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Carlo Cattaneo
La città considerata come principio ideale delle istorie italiane

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 Ottaviano non avrebbe mai potuto affrontare tutte le tradizioni e le consuetudini dei Romani. Egli non tentò abrogare il consolato o il tribunato; ma si fece a grado a grado console perpetuo, perpetuo tribuno, censore, pontefice. Tutto il rituale religioso e politico che aveva consacrato agli occhi del popolo le antiche famiglie trionfali, venne magnificando una famiglia sola, i suoi congiunti, i clienti, i servi. Circoscritto l'esercito alle fide coorti pretorie e urbane e ai lontani presidii dei confini, si negò il ritorno ai veterani; la milizia divenne un esilio. I senatori amministrarono in silenzio le provincie pacifiche; divennero ignoti alle provincie militari. Giureconsulti quasi privati, non sospetti di potenza presso i popoli o di favore presso le legioni, poterono continuare in pace le loro deduzioni. L'antica Roma del diritto civile, illuminata dalla filosofia stoica, potè per alcune generazioni sopravvivere, tollerata dai capitani che avevano disarmato i patrizj e avevano interesse a compiere il pareggiamento iniziato dai tribuni. I giureconsulti, precorrendo sempre colla dottrina alla legge, giunsero perfino a sentenziare che la schiavitù era cosa contro natura: Bella etenim orta sunt; et captivitates secutae et servitutes, quae sunt naturali juri contrariae! Ma non è vero che l'umanità dei giureconsulti fosse ispirata dai Cesari; poiché la fratellanza di tutti gli uomini, societas caritatis, si vede annunciata, già mezzo secolo avanti l'êra nostra, negli scritti di Cicerone, insieme al principio della tolleranza universale: universus hic mundus civitas communis deorum atque hominum. Né mai veruna dottrina posteriore poteva abbracciare con più largo vincolo di benevolenza tutte le genti e tutte le religioni.

In seno alla pace, l'Italia, meta comune di tutte le nuove vie che collegavano le provincie, porto d'un mare tutto suo, dimora delle famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo nella decorazione delle sue città e de' suoi campi. Il Tevere, diceva Plinio, è ornato e vagheggiato da più ville che non tutti gli altri fiumi della terra.

A misura che si estinguevano le famiglie educate nell'eredità degli onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal solo Domiziano, potè continuarsi nell'imperio una serie d'uomini come Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non obbedire alla logica del potere che li traeva ad emanciparsi sempre più dall'aura popolare, dalle armi cittadine, dalle republiche municipali, dal predominio dell'Italia, la quale irradiava le native sue istituzioni su tutto l'occidente. Cominciarono essi a coscrivere nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (A. 212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi dell'imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita.

Ai medesimi tempi la violenta morte di Papiniano e Ulpiano troncò la viva tradizione della giurisprudenza. Alla generosa e provida scôla che voleva la ragione interprete della natura e duce dell'umanità, seguì tosto la fantastica setta di Plotino, che sperava nell'estasi e sprezzava il mondo e lo abbandonava alla violenza e al caso.

Così nella terza êra le città italiche, opulente, ornate d'arti e di lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d'umanità, erano vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di nazionalità. Era un decadimento velato dall'apparenza della prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano, il cittadino romano. Abolito il soldato e il cittadino, l'Italia, sebben sede dell'imperio, non era altro omai che una provincia.

Dopo Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d'un esercito sempre più straniero si contesero colle armi l'imperio e la vita. Ma tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che pareva una continuazione della repubblica romana. Aureliano e Diocleziano si proposero ad esempio le autocrazie dell'oriente, il regno della forza in tutta l'asiatica ostentazione. Il gran punto era che l'Italia non fosse più amministrata per municipii da curie composte di maggiorenti o di eletti del popolo, ma per vaste prefetture, affidate a favoriti (comites) a modo delle satrapìe persiane. Tanto assoluta divenne poi l'autorità di questi prefetti, che in alcune provincie dell'oriente essi giunsero a prendere apertamente il nome di despoti. Ultimo e inevitabile effetto di questo modo di governo è stringere per ogni provincia in una sola mano armi, giudizii, tributi, opere publiche; non soffrir norma o misura; non dare sicurtà alle cose o alle persone, al diritto o all'onore. Fu questo per la civiltà italica un profondo sovvertimento. Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l'anno mille.

E per la verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d'un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani, sentiamo in mezzo a tuttociò un'aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe e infondere nell'India decrepita un principio di nuova vita.

Adeguata alle provincie dell'Asia, l'Italia cadde al pari di esse sotto il flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna, disgregato dagli esattori il retaggio avito della città.

Intanto le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch'esse dovevano combattere, e prive di quell'arte militare ch'è il frutto e il compendio d'un'alta civiltà, erano di tanto infida e vana difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono penetrare nel mezzo dell'Italia, che non per ciò dai Cesari venne armata; pensarono essi ch'era meglio vederla desolata che vederla forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera.

Già si sa perché Costantino avesse abbandonato l'Italia. Finché l'Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato suonava nell'animo delle nazioni come la voce del diritto. E le nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell'antica potenza e maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire sul limitare dell'Asia la sede dell'imperio, volgendo a tal uopo la stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria di Roma. Quindi l'Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni.

Nella quarta êra le città d'Italia sono adunque sottomesse al régime asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e moralmente associate all'Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma della loro barbarie. Il nome di duci o volgarmente dogi, che portavano i prefetti militari inviati da Bisanzio, rimase poscia ai magistrati di quelle che risursero alla libertà primitiva.

 

Ma la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione dell'ordine municipale e a più intenso grado di barbarie, quand'ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari.

Pel volgo degli scrittori, l'invasione gotica e longobarda è l'ultimo esito d'un'inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni vergini e libere del settentrione. Non è così. Goti e Longobardi non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro modo mercenarj o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso l'Italia, ch'era divenuta per questi una frontiera al di là dai mari e dai monti.

Or è a notare che già dai tempi incirca di Caracalla, ossia dall'abolizione della cittadinanza romana, si era tentato sostituire un nuovo popolo militare a quello che si voleva disarmare. Si era fondato lungo il Reno e il Danubio un nuovo modo di milizia, e con esso un nuovo modo di tributo, e una nuova possidenza, aborrente tanto dalla proprietà italica quanto dalla comunanza germanica. Già sotto Alessandro Severo e sotto Probo i soldati, lungo quei confini, ebbero assegni stabili di terre con dote di bestiami e servi, e col diritto di trasmetterle ai loro figli insieme al dovere della milizia. Fossero dapprima Romani o nol fossero, essi dovevano d'allora in poi radicarsi sui loro terreni.

Ecco legalmente istituita una casta militare in un imperio propositamente disarmato. Ecco fondato il diritto feudale, col fedecommesso condizionato alla milizia, col godimento senza libera proprietà, coll'appartenenza dei servi non all'uomo ma alla gleba, col tributo non pagato in moneta al principe, ma fornito in viveri dall'agricoltore al soldato. Questo nuovo diritto sociale doveva col tempo dilatarsi dall'estrema frontiera alle provincie interiori, a tutto l'occidente, alla stessa Italia. Probo aveva detto che quella nuova istituzione avrebbe reso inutile ogni altro esercito: Dixit brevi milites necessarios non futuros (Script. R. It. I.). Ma il compimento del suo sistema era già il più barbaro modo di conquista; poiché disfaceva la possidenza e riduceva a perpetua servitù l'agricoltura. E venendo i nuovi signori a vivere nelle loro stazioni militari fra i servi avvinti alla gleba, i vetusti palagi delle città restavano condannati a solitudine e ruina, e riducevasi la società municipale a poca e misera plebe. Era la primitiva barbarie del settentrione trapiantata stabilmente nel mezzodì; era troncato l'intimo commercio tra la città e la terra.

Allorché le milizie barbare poterono espandersi senza freno sulle interne provincie, l'isolamento delle città riescì maggiore in quanto codesti Goti, Eruli, Longobardi che si appropriarono successivamente sia le terre sia le rendite, erano bensì cristiani, ma della setta ariana poco diffusa nelle città d'Italia; e i più degli agricoltori erano, come porta il nome, tuttavia pagani. Perloché quando Radagaiso con duecentomila Goti penetrò fino negli Apennini ove poi fu disfatto e preso (406), i contadini videro in quella irruzione d'un esercito cristiano una vendetta degli antichi Dei, posposti dai nuovi imperanti. «Invase subito Roma infinito spavento; accorrono in città tutti i paesani (fit omnium paganorum in urbem concursus); esclamano tutti di soffrir questo perché furono negletti i riti de' sommi Dei (quod neglecta fuerint magnorum sacra Deorum); ferve di bestemmie tutta la città (fervent tota urbe blasphemiae; vulgo nomen Christi... probris ingravatur) (Script. R. It. I.. E poco stante, Alarico, che aveva già distrutto in Grecia i templi di Cerere Eleusina e di Giove Olimpico, atterrò in Roma la statua della Vittoria, palladio del popolo (410).

Quella stessa ragione di stato che aveva determinato i Cesari ad allontanarsi da Roma, aveva dovuto indurli a mutare il giuramento che per quelle soldatesche avventizie era l'unico vincolo di fedeltà, e che divenne poi in occidente, sotto il nome d'omaggio, il nodo supremo dell'ordine feudale. Sarebbe stato assurdo che gli eserciti di Bisanzio dovessero prestar tuttavia giuramento agli Dei del popolo romano, all'aquila di Giove, all'ara della Vittoria. Era necessario un nuovo giuramento e una nuova insegna: ut eum solum arbitrarentur Deum quem coleret imperator (ib.). Perciò la milizia e il comando dovevano divenir privilegio dei seguaci d'una nuova fede: Jussit... christianos solos militare, gentibusque et exercitibus principari (ib.). I Goti dunque, i Vandali, i Longobardi, nell'aggregarsi in uno od altro modo alle forze bizantine, dovevano per primo atto di disciplina sottoporsi al battesimo. Ciò avendo essi cominciato a fare quando la dottrina d'Ario, ripulsa poco prima nel concilio di Nicea (325), era salita in favore a Costantinopoli, il cristianesimo pervenne a loro sotto la forma ariana. Al che valse assai la versione che Ulfila, vescovo ariano, fece delle scritture in lingua gotica, a quei tempi incirca che S. Gerolamo le traduceva in latino.

Questo è un fatto semplicissimo; né si vede come Pierre Leroux potesse riputare astuzia di corte l'avere imposto di preferenza alla milizia la dottrina degli Ariani, perché questi «lui paraissaient infiniment moins révolutionnaires (Enc. Nouv. - Arianisme, Athanase. Tuttociò che si può dire è che l'arianismo si accostava molto al mosaismo, che certamente non è dottrina servile. E infine se la corte bizantina seguì per qualche tempo l'arianismo, lo abbandonò tosto e per sempre. Onde se vi fu arte nell'inviare genti ariane in paese non ariano, è mestieri dire ch'essa non oltrepassò il triviale precetto divide et impera.

Intanto erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perché vi si era introdotto di recente l'uso rituale della lingua latina, o conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi Dei.

Ebbene, in tanta confusione, la forza dei municipii, comunque prostrati e conculcati, fu tanta, che il rituale latino potè uscirne ad occupare insensibilmente tutta la superficie dell'Italia. E a misura che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l'una e l'altra diocesi vennero a coincidere all'incirca con quelli delle antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda, opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancì quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della conquista.

Qui si affaccia una dimanda. Quali sarebbero le sorti della civiltà e nazionalità italiana, se nel secolo IV la lingua rituale non fosse stata in Italia la latina, ma la greca o la gotica? - Si può con fondamento rispondere che in ambo i casi sarebbe riescito assai maggiore lo smarrimento delle voci latine e l'intrusione delle voci greche o gotiche. Quindi maggiore il divario tra la nuova lingua italiana e la latina e quelle delle altre nazioni consanguinee. Epperò sarebbe maggiore l'isolamento intellettuale e morale, e più difficile quella comunanza d'idee coi popoli antichi e coi moderni che giovò tanto al nostro incivilimento e più al loro. Inoltre i libri latini, che vennero a salvarsi perché la gente raccolse piamente e conservò come sacro o quasi sacro ogni ritaglio di manoscritto latino, sarebbero stati negletti, e forse di proposito distrutti come mero rimasuglio di pagani; e pur troppo anche così sovente lo furono. Onde si sarebbe forse perduta la memoria del latino, così come avvenne dell'osco, e più ancora dell'etrusco. E ora staremmo forse ignari e muti, come innanzi alle pietre etrusche, così anche innanzi alle iscrizioni latine. E insieme alla lingua sarebbe sepolto quel tesoro di sapienti pensieri e di magnanimi affetti che per le lettere latine si trasmise a noi e inspirò tante splendide azioni, e informò le nostre moderne leggi e la vita intima delle nostre famiglie. L'Italia avrebbe potuto soggiacere a quello stesso infortunio, che afflisse la Persia e la Battria e l'Egitto. Il danno sarebbe stato comune a noi e a tutte le nazioni che collo studio della lingua latina si apersero l'adito all'eredità intellettuale e morale della madre Italia. Fingiamo poi che una comune calamità avesse colpito la lingua latina e la greca; e dopo le orride devastazioni dei Goti e dei Vandali, potremmo imaginarci di errare come i Beduini sulle ruine di Tebe e di Ninive.

Un'altra quistione venne già più volte agitata. Quali sarebbero state le sorti dell'Italia, se i Longobardi avessero disteso il regno loro a tutta la penisola o almeno a Roma? - Valga il vero. Alarico Visigoto ebbe Roma e tutta la penisola dall'Alpi a Cosenza, ove morì; ed ebbe pure tutta Italia Odoacre Erulo; e tutta Italia Teuderigo Ostrogoto e l'ebbe col consenso dell'imperator d'oriente. E tutte queste tre complete unità di regno in breve svanirono; e non lasciarono altra memoria che di ruine; e l'Italia restò più debole che non fosse prima; mille volte più debole che non quando le sue città, sebben divise da lingue e religioni, e accese di fiere inimicizie, pur tuttavia seppero resistere a Brenno, a Pirro, ad Annibale. Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal raggiungere l'unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori; eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò tutta Italia durò solo sessant'anni; e quelli degli Eruli e dei Visigoti assai meno.

Tutti questi regni, ed altri, caddero non perché fosse loro troppo angusta la terra e poca la gente, sicché non potessero affrontarsi con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perché non avevano radice nei popoli; perché si erano grettamente appresi alla glebe dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all'antica forza municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensì i loro malli e arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano più che lo stato maggiore d'un esercito disseminato per una terra, sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta parasita, senza prendere innesto sul tronco nativo, né appropriarsi la legge della sua vita.

I Longobardi occuparono certamente due terzi dell'Italia; poniamo, comprese montagne e paludi, sessanta mila miglia di superficie. Erano sempre stati piccola nazione: Langobardos paucitas nobilitat (Tac.). Si vuole che, quando vennero, annoverassero sessantamila combattenti. La conquista poteva dunque dare in sorte d'ogni uomo il dominio d'un miglio di terra. Ma se fossero stati pure in doppio numero, molti ebbero a perire nelle pugne, negli assedii, nelle marce. Stettero tre anni sotto Pavia, presso grandi fiumi, in campagne impaludate; assediarono lungamente Oderzo, Mantova, Ravenna e altre città in sito insalubre. L'Italia era da due secoli devastata; dopo la peste di Narsete, quasi deserta. Ma le operose e sobrie stirpi degli agricoltori e degli artefici, sebbene in condizione dura e vile, potevano d'una ad altra generazione rifarsi. Non così una casta militare, logorata assiduamente dalla guerra straniera e civile; dalla perenne guerra privata, dalla faida, dal duello, dalla custodia delle gole alpine, dai presidii nelle lagune della Venezia e dell'Esarcato e nelle maremme della Toscana, dal clima ovunque insolito e maligno, dalla intemperanza boreale, dai disordini del saccheggio, della conquista, della vita feudale. Epperò se i Longobardi, dopo i primi anni, non si allargarono più oltre, egli è che non avranno potuto; egli è che tutte le conquiste trovano termini insuperabili in ciò che la forza espandendosi si consuma. Occupando per lungo quasi tutta la penisola, i Longobardi non poterono spaziar mai liberamente fino all'uno o all'altro dei due mari; ma dovettero soffrire lungo i lidi una catena di città nemiche, da Grado e Venezia sin oltre Bari, e da Roma sino a Reggio. Ciò non era senza pericolo e molestia e disonore. Ed era perché non ebbero gente quant'era mestieri alle mortifere fatiche degli assedj, che, inesperti di macchine e di navi e d'ogni scienza militare, non potevano nemmeno tentare con aspettazione di vittoria sì vicino alle navi nemiche. E la pochezza di loro numero si può misurar materialmente anche dall'angustia delle città che furono loro primarie fortezze e sedi dei principi, come Pavia, Cividale, Spoleto e Benevento.

L'esercito longobardo, non avendo dietro a sé nazione che riparasse alle assidue perdite, dovè per necessità ricorrere a gente straniera. Fin dalla prima spedizione ebbe ausiliarj Sassoni, probabilmente pagani, e per ciò congedati in breve; nell'assedio di Cremona ebbe a chiamare ausiliarii Slavi.

I superstiti delle guerre, radunando in sé le eredità dei caduti, dovevano colle successive generazioni andarsi mutando in fastosi patrizj. Si avviavano al campo con séguito grande di scudieri, palafrenieri, paggi, valletti e fanti d'ogni maniera. Onde il pronipote di chi nella prima invasione era stato seminudo alabardiere, marciava capitano d'una cavalcata di cortigiani e di servi. E tutto un esercito accozzato di tali brigate feudali, doveva esser molto simile per fedeltà e valore ai Sepoi dell'India.

Codesta miscela d'indigeni, avversi per tradizione di famiglia e per religione ai dominatori ariani, dovette render sì pericolosa nelle guerre contro i Franchi la condizione dei Longobardi, che questi per necessità ebbero infine ad uniformarsi alla religione del maggior numero; onde l'arianismo si spense prima del regno. Questa ragione è più istorica che quella dell'apostolato della regina Teudelinda, che altrimenti avrebbero uccisa. Al tempo delle prime irruzioni (A. 400), nell'Europa meridionale e in Africa gli invasori erano quasi tutti ariani; ma già prima della discesa dei Longobardi (568) i Visigoti avevano ceduto nelle Gallie ai Franchi, seguaci della chiesa latina (507); poco dipoi furono esterminati in Africa i Vandali (534); gli Ostrogoti in Italia (553). I Visigoti di Spagna, ai tempi di Leovigildo (568), per ragioni simili alle già dette si erano dovuti accostare alla chiesa latina; l'arianismo era obliato anche a Bisanzio. Onde, fin dall'arrivo loro, i Longobardi erano omai quasi soli al mondo di loro setta; e non potevano più aggregarsi a rinforzo se non gente d'animo nemico. A questa potevano infeudar terre, ed imporre omaggi e giuramenti e nuovi nomi longobardi. Ma infine, come le false legioni avevano tradito l'imperio, i falsi Longobardi dovevano tradire il regno. Né al regno avevano mai posto amore veruno i popoli d'Italia, ai quali significava miseria e avvilimento. Tutte le loro memorie e affezioni erano pel riacquisto di quell'antico stato colle cui leggi si reggevano le famiglie, e colla cui lingua si dinotava ogni cosa sacra.

Nei quattro secoli in circa del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo; poiché nessuno poteva inalzarsi se non seguendo e imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del regno; né avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano sempre più spegnendo di generazione in generazione. Il male non è il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia, agricoltura, commercio, scienze, lettere, l'alfabeto stesso, andavano in oblio. La gente più non aveva valore né virtù. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate.

 




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