia di non opporre in campo aperto gente irregolare a soldati regolari. E fosse pure; ma siccome non avevamo altra gente, egli era come dire che per allora non si combattesse più. E spinse l'osservanza della sua regola fino a lacerare li ordini, che avevamo spedito ai volontarii prima della sua nomina a comandante. Recatomi tosto a lui per dimandargli schiarimento del suo procedere, non appena ebbi agio ad aprir bocca ch'egli corse ad abbracciarmi; e li altri vecchi suoi colonnelli e commissarii mi soprafecero tutti di carezze. Non sapendo omai più come lagnarmi: "Volete dunque, dissi loro, che quei poveri volontarii che hanno fatto quattro marcie per avere lo sfogo di tirare una fucilata alla bandiera austriaca, tornino ai loro monti come sono venuti, perchè voi siete inesorabili in una regola che non val più. Non volete che si avventurino in campo aperto contro corpi regolari? Prima di tutto, è assai dubbio che un esercito il quale si ritira in disordine e senza cannonieri, possa dirsi in regola; è dubbio parimenti che sia da chiamare campo aperto un paese tutto intralciato di campi e di fossi, anzi di vere paludi, i mosi di Crema. E poi dove si può dunque inseguire il nemico, se non dov'egli è?" - I veterani terminarono coll'adattarsi al mio parere; e subito il generale spedì a Manara e Arcioni, ch'erano a Treviglio colle loro colonne impazienti e frementi, l'ordine d'andare inanzi. Al mattino del 28, entrarono in Crema, nel momento che la retroguardia di Radetzki usciva per la porta opposta. Furono primi a varcare il Serio, l'Ollio, il Clisio; in tre giorni erano giunti sopra Salò, e vi coglievano i nemici in atto d'ammanire una cena e d'estorcere una contribuzione. Saliti tosto sulle vaporiere del lago di Garda, che i bravi litorani avevano già prese, costeggiarono per Desenzano; e si spinsero fino a bersagliare i cannonieri nemici sulle batterìe di Peschiera. Nei primi d'aprile tragittarono il lago; si cacciarono tra Peschiera e Verona; e sotto il cannone nemico predavano cinquecento barili di polvere. Il lago di Garda è il nostro confine verso la Venezia e il Tirolo. Nella terra della patria, il campo a noi sortito era libero. Onore ai volontarii ! Essi tennero quella frontiera, pugnando non solo contro il nemico, ma contro li alpestri ghiacci e la più cruda penuria. La tenevano ancora ai primi d'agosto, quando il magnanimo re era già fuggito nel suo regno. All'efficace e immediata formazione d'un esercito si opponevano difficoltà morali che nessuna solerzia e costanza poteva superare. I servili avevano desiderio e lusinga che si potesse far senza un esercito veramente nostro. Pareva loro che bastasse consegnare il paese al re; a lui toccherebbe poi conservarselo a suo modo; sarebbe affar suo; volevano conquistar per procuratore vittoria e libertà. A fronte di sì stolte e codarde risoluzioni, non potevamo noi rimanere lungamente a capo d'un'amministrazione di mero apparato, senza soggiacere un giorno a vituperosa responsabilità. Vedevamo prepararsi non remoto un finale disastro; e l'avevamo annunciato nella sala medesima del governo provisorio fin dal 24; e con parole che allora parvero acerbe, e che in fine furono ripetute da molti. E ora più che mai. Già si vedeva che in poche settimane ogni cosa rimarrebbe assorta nel vertice dell'autorità regia. Si parlava già di affidare il nostro ministerio della guerra a un generale piemontese. D'allora in poi dipendeva da Carlo Alberto, e dalli ambigui suoi interessi di principe, l'aver noi un esercito, o non averlo. Il governo provisorio, impaziente di por fine a quelle cose di popolo, e di rimettere ogni cosa nella rotaia dell'obbedienza, ci aveva già due volte invitati a sottoporre alla sua firma ogni scritto che il Comitato di Guerra publicasse, e perfino le notizie che solevamo dare della guerra. Voleva bendare li occhi al popolo; e lo fece; e lo trasse seco al precipizio. Chi da quel giorno in poi disse una parola di vero, fu additato spia dell'Austria; la verità, era oro austriaco. Il governo che si spacciava eletto dal popolo fra le barricate, ripudiò, al terzo dì della sua vita, il sacro principio della publicità. Ed era, perchè in quell'istante medesimo gli giungeva avviso che Carlo Alberto nella sera precedente aveva deliberato passare il Ticino. Speravano li ingrati non aver più bisogno del popolo. L'ultimo di marzo, io e li altri tre membri del primitivo Consiglio di guerra dichiarammo con un manifesto al popolo d'aver compiuto quanto ci spettava. Avendo fin dal primo giorno invocato l'Italia e la Libertà, compiemmo invocando l'Unità d'Italia: - "Potesse Pio IX presiedere fra pochi giorni in ROMA, il CONGRESSO di tutti i popoli italiani!" Nel dì seguente, il governo provisorio, dichiarandoci benemeriti della patria, intraprese tosto a disfare ogni nostro avvisamento; decretò doversi ricomporre il Comitato di Guerra in regolare ministerio, riordinarsi tutti li officii, riservarsi a lui la scelta dei funzionarii. Profittò d'una malattia di Litta, per mettere ogni cosa in mano al Colegno, e poscia al Sobrero; ambedue piemontesi e fatti generali dal re. Fin d'allora l'esercito e il paese non furono più nostri; le sostanze nostre, la vita e l'onore furono in arbitrio altrui. Ritornando dopo quei dodici giorni di vita publica al consueto mio ritiro, non volli però lasciare interrotta una cosa ch'io mi era posto in mente per relazioni che aveva con alcuni studiosi Ungari. M'era persuaso che quella gente potesse cattivarsi con qualche effetto alla nostra causa; poichè Austriaci e Croati erano tanto i nemici suoi quanto i nostri. E siccome alcuni tra i prigionieri e i feriti erano di lingua magiarica, proposi a Litta di restituirli alla patria loro. Visitati a tal uopo secolui li ospitali, scrissi tosto un indirizzo a quella nazione. -
5 aprile 1848. "Prodi Ungari! Fra i molti prigioni e feriti che un'assidua pugna di cinque giorni pose nelle nostre mani, sono alcuni nativi del nobile vostro regno. Noi vi rimandiamo quelli tra loro che appartengono all'ordine ecclesiastico, e perchè le sacre loro persone non devono soggiacere alle leggi della guerra, e perchè vi annuncino la mente nostra di rendere liberi a voi, senza riscatto e senza cambio, anche li altri vostri prigioni e feriti. A tale uopo abbiamo visitato questi ospitali; e facciamo indagare nel deposito dei captivi anco delle vicine città; e adunatili tutti in Pavia e Cremona, attenderemo che mandiate vostri opportuni commissarii per condurli con buon ordine e colle cure che il loro stato richiede, su le vaporiere del Po e dell'Adriatico, sino al porto di Fiume. Dio li scorga salvi e lieti ai loro focolari! Dio ha voluto che la nostra vittoria li redimesse da una milizia ch'era una servitù. Testimoni delle tremende angustie che il nostro popolo quasi inerme ha superate, essi vi potranno dire a quali atti d'incredibile crudeltà proruppero in quei giorni i satelliti dell'antica tirannide. Quando essi vi narreranno dei vecchi, delle donne e delli infanti sbranati e arsi vivi, intenderete da quale abisso di miseria la providenza ci abbia salvati. Quando vi narreranno che nondimeno il nostro popolo in mezzo all'ira accolse come fratelli i feriti e i prigionieri, vedrete quanto sia degno dell'amicizia di tutti li uomini generosi; e abborrirete tanto più la diffidenza e l'odio che le volpi auliche avevano messo tra la vostra nazione e la nostra. Prodi Ungari ! quando nel 28 aprile 1814, quattro settimane dopo la presa di Parigi, noi liberamente e volontariamente accogliemmo nella nostra città l'esercito austriaco, era a condizione che un principe del sangue di Maria Teresa ci reggesse con governo nostro e indipendente. In quella vece abbiamo patito trentaquattro anni di perfida oppressione e di depredazione continua. E ciò che più ci affliggeva si era che con indescrivibili artificii non solo noi, ma tutta la nazione italica era fatta apparire agli occhi del mondo una stirpe degenere e imbelle. Il sangue di trecentomila nostri combattenti che nelle guerre francesi aveva irrigato i campi di Colberg, di Austerliz, di Raab, di Genova, di Valenza, di Càttaro, di Malo-Jaroslavetz, di Bautzen, di Dresda, di Lipsia, di Hanau, di Mantova, fu perduto; perduto per il nostro onore. Siamo grazie a Dio, che ci concesse alfine la mitraglia di Palermo e di Milano. Il nostro popolo si sente ora come un gentiluomo che si è sciolto dalla calunnia con un duello. Questo popolo vi tende dunque la mano consacrata dalla vittoria e pura di vendetta e di crudeltà. Egli non vi dimanda di violare i doveri che avete verso il vostro paese. Egli vi dimanda quella nobile amicizia che nelli antichi tempi annodava anche tra campioni costretti dal destino a combattersi. Voglia Dio toccare i perversi cuori di coloro che, arbitri delle sorti delle genti, le spingono a vicendevole distruzione. Sarebbe degno della luce dei tempi che i popoli non traessero più la spada se non nella difesa della terra natale. Per molti secoli l'Ungaria nella sua lutta con li Osmanli ebbe a suo destro fianco Venezia, al sinistro la Polonia. Compagno allora di gloria, queste tre genti furono poi prese ad un solo laccio d'astuzia e di tradimento. Dio le voglia ancora compagne nell'armi e nella vittoria. Il comune nemico ora viene dal settentrione. O prodi Magiari! ricordatevi dei fratelli Polacchi. Ricordatevi che al di là della terra nemica, là preso li Urali, giace nelle tenebre dell'ignoranza e della servitù la patria de' vostri antenati. Ricordatevi eziandío quanto dovete alla madre Italia. Fu italico il primo aratro che solcò la terra della Teissa; furono itale le mani che imposero al vostro Danubio il primo ponte; tutta la vostra patria è sparsa dalle reliquie dei nostri padri. L'Italia vi portò la fede di Cristo; l'Italia vi prestò per dieci secoli la lingua delli altari e delle leggi, il primo vincolo della vostra nazionale unità. Nel nuovo diritto delle genti, tutti possiamo essere amici; perchè tutti eguali e contenti nelli inviolabili confini della patria. La più cara cosa, dopo la vittoria che ci rese la libertà, ci fia sempre la vostra amicizia. Dio vi salvi. Eljen a' Magyar!
Tradutto in lingua ungarica, e spedito per sicura via, quello scritto ebbe sollecito riscontro dal comitato di Pesth : - "Abusare lo straniero delle dovizie e del sangue delli Ungari; all'annuncio del moto italico aver essi eccitato i ministri a richiamare i loro reggimenti; alla lettura del nostro indirizzo aver esclamato non potersi più tolerare l'iniqua guerra; aver proclamato a nome del popolo ungarico non esser figlio di quella libera terra chi combattesse contro la libertà; essere loro fervoroso voto che Italia e Polonia fossero libere, per la felicità loro e di tutta l'Europa".- Il governo provisorio, parecchi giorni dopochè il nostro scritto era publico, lo adottò; e vi appose allora la sua firma; ma già non aveva voluto assentire che si liberassero i militari, bensì due capellani solamente; e in seguito lasciò cadere ogni pratica. Obediva in tutto ai generali piemontesi, i quali mirabilmente ignari di tutte quelle cose, non si potevano capacitare dell'importanza che avrebbe avuto l'avventare immantinente le nostre armi sulla frontiera illirica; lo scuotere li Ungari ancora isolati e dubiosi; il chiudere in mezzo i Croati, e trascinarli seconoi colla forza, coll'oro, e colla irresistibile parola della libertà. E così tutto si rimase in alcune cortesie che li Ungari fecero sul campo di battaglia ai nostri, e principalmente ai Toscani. Per tal modo, i popoli dell'imperio austriaco vollero facendo da sè soccumber tutti: dum singuli pugnant, universi vincuntur. In quei medesimi giorni, i negozianti e manifattori d'Austria e Boemia, riputando di loro interesse la conservazione delle provincie italiche, volevano armare contro di noi un corpo di volontarii. Scrissi loro a tal proposito una circolare: - "La guerra aver chiuso le porte delle Alpi; la pace solo poterle riaprire. - Se l'Austria non facesse una pace volontaria e pronta, ella sarebbe la sola terra per sempre e per giusto castigo esclusa dal nostro commercio. Mai più non entrerebbe in Italia un fiorino di sua mercanzia. Guai alla Boemia e all'Austria, se lanciassero contro l'Italia una sola banda di volontarii ! - Quanto al commercio maritimo, le numerose navi di tutti i lidi d'Italia renderebbero impenetrabile l'Adriatico, sinchè dura la guerra. Mai non entrerebbe in Trieste e in Fiume una sola nave, se prima non avesse posto sulla sua prora l'olivo della pace. La questione della posta delle Indie era in nostra mano; padroni dell'Adriatico, noi potevamo prescriverle di scegliere quel porto e quel passo delle Alpi che ci parrebbe. - I banchieri, i negozianti, i manifattori, i capitalisti d'Austria, Moravia e Boemia erano dunque in nostro potere per molti e grandi interessi del presente e del futuro. Se volevano gettare i loro capitali nella voragine della guerra, tanto peggio per loro. - E intanto ogni commercio tra noi e loro sarebbe per sempre troncato; e la plebe dei loro sobborghi o morrebbe di fame, o diverrebbe pei colpevoli un terribile flagello di Dio. - Precorrendo tutte le altre nazioni in un trattato di pace e di commercio con noi, essi avrebbero i vantaggi di pace e di commercio con noi, essi avrebbero i vantaggi d'una commerciale primogenitura. Se no, no! Dio ispirasse loro buoni consigli, prima che fosse tardi". - La plebe dei sobborghi di Vienna avverò entro sei mesi la nostra minaccia, ma inutilmente per noi; poiché le armi nostre erano già messe a terra dal re. E anche quello scritto ebbe a partire colla firma di Pompeo Litta, e come cosa che riguardasse i volontarii nemici e la guerra. Nessuno in governo aveva incarico d'affari esteri; anzi nessuno aveva portafoglio proprio, tranne Litta per la guerra; e anch'egli per fatto nostro; e non durò a lungo. Il Casati e il Durini stavano saldi al principio austriaco della collegialità, affinchè, in quella confusa promiscuità nessuno avesse a rispondere col suo nome delli atti suoi. Dal quale principio venne in molta parte la nostra ruina.
|
2 Per chi volesse saper qualche cosa sul numero e la condizione dei morti dalla parte del popolo, valga il seguente scritto, che inserii nell'Italia del Popolo del 3 luglio, sotto il titolo:
Registro mortuario delle barricate in Milano.
Le note mortuarie che sogliono publicarsi dalla municipalità di Milano, portano pei gloriosi giorni di marzo tutto il pregio d'un monumento istorico. I giornali della congrega patrizia arrogarono immodestamente e ingiustamente poco men che tutto a lei il merito di quella battaglia di cinque giorni che mandò rotto al Mincio l'esercito austriaco. - Ebbene qui ci sta innanzi il registro funereo. Udiamo la testimonianza che sorge dai sepolcri sincera come la morte. Fino al 31 di marzo si registrarono morti di ferite più di trecento. Attribuiti all'ordine dei possidenti ne riscontrammo tre soli, e tutti popolani; un Ettore Zanaboni di Lodi, giovane d'anni 25; e due vecchi: Antonio Costa della cura di Sant'Eufemia, e Antonio Grassi del suburbio di Porta Ticinese. - Qui non v'è orma di patriziato. Non vogliamo per ciò dire che nessuno di nobil famiglia offrisse il capo ai colpi nemici; e ben ci ricorda d'averne ammirato alcuno sempre fra i primi al pericolo; ma non sono codesti generosi che negano al popolo il suo diritto. Ed è forza pur dirlo, erano ben pochi; e se così non fosse stato, i casi della morte che colpirono li altri, non li avrebbero potuti così perfettamente risparmiare. Bene in grandissima maggioranza erano i signori là dove si proponevano frattanto li armistizii colla casa d'Austria, e poi tosto e nello stesso giorno le dedizioni senza patti alla casa di Savoia; che per quel prim però non riescirono. Ma tornando a rimestare il cumulo dei cadaveri, vi ravvisiamo fra i più segnalati un Augusto Anfossi già mercatante e militare in Oriente e audacissimo condottiere alli assalti. Vi troviamo tre giovani ingegneri, Luigi Stelzi, Carlo Carones e Andrea Cassanini; l'istitutore Boselli e il prete Marco Lazzarini trucidato nel presbiterio di San Bartolomeo. Troviamo l'ispettore della strada ferrata di Monza Gerolamo Borgazzi, venuto con una squadra a soccorso della città; troviamo il giovine ragioniere Tomaso Barzanò; tre studenti Perimoli, Chiapponi e Campato; due impiegati, Giacomo Caccia e Carlo De Ceppi; tre scrivani; il cavallerizzo Foscati e il suggeritore teatrale Misdari. Il commercio è rappresentato da due mercanti, due mediatori, e tre o quattro commessi, fra i quali un Petrolini ticinese. Fra codesti Ticinesi - che furono anche primi a rompere il confine per soccorrerci, e senz'altra mente che di soccorrerci, - fu lodato e compianto in quei giorni l'intrepido feritore Giuseppe Broggi. Soffersero gran numero di morti i commercianti di cose bisognevoli alla vita, anco perchè più mescolati nei trivj col popolo combattente. Contammo non meno di 26 venditori di vino, d'olio, di latte, di droghe, di salumi; di frutta, di pane. Ma la maggior turba delli uccisi doveva ben essere fra li operai; le barricate e li operai vanno insieme oramai come il cavallo e il cavaliere. Il sacro mestiere delli stampatori ebbe cinque morti, e troviamo fra i morti anche un legatore. Vi sono tre machinisti, un incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori di ferro e di bronzo morirono non meno di quindici; onde pare che questa forte razza fosse tutta sulle barricate. Ed è pur glorioso all'arte de' calzolai il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro; tre cappellai; e venti tra verniciatori, doratori, sellai, tessitori, filatori, guantai e anche un parucchiere. V'ha una decina di muratori, scarpellini e d'altre arti edilizie. L'agricultura ebbe le sue vittime nel fittuario Molteni, in un giardiniere, un ortolano e sei contadini. Un cadavere diedero le guardie di finanza e due i valorosi pompieri. Abbiamo infine parecchi facchini e giornalieri, e altri ignoti di mestiere e di nome: sine nomine vulgus. L'unica relazione che forse potrebbero avere codesti registri col patriziato è una lista di circa diciotto tra servitori, cocchieri, cuochi e portinai, alcuno dei quali sarà forse morto per procura de' suoi padroni. Gloria e potenza a loro; e requie a lui! Quei feriti che soggiacquero a morte più lenta, saranno nei registri d'aprile e maggio, che ancora non avemmo. Grande più che non si crederebbe è il numero delle donne uccise; alcune lo saranno state per caso, ma molte per coraggio e per amore; e alcune per ferocia dei nemici, che non solo imperversarono nelle parti indifese della città, ma nascosti sopra le aguglie del Duomo, si piacevano ad avventare insidiosi colpi ai balconi interni e alle finestre mal chiuse. Vediamo indicata una levatrice, una ricamatrice, una modista e tra quelle che si dicono alla rinfusa cucitrici, alcune giovinette. Quante storie di semplice affetto; e d'inosservato dolore vi stanno riposte! O poeti, interrogate questi sepolcri, e siate poeti della vostra gente. Noi raccogliendo solo il sommario significato di questi aridi ruoli, ripetiamo che il sangue dei cinque giorni fu veramente versato dal popolo, e al popolo se ne deve gratitudine e gloria. Fu questa la prima vittoria dell'Italia contro l'oppressore; e diciamolo pure, fin qui, è l'unica vittoria vera; li altri sono fatti d'arme, onorevoli quanto si vuole, ma senza valevole acquisto di terreno; anzi con perdita dolorosa, assidua, vasta, di provincie e di città. Dio la cessi! Dio ne conceda capitani che ci conducano una volta alle promesse Alpi! Alle Alpi, alle Alpi chi vuol la pace! I patrizii si rammentino che le paci di Campoformio non furono altro mai che fugaci e perfide tregue, e che il tributo dei millioni richiesti dal nemico gli darebbe solo lena e nervo a fare a buon tempo più tremenda vendetta. Il prezzo dalla vittoria fu pagato dai poveri. La vendetta del nemico cadrebbe sui ricchi! |
Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |