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Carlo Cattaneo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane IntraText CT - Lettura del testo |
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-3-Non più favorevole alle città italiche fu l'èra settima, o vogliam dire la dominazione di Carlomagno e de' suoi posteri e pretendenti, per l'indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l'odio suo contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle sue istituzioni. Chiamato dal clero, Carlomagno ne' primi anni suoi (774) si fece re dei Longobardi, mollemente avversato dai loro duchi, ai quali conveniva il re più lontano. Epperò egli dapprima potè conservarli nei loro stati, poi scoprendoli riluttanti e infidi, ovvero trovatosi più potente, si diede a farne esterminio. Solo appiè delle mura di Brescia, fece appiccar mille dei loro masnadieri: mille curtisianos (Rod. Not. V. Rosa, I feudi 51). Ma gli fu forza lasciare ai Longobardi l'ampio stato di Benevento. Per, questo, e per la parte di conquista promessa al pontefice, ridusse il regno a poco più della metà. I suoi tentativi per aggiogarvi la nascente Venezia ebbero esito inonorato; la città fu più forte del regno. Parrà che alla milizia longobarda diseredata, o almeno disgregata, Carlomagno potesse facilmente supplire cogli Austrasii, cioè co' suoi Fiamminghi e Valloni, che si erano già sovraposti alle Gallie e alla Germania. Ma, sebbene i regni fossero orridamente spopolati, la milizia era privilegio di pochi. E nel mezzo secolo che durò in Francia il governo di Carlomagno (768-814) la casta militare, per le spedizioni incessanti e le lontane traslocazioni, rimase attrita e dispersa. Molte famiglie armigere caddero per orfanezza e miseria in servitù dei potenti, che si usurparono dominii immensi. Una delle cose che Sismondi pose in chiara luce, e diremo una delle sue scoperte istoriche, è questa che sotto il re senza fine lodato e ammirato «l'antique et glorieuse nation des Francs s'etait presque anéantie» (Hist. des Fr. III)». Il che renderà più probabile ciò che si è detto intorno al deperimento dei Longobardi. Ma la forza militare dell'imperio scemò più ancora per l'accessione del clero al sistema feudale. Pare che lo stesso Carlo non fosse della progenie venuta già nelle Gallie coi Merovingi, ma d'una famiglia episcopale di Metz, che Leo deduce dalla gente romana dei Tonantii Aureoli. E certo la fortuna di quella famiglia presso i Merovingi ebbe principio con uno di quei titoli di domesticità (maior domus) i quali dai barbari solevano darsi appunto agli indigeni. Quando i maggiordomi col favore del clero giunsero al comando delle armi, e poscia al regno, e poscia all'imperio, ed ebbero associato secoloro il pontefice alla suprema presidenza della società feudale, tutte le terre vennero a partirsi tra militari e prelati; ma questi potendo continuamente accrescere, giunsero infine ad avere la più larga porzione. Si sa che Alcuino, benché straniero, accumulò quattro abbazie, Tours, Ferrières, S. Loup, S. Josse, con ventimila servi della gleba, cioè con un territorio che potrebbe avere adesso duecentomila abitanti. Perciò la casta militare, che nel regno dei Merovingi era estranea al sacerdozio e nei regni ariani gli era nemica, fu necessariamente tratta ad invadere le dignità della chiesa. Perocché solo a questa condizione e sotto questo titolo, poteva ritenere le antiche signorie, sicché non trapassassero in famiglie suddite e avverse. Laonde vediamo ai nomi dei nostri vescovi, prima orientali o greci, e poscia romani, succedere allora i nomi franchi d'Ansperto, d'Anselmo, d'Ariberto, d'Arderico. In un documento bresciano Gabriele Rosa fra centotrentuno preti numerò soli venticinque di nome romano, sia che i più fossero veramente di famiglie franche o longobarde, sia che studiassero di confondersi con esse imitando i loro usi. I figli della casta militare, investiti delle donazioni clericali ch'erano probabilmente subinfeudate in minori famiglie armigere, riscossero l'omaggio dei vassalli combattenti; imposero loro i capitani di guerra; più tardi li condussero essi in campo; comparvero con usbergo e cimiero nelle battaglie; restarono talora uccisi sul campo. Ai tempi di Ottone I, il conte di Milano Bonizone da Carcano, abusando feudalmente dell'autorità datagli dall'imperatore su la città «virtute ab imperatore acceptâ, velut dux castrum procurando, regebat (Land. Sen.)» procacciò l'arcivescovato a suo figlio Landulfo, che investì nei satelliti di sua famiglia tutte le sacre prebende: «universos ecclesiasticos honores et dignitates feris et saevissimis laicis tradidit». La barbarie longobarda non era almeno entrata nel santuario; aveva depressa la magistratura ecclesiastica, non l'aveva invasa. Ma le infeudazioni caroline l'apersero all'ambizione delle famiglie militari; la deviarono da ogni preparazione di studi. Fu allora che in questa classica terra di Catullo e di Virgilio, prelati, non curanti di lettere come i selvaggi loro progenitori, si ridussero a fare appiè delle carte la croce dell'illetterato; poterono dettar testamenti in quel famoso latino «per Warimbertus... nepoto meo». (Verri C. III). Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; né alcuno darà colpa a lui dell'ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni fecero le città d'Italia più barbare che non le avessero lasciate i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. Il popolo oppresso non ebbe più il clero compagno de' suoi patimenti come sotto i duchi ariani: «episcopos qui in depressione et abjectione erant». Ma udì da loro quelle parole d'odio e di contumelia che il vescovo Liutprando di Cremona avventava contro tutta la nazione: «nihil aliud contumeliarum, nisi Romane! dicemus»: invettive, che ripetute da più venerate voci, ebbero un'eco perpetuo nelle letterature d'oltralpe e d'oltremare: «Protervia Romanorum!» (S. Bern.). Già prima di Carlo (751), i prelati avevano seggio nelle nuove assemblee di maggio, dove prevalsero in breve ai pochi magnati nei quali Carlomagno le ridusse, mentre agli antichi campi di marzo i Merovingi convocavano tutto l'esercito franco, così come vediamo a parlamento nei poemi d'Omero tutto l'esercito greco. Gli atti dei placiti e delle diete vennero scritti, e forse trattati, in barbaro latino, tantoché i più degli armigeri si trovarono costretti ad un taciturno assenso; infine si videro rimaner piedestanti nelle diete, innanzi ai prelati in seggio. Per tal modo i combattenti vennero in tutela e amministrazione dei non combattenti. Al tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l'imperio suo, accerchiato da cinque nazioni nemiche, non aveva già più difensori. Già prima ch'ei morisse, i corsari danesi infestavano tutti i lidi della Germania; poco dopo la sua morte, incendiarono in Aquisgrana il suo palazzo, insultarono al suo sepolcro. In pochi anni desolarono non solo tutte le città marittime come Nantes e Bordeaux: ma remigando su pei fiumi giunsero a Tours e Orléans; penetrarono nei monti d'Arvernia fino a Clermont; salirono per il Reno e la Mosella sin oltre Colonia e Treviri. Parigi, benché isola e fortezza, fu presa almen sette volte; all'arrivo di duecento corsari i cittadini fuggirono tutti (865). I corsari greci distruggevano Populonia e saccheggiavano Marsiglia; gli Arabi s'attendavano sulle ceneri del Vaticano, sui lidi di Nizza e di Genova, fin dentro le Alpi di Susa e del Vallese: gli Slavi superavano l'Elba; infine gli Ungari incendiarono Sangallo, distrussero Pavia, corsero fin sotto Narbona e Tolosa. Tanto gelosa e improvida era la tradizione carolina, che nella dieta di Pistes (864) si ordinò demolirsi quanti luoghi si trovassero murati senza regia licenza. Piuttostoché armare i popoli, Carlo il Calvo pattuì di pagare una multa per ogni corsaro che i suoi sudditi avessero ucciso, e di rimandare ai corsari ogni prigioniero fuggitivo, ovvero il prezzo del suo riscatto. Il flusso e riflusso della conquista nell'inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile nella imbelle Mesopotamia. Senonché, nella dieta di Carisiaco (877), i magnati si appropriarono in eredità perpetua le cariche e i feudi. L'autorità suprema rimase disciolta; ma la mano incapace a difender l'imperio era eziandio resa incapace a impedir la difesa. Da quel momento non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di provedere a sé ed a suoi. In poche generazioni, sull'intera superficie dell'imperio si venne tessendo con nuovi elementi una feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò asili; e anziché far traffico della propria gente a Greci e Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre germaniche e più dalle slave, per ripopolare i deserti. I nuovi feudi non furono più sorti o allodii, cioè porzioni di conquista divise fra commilitoni; ma concessioni del signore al suddito o sommissioni del debole al potente. I nomi di ligio, cioè uomo, e di vassallo cioè commilitone, vennero a dinotare chi si giurava ad altr'uomo per seguirlo caninamente non solo in guerra pubblica, come prima, ma in ogni capriccio di nemicizia privata. Nella nuova feudalità la milizia si cominciò a chiamar servizio; gli armati appresero a darsi per superbia nomi di servitù. Ma queste leghe private, risalendo di signore in signore fino al sovrano, costituirono una nuova ordinanza che agguerriva o almeno disciplinava le nazioni, sebbene paresse continuata e imitata da quella dei barbari che le avevano disarmate ed evirate, e sebbene al disotto di codesta servitù cortese si stendesse su tutte le glebe la servitù villana. Tutti allora, nello sforzo d'aggregarsi alla nuova colleganza, affettarono di portar nomi franchi, sicché questi infine divennero promiscui a liberi e servi. I dialetti romani della maggioranza dei nuovi armigeri soverchiarono e seppellirono l'idioma domestico delle poche prosapie straniere. Dall'anno ottocento al mille si andò adunque perdendo ogni distinzione d'origini e ogni memoria di coloro che gli istorici si compiaciono di nominare i vincitori e i vinti. Ogni nobilità cominciò da quei nuovi e oscuri patti coi grandi della milizia e della chiesa. «La vraie noblesse, telle qu'elle s'est maintenue comme un ordre dans l'état, ne peut faire remonter aucun de ses titres plus haut que cette époque d'anéantissement». (Sism.). Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero nemmen più il privilegio d'essere il rifugio dei potenti fra le incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmate e avvilite. Gli istorici notano che già gli antenati di Carlomagno, ed egli medesimo, le trascuravano e spregiavano, mentre i Merovingi, che le avevano trovate in men basso stato e non così logore da secolare miseria, solevano dividere e intitolare per città i loro regni di Parigi, Orléans, Soissons e Metz. Ma i Carolingi amavano stanziare in terre aperte; Carlomagno ordinò in suo capitolare (de villis) che in ognuna delle sue ville vi fossero tessitori, fabbri, argentieri e altri artefici d'ogni maniera, quasi volesse trasferire nei servi della gleba, come l'agricoltura, anche le arti delle cadenti città. Queste andarono adunque in oscurità e miseria sempre maggiore; divennero sovente un'appendice delle castella. «Les plus grandes villes n'étaient plus considerées que comme des villages, que comme la dépendance du château voisin». (Sism.). Questa comparativa debolezza delle città si perpetuò in alcune parti della Francia, non ostante ogni incremento del commercio e dell'industria. Ancora oggidì sette dipartimenti che colla loro superficie unita pareggiano il Lombardo Veneto, non hanno maggiori città che di sei, di quattro, persino di tre mila anime (Ariège, Haute Saône, Lozère, Landes, Creuse, Ardêche, Basses Alpes). In quanto le istituzioni di Carlomagno assimilarono l'Italia al rimanente imperio, dovevano adunque deprimere le nostre città; tantoché le meno infelici furono quelle che, come Venezia, Roma, Capua, Napoli, Amalfi, non soggiacquero all'ombra ferale della sua legge. Ma forse furono allora mirate con maggior sospetto le nuove torri delle famiglie longobarde che non le città dei loro antichi sudditi e nemici. Per ciò, quando gli Arabi cominciarono a infestar la penisola, e già prima della calata degli Ungari, vediamo Ludovico II chiamare all'esercito tutti gli abitanti di Brescia (865): «ut omnes laici, qui arma ferre possent, in exercitalem pergerent expeditionem adversus Saracenos». Senonché, gli armigeri avendo ucciso il conte Bertario, minacciati della vendetta di Ludovico, si apprestarono a difendere le mura anche contro di lui: «commotus est populus universus; arma capere, portas claudere proclamabant». (V. Rosa ib.). Brescia adunque aveva già, ovvero aveva ancora, le sue mura. Pochi anni dopo, le ebbe anche Milano (868-881), che i Goti da tre secoli (538) avevano smantellata. Nel 905 ebbe mura anche Bergamo. Le città fortificate, là dove non vi sono eserciti stanziali, fanno supporre qualche ordine di custodia e d'armamento nei cittadini; e dove la popolazione è scarsa e le città quasi deserte, fanno supporre qualche armamento esteso a tutte le classi. In Italia adunque le mura e le milizie urbane risorsero per quella medesima impotenza e dissoluzione per cui sorsero le castella. E così mentre oltralpe i feudi soprafacevano le deboli città, in Italia si poterono alzare, una a fronte dell'altra, due milizie. L'una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti, divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura, ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sé il principio d'un risorgimento integrale. L'altra sparsa per le foreste del contado, composta di castellani e torrigiani e dei loro bastardi e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle giurisdizioni e delle leggi, ch'erano romane nella città e confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e coll'arbitrio feudale, fecero sì che il servo della gleba potesse anch'egli farsi franco, purché solo riescisse a fuggire e a lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d'armare altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli alla difesa delle castella. Le città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici, espandevano dunque in circuito un'influenza avvivatrice, che rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov'esse erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare fino a più tarda età, non l'impronta longobarda, ma l'impronta dell'età dei Longobardi, non perché fossero in origine più barbare, ma perché trovarono intorno a sé minori sussidii a uscir dalla barbarie. Il fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell'ordine di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell'ordine sacro la prima città d'Italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque come dal fiume dell'oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli orgogli dell'antico stato. Epperò quando Milano era ancora silenziosa, propter hominum raritatem, e i vuoti suoi spazii erano occupati di pascoli e vigne, vediamo alla morte di Ludovico II l'arcivescovo Ansperto trar seco in arme i vescovi di Cremona e Bergamo per togliere a forza il cadavere dell'imperatore al vescovo di Brescia e dargli sepolcro in Milano. Lo vediamo negarsi alteramente al comando del pontefice romano che lo chiamava a concilio. Questa preminenza era innata alla città; era la tradizione d'una grandezza anteriore alla chiesa ambrosiana, anteriore al papato, all'imperio, alla conquista romana: Mediolanum Gallorum caput. Ecco le radici dell'istoria moderna abbarbicarsi negli imi ruderi delle età primitive. L'istoria d'Italia è una e continua; non ha principio se non coll'Italia. A questa preminenza civica, trasformata in supremazia rituale, gli arcivescovi attinsero la forza di reggere col voto loro tutte le elezioni dei pretendenti alla corona d'Italia. Ansperto acquista feudi favoreggiando Carlo il Calvo; Anselmo incorona Berengario; Andrea invita al regno Ludovico di Provenza; Lamperto invita prima Rodolfo di Borgogna, poi Ugo di Provenza, Arderico patroneggia Berengario d'Ivrea; la dieta di Milano proclama Lotario figlio d'Ugo; Valperto chiama in Italia Ottone e lo scorta a Roma. Ad ogni siffatta mutazione, il primato acquistava sempre favori e rendite e dazii e feudi, finché non ebbe raccolto in sua mano tuttociò che la corona poteva dare: maximos redditus imperiali auctoritate recipiebat... super stratas regales, in exitu quolibet de Comitatu, habuit teloneum; et dum intrabat aliquis... dabat telonariis archiepiscopi, immo innumerabilibus telonariis, censum. (Galv.). E coi dazii di tutte le strade aveva acquistato, d'autorità imperiale, la loro custodia e la giurisdizione e la forza armata per tutto il contado, che forse abbracciava in parte altre diocesi: Et archiepiscopus tenebatur custodiri facere passus; et omnibus damnificatis infra territorium restituere de suo. Un conte inviato dal re non poteva aver incaricato o autorità di contrastare ai voleri d'un primate, che faceva i re e li disfaceva. L'autorità del conte trapassò dunque nel primate, non per effetto di rivoluzione popolare, ma d'autorità imperiale, per continui patti coi principi nuovi o lontani, e per primitiva e costante tendenza, ch'ebbe la politica carolina, di condurre alla confusione della milizia col sacedozio. Era l'ultimo termine d'un moto di discesa e d'un politico discioglimento. Or com'ebbe principio la separazione dei due principii? - Quando Bonizone e Landulfo ebbero prodigato ai loro armigeri le funzioni sacerdotali, la coscienza dei popoli si oppose. Cacciato Landulfo, ucciso Bonizone, si venne a termini di pace. Ma quali? Per quanto possiamo raccogliere da Galvaneo, si convenne che gli officii sacri restassero separati dalle investiture militari, che sembra si conservassero nei congiunti e aderenti dei Carcano. Anzi pare che in essi si perpetuasse l'eredità, e se ne costituisse il nuovo ordine dei Capitani delle Pievi: Landulphus archiepiscopus, expoliatis omnibus ecclesiasticis personis, quarum bona per nefandam investituram civibus tradidit, quos Capita Plebium appellavit; unde et Capitanei dicti sunt. Landulfo per tal modo dovè trovarsi d'un tratto capo d'un'ierarchia ecclesiastica, probabilmente eletta dai popoli, e d'una milizia feudale eletta da lui e avvinta al suo parentado. Una simile rivoluzione contro il clero armigero, si vede, pure al tempo degli Ottoni, in Cremona. Onde si può tentare la congettura che da quel tempo, i feudi che i Carolingi e pretendenti avevano abbandonati ai prelati, trapassarono per molta parte in un corpo di capitani, che divenne ereditario e indipendente. In questo ritorno del feudo clericale a feudo militare, l'Italia seguiva un moto contrario a quello che le avevano impresso per due secoli le istituzioni caroline. I capitani delle pievi rurali, essendo per tal modo quasi un'emanazione della città, seguirono il suo vessillo nelle successive guerre, eziandio contro gli imperatori della famiglia Salica; la quale obbedienza non si sarebbe prestata da chi non avesse avuto investitura da altre mani. Perloché possiamo dire che, mentre la feudalità oltralpe si conservò regia, qui divenne municipale. Era una milizia diocesana, consolidata, forse per intenzione del fondatore, in un ordine di cittadini: civibus tradidit... capitanei dicti sunt. Così si restaurava uno dei distintivi più antichi della città italica: la milizia rurale immedesimata col patriziato civile. Ma si apriva l'adito ad una nuova lotta fra le due milizie, fra i capitani del contado e la milizia urbana, fra le castella e la città. Infatti, nella prima metà del secolo seguente (1018-1045), l'arcivescovo Ariberto, ponendosi sopra tutti gli altri Pari del regno, andò in Germania per patteggiare egli solo a Corrado il Salico la corona: suorum comparium declinans Heribertus consortium, invitis illis ac repugnantibus, adit Germaniam, solus ipse regem electurus. Arn. In ricambio ottiene il diritto di conferire ai suffraganei vescovi di Lodi e di Cremona, non solo l'ordine episcopale, ma la feudale investitura: ut sicut consacraverat, similiter investiret. E di questo modo procede Ariberto a soverchiare tutti i magnati e agitare tutta l'Italia: totam evertit Italiam, alios re, alios spe, benevelos faciens. Lodi resiste, ma viene oppressa; oppressa Cremona; oppressa Pavia, che gli Ungari del re Berengario avevano già spogliata di tutte le reliquie della regia fortuna; Asti è invasa col pretesto delle nuove sette. Ariberto, pontefice armato, e quasi re della vasta provincia ambrosiana, va con un esercito in Borgogna a propugnare le ragioni di Corrado. Reduce, s'involge in guerra civile coi capitani, forse già in quelle due o tre generazioni resi indocili dall'eredità. Egli oppone ai capitani la fanteria urbana, che serrandosi intorno al sacro carro, affronta in campo la cavalleria. In ciò forse fidando, Ariberto si scioglie affatto dalla legge feudale; rompe guerra allo stesso Corrado. Chi si figurasse che il principio di questa potenza fosse in Ariberto, e non nella città, dovrebbe discredersi allorché lo vede, già presso al termine della sua carriera (1042), lungamente esule, insieme ai capitani. La città era dunque più forte di lui e dei capitani. La città era ormai libera, non perché avesse avuto da Carlomagno o da Ottone gli scabini o i consoli o i giudici o altre siffatte inezie, ma perché aveva le armi. Non è meraviglia dunque s'essa nelle seguenti generazioni perseverasse a imporre alle città vicine quello stesso primato che Ansperto e Ariberto e gli altri avevano imposto già per due secoli a nome suo. Ma non è poi meraviglia che tutto il cerchio delle città finitime, per necessità di difesa, rimanesse perennemente nemico di Milano. Una volta che le città si erano costituite in potenze militari indipendenti, valeva per loro, quanto per i più vasti imperii moderni quel fatale principio d'ogni diplomazia: gli Stati finitimi sono naturalmente nemici. Alla qual ferrea legge non si sfugge se non per la via delle federazioni, in cui gli Stati trasportano più lontano i termini d'onde ha principio un altro campo di deliberazione politica e d'azione militare. Fra le città nemiche a Milano v'è senza dubbio Pavia, che divenuta città regia dei Longobardi, s'era nel secolo VIII disciolta dal primato ambrosiano (Verri). Ma v'è pur Cremona, città che, non si saprebbe dir come, non ebbe duca dai Longobardi; e anzi fu da loro ostilmente manomessa; e nondimeno ebbe più guerre con Milano che non alcun'altra città. E v'è pur Lodi Vecchio, Laus Pompeia, città più di tutte romana per la sua fondazione, pei nomi delle aque e dei poderi, né compresa parimenti nel novero dei ducati longobardi. Ma essa doveva respinger la mano che il primate stendeva sulle investiture, vale a dire sugli onori e i possedimenti. E se quell'angusto territorio, allora quasi inculto, chiuso nelle dieci miglia fra il Lambro e l'Adda, si paragona alla diocesi d'Ariberto, la quale si stendeva per una superficie almeno venti volte maggiore dalla foce dell'Olona al Gottardo, si vede qual necessità costringesse Lodi a farsi alleata di tutti i nemici di Milano. Per una simile necessità, Mantova, che solamente ai tempi di Carlomagno (805) aveva potuto ristaurare il suo prisco stato municipale dandosi un vescovo, si moveva contro Verona. E simile necessità moveva Crema contro Cremona; la quale, per un gioco di parole fondato nell'oblio delle antiche lingue, si attribuiva un diritto quasi di accrescitivo. E solo colla tardissima fondazione del vescovato di Crema si restaurò appieno il diritto municipale di quel popolo; che per dialetto, cioè per prima origine, si palesa agnato, non a Cremona, ma a Bergamo e Brescia. Per converso Brescia, città ch'era stata longobarda quant'altra mai, pure non avendo ragione di confini con Milano, ed essendo assai più forte, e lontana, e avvolta in altri vortici d'ostilità, sovente con città nemiche a Milano, non ebbe a contrarre inimicizia seco. Ed è altra legge di diplomazia che, come gli stati contigui hanno occasione a offendersi e mutilarsi, così gli stati alterni tendono a collegarsi contro il comune vicino e nemico. Gli stranieri si stupiscono di vedere fra le città d'Italia quella medesima perseveranza nelle offese che non si stupiscono mai di vedere fra regno e regno, perché non sanno intendere l'indole militante e regia di quelle città. La prova che la causa delle inimicizie che accerchiavano Milano era nella sua potenza, o per più giusto dire, nella sua ambizione, è questa che molte delle altre città, quando la videro soverchiata e distrutta, e pensarono di non averla più a temere, si collegarono a sollevarla dalla ruine. Ma v'era fra le teocrazie instituite dai Carolingi in Italia un altro più ampio circolo di confini e d'ostilità; la vasta chiesa ambrosiana poneva limite alla crescente potenza di Roma. Già nei primi anni d'Ariberto, l'imperatore Enrico II volle vietare la consuetudine delle nozze che il clero ambrosiano aveva commune col greco. Poco dopo la morte d'Ariberto, Ildebrando, non ancora pontefice, ritentò quella riforma. Si destò una guerra civile, che intrecciandosi alla lutta fra i capitani e il popolo, arse per diecinove anni (1056-1075). Ma l'idea che vedesi sovrastare a tutte quelle battaglie cittadine è sempre questa che Milano non debba apparire ai posteri minore di Roma: «O insensati Mediolanenses, esclama il vecchio Arnulfo,... scripta sunt haec in romanis annalibus. Dicetur enim in posterum subjectum Romae Mediolanum». Il popolo che, nemico egualmente ai signori della gleba militare e della clericale, parteggiava dapprima per il riformatore, infine quando vide Erlembaldo, il campione d'Ildebrando, a cavallo col vessillo romano in pugno cadere ucciso, applaudì con cantici alla vittoria del suo stendardo municipale, corse in armi a renderne grazie appiè degli altari: «Post hoc insigne trophaeum, cives omnes triumphales personant hymnos Deo ac patrono suo Ambrosio, armati adeuntes ipsius ecclesiam.» Retrocediamo tredici secoli, e vediamo in simile emulazione fra Roma e Milano il console Marcello uccidere di sua mano sul campo di Clastidio il re degli Insubri, e l'insubre Ducario uccidere per converso sul campo del Trasimeno il console Flaminio, e trentamila cisalpini affrontare i Romani sul campo di Canne. Al risorgente splendore di Milano Ildebrando oppone la tradizione d'un'altra grandezza antica, ma per sempre tramontata. Egli trasferisce da Milano ad Aquileia il primato della vastissima diocesi di Como. E per lo stesso principio gli avversarj suoi gli oppongono in Roma il patriarca di Ravenna. Né Roma, né Aquileia, né la celtica Milano, né la pelasga Ravenna debbono l'origine loro e i privilegi della loro natural posizione ai Longobardi o ai Franchi. È d'uopo risalire più altamente il corso dei tempi per rinvenire il principio di quelle influenze morali che si contendono il campo. Ed ogni minor città tien pure le sue ambizioni, ovvero è posta in cimento dalle ambizioni altrui. I due capi supremi della società feudale, anziché poter comporre quelle discordie, le avevano preparate di lunga mano colla guerra delle investiture, che precorse il secolo delle guerre municipali. La libertà delle guerre municipali non era sancita dall'antico diritto del regno, nelle cui diete le città non ebbero tampoco l'infimo seggio; non dal diritto feudale; non dal diritto canonico. Era una libertà eslege, orfana, abbandonata a tutte le smanie dell'ambizione, a tutti gli abusi della vittoria, a tutte le imitazioni della guerra privata e della feudale vendetta. L'idea della parità del diritto nella disparità delle forze, l'idea d'una giustizia federale, era un raggio di luce riservato a illuminare troppe remote generazioni. Il destino sovrastante, inevitabile, ineluttabile era quello d'un'illimitata emulazione.
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