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Carlo Cattaneo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane IntraText CT - Lettura del testo |
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LA CITTÀ CONSIDERATA COME PRINCIPIO IDEALE DELLE ISTORIE ITALIANE
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In un paragone tra l'economia rurale delle Isole Britanniche e dell'Insubria inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo dimostrato come l'alta cultura (high farming), essendo una precipua forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte d'un consumo artificialmente provocato dall'incremento delle popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l'azione delle città sulle campagne. Ed ora, per quanto l'angustia dello spazio il consente, vorremmo ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l'unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e corruttela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d'una tetra fatalità. Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la città di Roma dalla città d'Alba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero alla loro mente generazioni di città. Non così nascono, né così si rappresentano alle menti dei popoli, i regni di Ciro, di Gemscid, d'Attila, di Maometto, di Cinghiz-Khan, di Timur-Leng. Figli di tribù pastoreccie, vissuti sotto le tende, i conquistatori dell'Asia solo dopo le vittorie si fondano una sede di gloria e di voluttà in Babilonia, in Bagdad, in Delhi; le quali, come nota Herder, altro non sono che grandi accampamenti murati, ove l'orda conquistatrice raccoglie le prede della guerra e i tributi della pace. La prisca Europa fu dapprima un'immensa colonia dell'oriente, come in questi tre secoli l'America fu colonia dell'Europa. Ma per due vie, e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al più l'uno o l'altro Bosforo, e traendo seco dall'Asia, coi frammenti delle lingue e religioni indoperse, la pastorizia e una vaga agricultura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza città: per vicos habitant; talora senza villaggi: ne pati quidem inter se junctas sedes; in tugurii non murati: ne cœmentorum quidem apud illos aut tegularum usus; sovente in sotterranee caverne: solent et subterraneos specus aperire; eosque multo insuper fimo onerant, suffugium hiemi (Tac.). Vaganti per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua e là colle tribù aborigene dell'Europa selvaggia, esse apparirono poi barbare a quelli altri popoli che, oriundi pur dall'Asia, erano approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell'Italia e dell'Iberia. Questi, uscendo dalle città dell'Egitto, della Fenicia, della Lidia, della Frigia, della Colchide, non pensavano poter vivere nella nuova patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno spazio, urbs: e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini, affinché questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con arte. L'agricultura era provida e riflessiva, perché la dimora era immobile e il possesso era certo. Quelle colonie non erano mai d'uomini dispersi come le tribù arabe dell'Africa settentrionale, o i boers della meridionale, o i rancheros e i backwoodsmen dell'America. Col nome di colonia gli antichi Itali intendevano sempre che i popoli si propagassero d'una in altra città, riproducendo lo stabil vivere della patria: Colonia est coetus eorum hominum qui universi deducti sunt in locum certum ædificiis munitum (Serv.). Coloni sunt cives unius civitatis in aliam deducti, et ejus jure utentes a quâ sunt propagati (Gell.). Ai nostri dì ancora, per tutto il settentrione, la famiglia possidente ama stanziar solitaria in mezzo alla sua terra: suam quisque domum spatio circumdat (Tac.). Quivi ha la sua casa paterna, non una villa di temporario diporto; non tiene palazzo nella città più vicina; non cura aver consorzio e parentela cogli abitanti di questa. Le città sono mercati stabili, vaste officine, porti alimentati da lontani commerci: non hanno altro vincolo colle terre circostanti che quello d'un prossimo scambio delle cose necessarie alla vita, non altrimenti che navi ancorate sopra lido straniero. In Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. Il pastore di Val Camonica, aggregato ora ad uno ora ad altro compartimento, rimase sempre bresciano. Il pastore di Val Sàssina si dà sempre il nome d'una lontana città che non ha mai veduta, e chiama bergamasco il pastore dell'alpe attigua, mentre nessun agricultore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi. Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. I monumenti non rivelano peranco a qual tempo sia da riferirsi la prima fondazione delle città in Italia. Ma i monumenti egizi ci additano con data certa tre grandi rivolgimenti, che agitarono tutte quelle regioni da cui vennero ai nostri lidi i più antichi fondatori di città. Sono la spedizione d'Osimandia sino alle frontiere dell'India (A.c. 2500) e quella di Sesostri fino in Europa (1800); e fra l'una e l'altra l'irruzione dei pastori dalle regioni del Caspio all'Egitto (2000). Verso i tempi a cui si attribuisce la fondazione di Roma (750) l'Italia era già tutta seminata di città ben antiche. Ma esse appartenevano a più lingue e religioni, che si erano stabilite qua e là combattendo e si contendevano il terreno. Le città più grandi erano di più recente origine; erano le colonie greche, fra le quali Crotone poteva armare nel suo dominio centomila uomini; e Sibari poteva tenerle fronte; e le cinque Siracuse (Syracusae) nel loro complesso pareggiavano qualsiasi moderna capitale. Grandi erano pur quelle che sembravano d'origine quasi greca, ma contemporanea coi primordj della cultura greca, ed erano probabilmente pelasghe, come Cortona e Pisa; grandi pure le altre città nutrite da commercio marittimo, come le colonie fenicie, principalmente nelle isole. Gloriose per solida bellezza ci appaiono le ruine delle città degli Etruschi; ma lungo il Po forse la vita delle loro colonie fu troppo breve; appena lasciò vestigia di edificj; e a piè dell'Alpi, ove alcuni vanno imaginando le prime fonti di quella civiltà, lasciò appena qualche rozza pietra. Le città di tutti i popoli Umbri, Oschi, Sabelli erano assai minute; le trenta città dei Latini tenevano appena lo spazio che altrove ne occupa una sola: ciò proveniva forse dai riti delle loro religioni e dalle regole della loro milizia. Le colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno vincolo fra loro né colle città madri, benché abbiano l'amicizia di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente italiche sono libere in sé; ma il supremo diritto di guerra e di pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall'autorità delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci, alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna di queste. Ma ogni città si governa da sé, dentro i termini della sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L'indole armigera e magnanima è comune a tutte. Tale è la prima êra delle città italiane. Roma, sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca, pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all'estremo confine, sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il confluente di due fiumi arcifinj il Tevere e l'Aniene. Le tre castella nel corso degli anni divennero tribù d'una città comune, in cui per l'opportunità del luogo potè accasarsi maggior numero di Latini, e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi, le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sé tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un triplice ordine d'idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola, assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero. Nel seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie, cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città italiche l'onore e il profitto della milizia romana. Uomo d'altra nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi l'antica coorte si componeva d'un manipolo romano e d'uno latino; e il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia italica durò finché durò la milizia romana. Da Roma uscì l'esercito; dall'esercito romano uscì la nazione. Ma, collegate a Roma o a lei sottomesse, le città italiche non hanno più il diritto di guerra, di pace, di federazione. Le native loro leghe, fondate nelle origini, nelle lingue, nelle religioni, nelle memorie d'una potenza e d'una gloria comune, rimangono disciolte. Non solo si toglie loro il diritto di far congressi, ma quello d'acquistar beni e contrar parentele nel seno d'altra città. Quelle che non divengono del tutto romane, non devono più conoscere se non sé medesime e Roma: cœteris latinis populis connubia, commerciaque et consilia inter se ademerunt (Liv.). Così mentre il romano propagava per tutti i municipj la sua milizia, il suo commercio, l'usura, i possedimenti, i connubj e i varj gradi della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell'oblìo delle lingue e delle religioni, nell'esterminio delle minime città, il cui territorio colle immani confische delle guerre sociali e civili era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipj ch'erano largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si chiudevano più saldamente in sé, per la maggior distanza dal centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più strettamente municipale. Né le sole famiglie più oscure si saranno attenute all'antico nido; ma forse quelle appunto ch'erano state in altro tempo più illustri. Sdegnose, e contente nell'odio, esse avranno anteposto alle ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è nell'indole costante della nazione; e più volte si avverò. A questa stoica accettazione d'una dignitosa oscurità si deve la tenace e continua vita dei municipj nelle età più infauste e desolatrici. In ogni municipio vi furono dunque due elementi. L'uno era coloniale, romano, latino; era nuovo e comune a tutta l'Italia; si annunciava splendidamente nella lingua scritta, nella letteratura latina, che si levò come un sole su tutta l'Italia. L'altro era antico; era la reliquia d'un popolo disfatto; si annunciava nell'inculto idioma delle plebi, che non potevano accorrer tutte ad imparare una nuova lingua nelle scôle e nel foro di Roma; ma la raccoglievano fortuitamente e spezzatamente negli eserciti, nei mercati e lungo le grandi vie che portavano nelle lontane provincie le legioni. In quell'uso tumultuario dovevano mutilarsi e impoverirsi le inflessioni, ridursi a costruzione semplice e diretta la trasposizione latina, torcersi i suoni giusta le pronuncie indigene. E così nel dialetto s'improntava indelebile la memoria di quel singolo popolo al quale il municipio aveva appartenuto. Chi segni sulla carta una linea per Firenze, Bologna, Padova, Udine, trova nel confine dei dialetti il preciso confine antico di quattro nazioni. Questi termini immobili d'una geografia anteriore ai Romani rimasero aderenti alle mura dei municipii. Ma indarno più oltre, al di là delle Alpi Giulie o Retiche ove le città non ebbero larga radice nei popoli, andremmo a cercare i confini antichi delle nazioni che vennero ondeggiando con perpetuo flusso e riflusso per quei vaghi spazj. Dopo le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e della Rezia, al limitare dell'êra nostra, v'è in Italia una sola nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie del mondo. Ma quell'unica sovranità è già in nome del popolo afferrata dai Cesari. I Cesari sono l'ultima conseguenza e l'ultima espressione dell'unità. Le legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai pretoriani. L'Italia è armata; e tiene colle armi un immenso imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'êra seconda. |
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