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Carlo Cattaneo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane IntraText CT - Lettura del testo |
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-4-Se nel regno d'Italia la casta dominatrice, soppiantata dai conquistatori franchi, o logorata dalle guerre civili delle sei dinastie che si contesero la corona fino al mille, aveva lasciato deperire le tradizioni militari, anche la casta indigena, ad ogni generazione sempre più imbarbarita, aveva nel tempo stesso quasi obbliato le tradizioni civili. Ma le città emersero da quell'abisso di viltà insieme e d'ignoranza, subito ch'ebbero ricuperata la milizia, e all'ombra sua, la popolazione, l'industria, i beni, le leggi. Nel primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'êra ottava delle città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un'indole teocratica. E alle crociate possono assimilarsi in certo aspetto, se non le prime imprese dei Veneti in Istria e Dalmazia, almeno quelle dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, in Corsica e nelle Baleari, e quelle dei venturieri Normanni in Apulia e Sicilia. Perocché combattendo gli Arabi e i Greci come genti di fede nemica, da ciò trassero popolarità e fortuna. Ma già nel principio del secolo seguente, ossia nell'êra nona delle città, le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in cerchio colle città finitime, come già l'antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo trent'anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le città libere. Onde rimase abolito l'antico regno e la dieta degli impotenti magnati che lo rappresentava in Roncalia, innanzi al cui vano giudizio Federico stesso ne' suoi primi anni aveva citato gli armigeri municipii. A quell'eroica lotta s'intrecciò nel tempo stesso la guerra tra le due milizie. Perocché le leghe feudali di Castel Seprio e di Castel Marte ajutarono Federico contro Milano, che per tanto non potè nemmeno raccogliere a quel mortale conflitto tutte le forze del suo territorio. Codesta guerra intestina nel seno d'ogni provincia, prolungata per tutto il secolo seguente, trasse seco la distruzione delle castella, la forzata aggregazione dei castellani alla convivenza municipale, e l'abolizione della servitù della gleba. Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d'essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei raccolse in una cronica bolognese: «Nel 1236 furono liberati tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni» (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei secoli d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie. Liberato a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana êra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l'antica sua terra. Fu allora che i consoli milanesi Oberto dell'Orto e Gerardo Negro, per sottoporre a forma di municipale giudizio anche l'arbitrio feudale, scrissero il libro de Feudis; richiamarono la tradizione della forza alla ragione; dettarono dalle mura d'una città d'Italia una legge, alla quale si venne poi conformando tutta la feudalità d'Europa. Nel tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un'esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch'era la più pura formula dell'eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva dalle città un nuovo diritto delle genti. E già fin dall'anno 1216, si noti bene la data, apparvero gli Statuti municipali di Milano, che a guisa dei moderni Codici, nati seicento anni più tardi da altra pur simile trasformazione della società, richiamarono le nazioni al diritto romano e alla filosofia che lo aveva inspirato. Infatti Milano, dettando al Capitano del Popolo il giuramento di conservare gli statuti: «Vos, domine Capitanee, jurabitis... quod salvabitis et custodietis ipsum Populum et Statuta...» gli ingiunse che, ove questi non bastassero, si conformasse al Diritto Romano: et si deficerent, servabitis Leges Romanas (Verri. 1288). La terra, sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimonj, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città etrusche. Ma il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose irrigazioni ch'esse con pensiero provido e con braccio possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territorj intorno a Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le stragi e le mine. Perocché il canale del Ticino si crede intrapreso (1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora oggidì conciliare colla nuda idea d'un'assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna Charta dell'irrigazione (Baird Smith, Italian irrigation. V. I.). Con altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto si potè allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a riedificarle. Il cronista di Bologna scrisse: «Il Comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni.» Ma egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da livellarii e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, potè dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate a prezzo inaudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a favolosa opulenza. E come già fin da quel secolo vediamo in Milano l'imposta prediale estesa a tutte le terre, e attivata l'idea d'alimentare la guerra col credito pubblico, così già fin d'allora vediamo agitarsi la quistione del libero commercio dei grani. In una concordia tra i capitani e il popolo di Milano (1225), si convenne che il Comune dovesse introdurre grano estero; e sembra in meschina misura. Superbi d'una ricchezza che ogni anno per arcana virtù cresceva insieme colle popolazioni e colle industrie, i capitani rurali, fatti cittadini e venuti dalle loro antiche solitudini a stringersi in numeroso e potente consorzio, poterono ripetere impunemente in seno alla città gli usi e gli abusi feudali, recarvi seco le guerre private e le vendette ereditarie che tra loro li dividevano. Alzarono le torri delle loro case contro quelle delle schiatte rivali, e sopra i tugurii del popolo; e dentro quegli inaccessibili claustri si arrogarono d'esercitare le giustizie sommane, il diritto del taglione, il diritto di pugno, il diritto d'omicidio e di composizione, che la legge longobarda assicurava a chiunque potesse gettare alle famiglie degli uccisi una vile moneta. Quindi sempre maggiore ad ogni generazione la necessità di difendere colla forza l'antica pace municipale:
Fiorenza dentro della cerchia antica... Sen stava in pace, sobria e pudica.
Quindi la necessità d'armare il magistrato. Tale era la violenta natura di questo elemento feudale, cui le città oltremontane non ebbero mai a ricettare entro le loro mura, che alle città nostre parve beneficio il riavere quei tremendi podestà, giudici insieme e soldati, col cui braccio Barbarossa aveva voluto domarle: Mediolano destructa... tota enim in conspectu ejus tremebat Italia... in urbibus Italiae suis positis Potestatibus. (Vinc. Prag.). Ma i podestà, mezzo legisti e mezzo soldati, erano pur uomini della stessa tempra di quelli ch'essi dovevano raffrenare. Anch'essi erano nell'inevitabile alternativa di scegliere tra l'una e l'altra parte nella perpetua guerra tra il pontificato e l'imperio. Quindi la giustizia o esercitata come un'ostilità, o come tale considerata da quelli che dovevano soffrirla. E queste inimicizie propagate continuamente dai podestà medesimi coll'errante loro ministerio di città in città, si tessevano in una vasta dualità che involgeva tutta la nazione. E andavano oltralpe a rannodarsi colle antiche emulazioni delle due dinastie guelfa e ghibellina; l'esistenza delle quali era ignota alle moltitudini che da loro prendevano il nome, e lo davano in sanguinoso legato ai loro figli. Ma l'edificio municipale, radicato per forza tradizionale nella città e nel territorio, era così solido e fermo che né guelfi, né ghibellini con esilii o confische o delitti o supplicii o battaglie o eccidii mai giunsero per tante generazioni a soggiogarlo e assimilarlo. La città poteva ora esser tratta verso i guelfi ora verso i ghibellini, ora vedersi svellere dal seno una parte de' suoi figli ora l'altra, ma la cultura municipale continuò pur sempre l'ammirabile sua evoluzione. L'alternativa dei guelfi e ghibellini è accessorio; le due alte influenze che la promossero, erano forze perturbatrici e modificanti; non erano il principio della vita municipale, come sui mari il vento e la corrente non sono il principio pel quale il naviglio galleggia e fende l'onda, né sono la ragione del suo viaggio. All'età eroica delle città non partecipò tutta la nazione. Nell'Italia meridionale i municipii avevano ben conservato un resto di vita anche quando nella settentrionale erano fatti cadaveri. Ma negli anni stessi in cui Venezia, Pisa e Genova cominciavano le splendide loro imprese nel Mediterraneo, nell'Egeo, nel mar Nero, e che Milano si apprestava nell'ineguale sua lotta col gran potentato, i venturieri Normanni (1041), dandosi per difensori dei popoli, e armandosi d'investiture pontificie che si arrolavano nella gran corporazione feudale, avevano steso un nuovo dominio non solo sull'antica terra di Benevento, ma sulla Calabria e sulla Sicilia. Infine avevano spento anche gli stati liberi d'Amalfi (1131) e di Napoli (1138). Il regno normanno era feudale, ma nell'ultima e meno barbara forma della feudalità. Il suo parlamento non era un consiglio di guerra come i malli dei Merovingi, né solo un convegno di principi e prelati come le diete dei Carolingi e degli Ottoni. Esso comprese ne' suoi tre bracci anche i magistrati delle città, ma sotto la finzione giuridica, ch'esse fossero patrimonio domestico del re. Non escluse del tutto l'antico principio italico; ammise alla fonte delle leggi la città; ma la subordinò ad un principio estraneo ed avverso; le assegnò una vita inerme, servile e languida. E di tal modo per un'ampia parte d'Italia si prolungò anche nei secoli moderni l'êra bizantina. Un popolo disamorato, indifferente, abbandonò in ogni pericolo i suoi baroni, i suoi prelati, i suoi re; soggiacque sine irâ et studio a un mutamento perpetuo di dinastie. La terra, la cui prima conquista costò più sangue ai Romani antichi, divenne il sogno aureo d'ogni venturiero che sperasse vincere al gioco dell'armi una puglia. Qual divario immenso fra il vasto infermo regno, sedente nel mezzo di tre mari, e l'umile angolo di laguna d'onde Venezia potè resistere a Carlomagno, a Solimano, alla lega di Cambrai! Federico II, raccolta in dote colla moglie la potenza normanna, volle dilatarla nell'alta Italia dove già possedeva i diritti imperiali e aveva per sé la parte ghibellina. Vinto a Milano e a Bologna e lasciatovi prigione due volte il figlio Enzo, rinunciò alla prova. Ma dalla sua disfatta uscì la dittatura dei Torriani, che abbracciò in breve sette città. La dittatura parve allora il solo vincolo possibile tra popoli che, spinti assiduamente gli uni contro gli altri dalle due rivali influenze, non avevano ancora aperta la mente al concetto d'un diritto federale. Sulle fondamenta poste dai Torriani, i Visconti eressero uno stato ch'ebbe fino a trentacinque città e si protese fino a Spoleto, accerchiando d'ogni parte la libera Fiorenza; pareggiò quasi in grandezza il regno longobardo, superandolo molto di dovizie e potenza. Ma essi non vollero aver milizia popolare. Né solo tennero disarmate le città; ma Ottone Visconti, il gran prelato ghibellino, atterrò Castel Seprio, il più formidabil nido di feudatarj, e instituì perpetuo giuramento che i podestà non lo lasciassero ristaurare. Quindi la salvezza dello stato e l'onor della nazione data in arbitrio dei condottieri. Le città che avevano affrontato vittoriosamente i due Federici, si trovarono retrocesse di nuovo a quella condizione debole e passiva che avevano prima dell'arrivo dei Goti, e che doveva trarle nel secolo XVI a nuova desolazione. Ma i Visconti disarmarono, non disciolsero, l'instituzione municipale. Le rimase sempre il principio che distingue la città italica dalla città transalpina, cioè l'intima unione sua col suo territorio, e la tenace convivenza dei possidenti, che non vollero mai relegarsi nella campagna che li nutriva, né sommergersi nella capitale che gli obliterava. Ogni qualvolta l'eredità o la guerra o la ribellione dei popoli o l'infedeltà dei condottieri scompose l'ampio retaggio dei Visconti, la scomposizione si fece per città, come le rocce stratiformi e i cristalli si sfaldano nel senso della loro formazione. Brescia, Verona, Padova or furono dominio dei Visconti, or degli Scaligeri, or dei Carraresi, ora dei Veneti. Ma questo era un mutar di bandiera o di presidio; poco più che un mutar d'alleanze; non turbò, né smosse l'intima vita municipale. La città minore subì la legge del principe, non quella della città ove il principe aveva stanza. Nessuna potenza lasciò più intera e indisturbata la vita municipale alle città suddite quanto il senato veneto. Poiché, chiuso in sé medesimo, non esercitò forza d'assimilazione; e i corpi decurionali, quanto più erano opulenti, armigeri e altieri, tanto più avevano caro tenersi in disparte da chi si poteva dir maggiore di loro. Quindi nei tempi più calamitosi la costante adesione delle provincie alla città marittima che apriva alle loro industrie i porti dell'oriente. Quindi la vivacità e varietà delle provincie; ognuna delle quali aveva una vita propria, i suoi statuti, la sua amministrazione, le sue terre, la sua industria, la sua architettura, la sua pittura, le sue lettere, i suoi vizii, le sue virtù, il suo carattere. Ma i veneti, pur come i Visconti, lasciarono alle città le armi private, non curarono d'ordinare le pubbliche. Né già potevano assentire alle provincie un'interessante partecipazione alla cosa federale quando la negavano anche ai loro concittadini. La vita municipale più intera, più popolare, più culta fu nelle città toscane. Tutti sanno quali splendide vestigia essa lasciò nelle lettere e nelle arti. Essa condusse un dialetto a tal proprietà ed eleganza che ogni altro popolo della penisola e delle isole lo preferse al suo; e ne fece il pegno della vita comune e del comune pensiero. Ma ciò che contraddistingue le città toscane e sopratutto Fiorenza, è l'aver diffuso sino all'ultima plebe il senso del diritto e della dignità civile. Superarono in ciò anche l'antica Atene; la cui gentile cittadinanza aveva pur sempre il barbaro sottostrato della schiavitù. L'artigiano fiorentino fu in Europa il primo che partecipasse alla cultura scientifica. Le arti meccaniche vennero a connettersi intimamente colle arti belle; e queste colla geometria, coll'ottica, colla fisica. L'artista toscano non circoscrisse il suo genio in un'arte sola. Leonardo e Michelangelo furono pittori, scultori, architetti, geometri, fisici, anche poeti, anche filosofi. Perloché la varietà del loro sapere li condusse, per necessità psicologica, dai particolari delle arti e dei mestieri ai generali della contemplazione matematica. Ed ecco nella tradizione toscana attivarsi a poco a poco nel corso di sei secoli il metodo sperimentale, in cui l'occhio e la mano preparano i primi elementi della scienza all'intelletto, e tutto il pensiero si preordina, non a speculazione superba e sterile, ma a quella che poi Bacone chiamò scientia activa. Già poco dopo il mille, e avanti la prima crociata che cominciò ad aprir gli occhi alle altre genti, Pisa fondò il mirabile e venerando complesso de' suoi monumenti. Or, dipartendo da quello, si tessa la successione degli artisti scienziati: un Arnolfo di Lapo, un Brunelleschi, un Leonardo, un Michelangelo. E si vedrà la tradizione crescente e continua che trapassa dall'arte alla scienza operativa e scopritrice in Paolo Toscanelli che fu la guida scientifica di Colombo, in Galileo che s'armò del telescopio, in Torricelli che s'armò del barometro, nell'accademia del Cimento, madre di tutte le accademie scientifiche d'Europa. Così si venne a quella scienza esperimentale che si guarda sempre innanzi, e mira sempre alla scoperta, e non si cura di dire: ipse dixit. Questa è infine la vera ed intima forza che solleva l'Europa moderna sull'antica, e sul medio evo, e sulla immobile ed impietrita intelligenza del bramino indiano e del mandarino chinese, i quali tengono fissa la mente solo negli oracoli del passato. Applicata all'intiera vita sociale, essa diviene quella idea del progresso ch'è la fede comune del mondo civile. No; le fonti della scienza viva non sono nell'ambito logico, nella precisione scolastica; non sono tampoco nel dubbio di Descartes, ma in quella tenace coscienza del fatto che fa dire a Galileo: Eppur si move. Leonardo (1459-1519) fu il primo a scrivere che le scienze metafisiche «le scienze che principiano e finiscono nella mente», non hanno verità. Agli eruditi che rialzavano al suo tempo l'idolo di Platone in faccia all'idolo d'Aristotele, egli additò unica maestra l'esperienza: «Questa è dunque mestieri consultare mai sempre; e ripeterla e variarla per mille guise, finché ne abbiamo tratte fuori le leggi universali». E un secolo dopo di lui, la scuola toscana ripeteva con Galileo la stessa condanna dell'arbitrio speculativo: «Alla manifesta esperienza si debbono posporre tutti gli umani discorsi!... La logica è incapace affatto di trovar nulla di nuovo!». La scuola esperimentale si annuncia divisa dall'opera, e astratta in Telesio, ma dopo Leonardo; in Bacone, ma dopo Telesio; in Campanella, ma dopo Bacone, e tardi; e inutilmente; e con aspetto piuttosto di capriccio che di ragione. Né la scuola nata ed allevata con lungo amore nelle città toscane si circoscrive ai fatti della natura; ma in Macchiavello s'interna entro i fatti della società umana. Macchiavello è il mezzo termine che guida il pensiero dai fatti di Tito Livio agli universali di Vico. Gli universali di Vico scaturiscono dall'esperienza: «il vero è il fatto». Vogliano gli studiosi compiere questa ricerca delle fonti della scienza esperimentale nel seno delle nostre città. Ma prima di finir questo saggio torniamo onde si mosse, rammentando di nuovo come pur dalle città nostre uscì quel nuovo circolo di scienza agraria che promette alle nazioni un'indefinita prosperità. La nuova giurisprudenza municipale nata dall'applicazione delle acque all'agricoltura, è sancita nei nostri statuti, si associò nelle nostre università collo studio delle scienze idrauliche, ch'erano anche già invocate a frenar di nuovo i fiumi, e svenar le paludi, e sviare gli interrimenti dalle lagune. Intanto nelle università transalpine, tiranneggiate dalla scolastica, queste scienze e le matematiche stesse non avevano sede propria. E fino ai nostri giorni ebbero quivi a viver come di contrabbando sotto il nome e l'ombra della facoltà filosofica. La grande agricoltura, posta per tal modo in perpetua cura d'un corpo scienziato, si trasmutò in una assidua e gigantesca esperienza. E dal seno medesimo delle città vennero in sussidio alla nuova agricoltura i guadagni dell'industria e del commercio, il quale eziandio trasportò fra le rudi tèssere del contado le sue consuetudini di conteggio, di registri, di bilanci. La cieca pratica agraria si educò in calcolata e variabile industria. La quale sul cader dello scorso secolo passò il mare con Arturo Young e cominciò un nuovo circolo sul suolo britannico, d'onde si propagherà per tutta la terra.
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