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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Nacqui a Gàssino, nella valle del Po. Non ho conosciuto mia madre. Mio padre era fornaciaio: colle gambe nude nella fossa, tagliava la creta gialla, l'impastava, la metteva nella forma da mattoni: e s'allineavano innumerevoli i mattoni sull'aia levigata, parevano grandi pani, inzuccherati di sabbia fina. Pane invece non ne guadagnava molto: ma i suoi ottanta centesimi giornalieri procuravano a lui e a me polenta il mezzogiorno e minestra la sera. L'inverno non si lavorava; quando i primi geli ci avevano coperte le mani di crepacci, cessavamo: ci riparavamo allora nella stalla d'un vicino che aveva bestiame, e quando non nevicava, andavamo a far legna nei boschi dei signori, raccogliendo soltanto il seccume e i ceppi putridi che vendevamo a un soldo il fascio: stando tutto il giorno nei boschi e portando sulla schiena fino al villaggio due o tre fasci, guadagnavamo sette od otto soldi.
Perciò l'inverno si mangiava meno, quantunque avessi molta più fame: è vero che il pane di granoturco, pesante e giallo come i nostri mattoni, ci faceva credere d'aver sempre lo stomaco pieno.
A febbraio, sull'aia! E anch'io nella mota gialla fin sopra il ginocchio, col sole che dava la febbre: per ciò mio padre era giallo e io ho l'aria d'aver l'itterizia. Ma questo non monta.
Mio padre morì. Il sindaco ricorse per me a Torino e fui raccolto nella Pia Casa. Qui mi si insegnò qualche cosa: d'inverno al paese ero andato a scuola e sapevo il catechismo e la storia sacra: qui mi fecero ripetere la storia sacra e il catechismo e un po' di storia romana, Muzio Scevola e Bruto, più i diritti e doveri del cittadino italiano.
Più tardi mi posero come apprendista in una stamperia. Correvo tutto il giorno per città a portare commissioni e bozze e tornavo all'ospizio la sera. La domenica si passava gran parte in chiesa e solo il canto e l'organo me la facevano parere meno gravosa. Quando mi misero alla cassa di compositore, imparai rapidamente. Ebbi tosto un buon salario e potei uscire dalla Pia Casa. Intanto frequentavo le scuole serali: studiai parecchio: imparai l'italiano e il francese e così, da me, nella mia soffitta – abitavo in Borgo San Secondo e mangiavo alla Cucina popolare – volli anche conoscere un po' la grammatica latina, senza di cui non si possono approfondire quelle lingue. Perché il mio scopo era di diventare correttore.
A dir il vero, sui diciott'anni mi domandai se non avessi delle attitudini a far parecchie altre cose, a cantare, a disegnare, a scrivere e perfino a far della filosofia... Mi ricordo vagamente d'una primavera in cui affermai a me stesso con un certo turbamento che la vita doveva essere assai bella: il cielo, la terra, le cose e le persone, tutto era pieno d'una grande simpatia per me!
Ciò durò poco. Sentendomi divenir malinconico, mi riposi a studiare. Non avevo alcuna preoccupazione che mi frastornasse seriamente: ottenni presto un posto di correttore alla Società Editrice Scientifica; dapprima fui impiegato in lavori di poco conto; indi, conosciutasi la mia buona volontà, mi si pose attorno a lavori di maggiore importanza, sopratutto a traduzioni di opere scientifiche.
La mia professione mi dava molte compiacenze. Ero a contatto con gente di scienza e talvolta cercavo mostrare a qualcuno, che comprendevo molto di più che non desse a presumere la mia condizione: più d'uno mi piantò gli occhi in faccia con stupore, quando gli indicai certe contraddizioni nel corso d'un lavoro o gli suggerii umilmente certe trasposizioni che avrebbero giovato all'ordine, all'equilibrio non soltanto tipografico, d'una trattazione.
Passarono, credo, cinque o sei anni. Nel gettar su carta questi ricordi non ho tempo d'indugiarmi: ricordare è dolce, anche i dolori, ma la vita incalza – o piuttosto la morte...
Or son quattro anni, andai ad abitare in Borgo San Donato. A questo punto incomincia la mia vita: Perché prima non avevo vissuto, vale a dire non avevo sentito nulla dentro di me, non mi ero detto neanche un momento: «To', sei qui, Martino: c'è tanta gente al mondo: tu vali quanto qualcheduno...».
Abitavo nelle soffitte della casa n.** di via San Donato. C'erano 142 scalini che facevo ogni sera a due per volta, riducendoli così a metà. Allora non avevo il batticuore... Una sera, montavo allungando il braccio alla ringhiera di ferro, a testa china; rischiai di sfondare il ventre a uno che discendeva, il quale per l'urto sedette sugli scalini senza fiato. Ahi, lo stesso m'era accaduto qualche settimana prima con un giovinotto elegante che aveva alzato il bastone a percuotermi, ma aveva colpito soltanto la ringhiera, perché io era già in alto...
Chiesi perdono con una grande vergogna al povero diavolo che avevo dinanzi. Vidi un sorriso di fanciullo in una faccia pallida e patita: l'aiutai ad alzarsi: era piccolo, di membra gracili, con un viso fine dominato da una fronte enorme. Egli riprese a discendere, dopo avermi guardato con due occhi acuti e dolci, indimenticabili.
Io non avevo mai badato di proposito agli inquilini delle soffitte. Uscivo la mattina, alle cinque d'estate, alle sei d'inverno, e non tornavo che la sera tardi, stanchissimo. Qualche bestemmia di ubbriaco, qualche urlo di donna percossa, qualche strillo di bimbo, le martellate di un calzolaio matto, chiamato Cimisin, mi destavano talvolta d'improvviso, ma non mi davano inquietudine. A poco a poco, senza volerlo, vidi chi fosse l'ubriacone e la donna percossa che stavano entrambi nella soffitta attigua alla mia, e parecchi degli squallidi abitanti di quel lunghissimo corridoio a ferro di cavallo, fiancheggiato d'una quarantina di cellette dall'uscio color caffè, quasi sempre chiuse lungo il giorno e piene la notte di agitazioni e di sonni più pesanti che la morte.
Il giorno dopo, era una domenica di ottobre, rimasi in casa fino a tardi, cosa che mi capitava ben di rado, perché quel bugigattolo non m'invitava a trattenermi fuorché per dormire, e, nato in campagna, amavo passarvi tutto il dì festivo, da vero vagabondo solitario... (Feci perfino una piccola collezione di piante e d'insetti, aiutandomi per la classificazione con le visite al museo zoologico). La ragione era in questo, che attendevo dal calzolaio matto le mie scarpe, e quegli non se la sbrigava. Bel tipo! Egli zufolava come un flauto e sapeva a memoria tutto il Barbiere, che eseguiva secondandolo colla battuta del martello o colle bracciate dello spago: zufolava dei fu fu interminabili o vocalizzava agilissimamente lalla liro lirolla! Un merlo in una gabbia gareggiava con lui, ripetendo migliaia di volte la prima battuta dell'Inno di Garibaldi. Cimisin aveva inventato una macchina per volare e diceva che senza i framassoni essa sarebbe già adottata dall'esercito italiano.
Dopo averlo lasciato fischiettar Rossini parecchie ore, mi risolvetti ad affrontarlo nella sua tana. Aveva sempre l'uscio aperto, anche la notte, perché temeva che i fabbri glielo scassinassero, – i fabbri erano altri suoi persecutori, come i framassoni – soltanto teneva sempre dinanzi alla porta una tenda, per la decenza.
Stavo per gridare: «Si può?», quando al fondo del corridoio vedo uscir dall'ombra una figura di giovinetta, pallidissima, cogli occhi stravolti, come pazza. Io occupavo il passaggio: quando mi fu vicina si coprì la faccia, strisciò lungo il muro e prese a scendere rapidamente. Appena scomparsa lei, dalla stessa parte un uomo si slancia. Era il giovane che avevo urtato per le scale il giorno prima. Aveva la faccia come pesta e gli occhi smarriti.
– Mia sorella?– singhiozzò rivolgendosi a me.
Si precipitò anch'egli per la scala. Ed io dietro in ciabatte, chiedendogli con imbarazzo:
Giunsi anch'io sulla strada. Ma la portinaia, che avea veduto scendere il giovane, lo afferrò per un braccio e lo spinse nella sua camera. Là la sorella, accosciata in terra, si torceva in singhiozzi convulsivi.
Egli diede un gran sospiro, strinse il braccio di lei per sollevarla: ma il corpo non consentiva: l'alzò con forza, con ira. Poi s'intenerì subito:
La sua voce era profonda e vibrante d'una dolcezza repressa. Ad un tratto strinse con ambo le mani la faccia di lei, figgendole gli occhi negli occhi, poi lasciò cader le braccia come esausto:
– Vieni sopra, Lena!
Ella chinò gli occhi e obbedì.
Scoprii un istante un volto bianco, delle labbra pallide, non segnato che da due grandi occhi dalle sopracciglia nere. Ricordai ad un tratto quelle sopracciglia, il cui disegno puro mi s'era certo impresso negli occhi sfiorando lei chissà quante volte distrattamente per le scale.
Che fare? Seguirli mi pareva sconveniente. Quando furono saliti, chiesi alla portinaia:
– Che avviene? Ne sapete qualcosa voi?
– Eh! non ne so niente... Ma lo dicevo io! I signori sono tutti uguali.
I signori? Non si riferiva certo ai miei compagni delle soffitte.
– Che c'entrano i signori? – dissi.
– Mah! Misteri! Del resto lo sanno tutti. Non ha osservato mai un bel giovinotto nei corridoi? Era lui. E adesso chi l'ha visto l'ha visto. Tutti compagni... Buon giorno, signor Stanga!
E mi piantò in asso. Risalii. Appoggiato al davanzale della mia finestra, che dava nel cortile, ascoltavo. Trattavasi forse del giovinotto elegante da me urtato sulle scale giorni prima...? Le finestre di fronte eran tutte aperte, fuorché una; doveva esser quella... E un pianto lontano, pianto di bambino, non discernevo se di lei o del fratello, si mescolava ora al fischiettìo allegrissimo del mio calzolaio.
La mia vita, il lavoro, le lezioni serali all'Università Popolare, mi ripresero. Ma rincasando tardi, mentre sedevo a sbrigare i miei còmpiti sotto la lampada a petrolio, davo più retta ora ai rumori della soffitta, alla vita notturna di quella specie di chiostro aereo ove nessuno conosceva o vedeva forse mai il vicino; esseri umani le cui sofferenze, le cui gioie di un attimo, i cui riposi pesanti, divisi soltanto da un sottil muro, gettavan nei corridoi rumori indistinti, vagiti, gemiti, ronfi, bestemmie. E allora sentivo qualcosa che entrava in me, qualcosa di tutti quegli esseri, con un senso quasi di molestia: pareva che la lor vita grave pesasse sulla mia: non mi sentivo più libero di esser solo: non ero più solo: coloro m'imponevano qualcosa ch'io non accettavo se non con riluttanza. Forse s'io non avessi mai sofferto, non avrei sentito questo: ora la sofferenza altrui ridestava quella mia antica, sopita nelle mie fibre di fanciullo: e il pensiero che altri ora dolorava com'io allora, mi dava l'illusione che degli altri me stesso, degli altri esseri come quel fanciullo giallo ch'io vedevo e vedo ancora, col ventre lacerato dalla fame e le gambe nella mota, raspassero eternamente nella terra infeconda, per coricarvisi alla fine.
Intanto io che prima lavoravo ai libri di poca importanza, passai a correggere opere di gran valore. Fu allora che lessi per mio ufficio volumi di cui non capivo gran fatto, ma ove, dopo cento pagine per me mute, certi periodi spandevano nella mia mente onde di splendore. Basti dire che corressi le opere tradotte di Darwin, di Haechel, di Schopenhauer, di William James, di Wundt, di Flammarion. Ogni sera dinanzi alla mia lampada rileggevo quelle pagine, di cui dal bozzista compiacente, con qualche pretesto, mi facevo tirare una bozza per me; e le pareti della mia soffitta si dilatavano, scomparivano: la mia lampada diventava un sole.
Talvolta il mio capo era talmente pieno di calore, percorso da fremiti e posseduto dalla febbre, che aprivo la finestra e mi pareva d'immergermi nelle stelle. Oh! gl'immensi mondi, nati ieri o già decrepiti, pieni di vita o bruciati, irradiati o spenti nelle tenebre!
E sovente la finestra di fronte era illuminata: talvolta s'apriva, e una mezza figura si curvava sul davanzale, la gran fronte del fratello di Lena.
Una sera (era gennaio: son già quasi due anni!) mi avviavo all'Università Popolare, dopo cena: aveva nevicato tutto il giorno. In piazza Statuto lo spettacolo era stranissimo ed energico. Mucchi di neve venivano ammonticchiati qua e là da uomini neri, i cui volti erano illuminati fortemente da fumiganti torce a vento, piantate in cima a quelli: carretti si caricavano e trascinavano fino alle botole, ove il carico si sprofondava. Mi soffermai a contemplare un istante. Ad un tratto fui colpito da stupore.
Un mingherlino, avvolto in un pastrano assai leggero, con due occhi ardenti sotto un gran cappello a cencio, sollevava a stento le sue palate di neve che gettava sul cumulo: lui! il fratello di Lena.
– Buona sera – disse con la voce tenera e profonda.
– Anche lei qui? – esclamai.
– Come vede! Bisogna lavorare!
Ma le sue mani erano gracili e livide, e le braccia facevano fatica a sollevar la pala.
– Non è lavoro per lei, credo!
– Quando non c'è altro!... Ieri ho guadagnato due lire.– E la sua faccia magra pareva raggiasse di gioia.
Un assistente s'avvicinava. Mi incamminai.
Al mio ritorno egli era là ancora:
– Non viene a casa? È quasi mezzanotte.
– Sì, a momenti.
– Allora, l'attendo.
Era trafelato, col cappello buttato indietro sulla nuca; e la sua gran fronte splendeva alla luce sanguigna delle torce. Intorno a lui il lavoro diveniva più lento, prossimo alla fine, monotono e triste: pareva una fatica interminabile d'una bolgia dantesca.
S'avvicinò l'assistente. Era mezzanotte Aveva un foglio in mano e chiamava ciascuno. Io stavo attento; ad un nome, Cràstino! egli si levò e s'avvicinò a colui.
Si chiamava Cràstino: il mio latino me ne diceva qualcosa: con un nome simile doveva essere un trovatello. Venne a me sfinito e contento:
– Ma perché non cerca un'altra occupazione più adatta per lei? – diss'io. –Dall'aspetto immagino che abbia studiato.
– Appunto! Perciò sono un buono a nulla. Questo è un lavoro che non richiede preparazione. Dovrei avere un buon mestiere, ecco.
– Non potrebbe trovar lavoro in qualche ufficio, come segretario, o in una tipografia, o che so io?
– Ho provato: non si trova nulla.
Io pensavo: avrei cercato io stesso, poi sarei stato ben contento di offrirgli un posto...
– E sua sorella?–osai domandargli.
Egli sospirò profondamente, ma non rispose. Di lì a un momento riprese:
– Tre lire... Nevicherà di nuovo, non è vero?– E guardò il cielo brillante di stelle.
– Non credo – risposi. – Domani è sole; d'altronde è domenica.
– È vero. La domenica dev'esserci il sole, per chi lavora tutta la settimana. Chi sa quando lavorerò di nuovo! Dovrebbe nevicare domani notte, no?
– Se le fa piacere! – e risi anch'io.
– Ci son di quelli che guadagnano uno scudo: l'assistente ti squadra, ti pesa coll'occhio, e ti fa la tara. Io peso poco.
Eravamo giunti al nostro palazzo. Aprimmo: dallo scalone coperto di tappeto, intiepidito dal calorifero, alla scaletta nuda del nostro lubbione, i gradini erano sempre più alti: traversavamo così ogni sera tutte le zone della società: caldo, temperato, freddo: noi eravamo al polo.
In cima della scala io voltavo da una banda e lui dall'altra:
– Viene un momento da me? Sono solo.
E come io esitavo:
– Domani lei non lavora... Chiacchieriamo. Viene?
E mi prese per un braccio. Traversato il corridoio pieno come di ronzii indistinti, entrammo. Era la mia soffitta tal e quale: la medesima disposizione del letto, col capezzale verso la parete maggiore e i piedi verso lo spiovente, poiché la forma del tetto non ne comporta altra. Un angolo era nascosto da una tenda.
– Solo, sì.
E mi guardò in modo che pareva mostrasse una intensa pietà di me: e gli occhi gli si empierono di lacrime. Aggiunse:
– Lei non può dormire?
– Io dormo come un ghiro! Al mattino non mi leverei mai.
– Perché si mette alla finestra tardissimo?
– Oh un momento, per cacciare il puzzo del petrolio, dopo avere scritto o letto per ore intere.
– Ah, studia lei? Ha dei libri?–E i suoi occhi s'illuminarono.
– Moltissimo. Ho una curiosa biblioteca. Sono correttore di bozze alla Società Editrice.
– Perdio! – interruppe egli. – Dunque lei può leggere Spencer, Nietzsche...
– Sicuro! Li posseggo quasi per intero, e molti altri.
– Li ha là, in quella soffitta? – e s'appressò alla finestra come per penetrare laggiù con lo sguardo.
Ma il suo entusiasmo cedette subito S'abbandonò a sedere sul letto, che fece un crepitìo di foglie pigiate: appoggiò il gomito al cuscino e la testa sulla mano, poi riprese colla voce dolce e profonda:
– D'altronde, è inutile studiare. Io so già tutto. Ciascuno sa quello che gli è necessario.
La lucerna gli illuminava la fronte troppo ampia, sotto cui le orbite si approfondivano: gli zigomi prominenti e le mascelle forti contrastavano colla forma della bocca nettamente segnata sotto baffi neri e radi e le labbra avevano increspamenti infantili con una perenne piega dolorosa agli angoli.
La sua affermazione lo fece sorridere col suo sorriso melanconico. Soggiunse:
– E lei non sente che il necessario a sapersi è molto poco?
– Non saprei, caro signore – risposi. – Io ho studiato moltissimo e credo che non cesserò mai di studiare, finché non senta di saperne abbastanza, cioè fino a quando quel poco che conosco sarà unito e compatto. Oh, so bene! Ogni ramo di scienza richiede una vita intera. Io ero pazzo per l'entomologia: ebbene, l'ho piantata perché sentivo che sarei andato al camposanto senza conoscerla interamente.
– Se la sarebbe fatta insegnare dai vermi!
– No, perché mi farò cremare.
– Inutile, amico. Ci sono i microbî che ci fanno vivere e quelli che ci fanno morire. Questi ultimi la vinceranno... E ci sono altri microbî che spazzano anche le nostre spoglie per far posto ai nuovi arrivati.
– Questo l'ho letto anch'io. E dunque vero?
– Verissimo.
– Già: noi siamo colonie. Ogni gruppo di microrganismi ha l'ufficio di mantenere un organo. Una volontà regge tutta questa collettività. Ecco l'uomo!
Rimasi stupito della mia audacia: stupito e insieme felice, come se in quel momento io primo avessi scoperto d'un balzo quella verità.
Egli mi guardò sorridendo di compiacenza:
– Questo non c'entra... Saremo amici, non è vero? – E tosto si oscurò. Mi afferrò la mano, poi la ritrasse subito e si stese sul letto:
– No, la vita è un bene – protestai incoraggiato e quasi petulante. Ero così poco avvezzo a parlare con persone colte di cui non avessi soggezione, che il trovar finalmente uno col quale parlare da pari a pari delle cose che erano divenute tutta la mia vita mi riempiva di entusiasmo e di un'audacia che non sapevo contenere.
– È il solo bene la vita! – affermai con forza. – Tutto il resto non esiste che nella nostra immaginazione: l'abbiamo farneticato perché non sapevamo il valore della vita.
– E questo che esiste nella nostra immaginazione vale molto più che la realtà – egli riprese. – Io vedo un'altra vita e confido in essa... Guardi un po' fuori della finestra. Perché non si mette alla finestra come le altre sere?... Io sono troppo stanco!
Apersi: là dentro era freddo e senz'aria. La notte invece pareva quasi tepida. I tetti bianchi: una distesa interminata di tetti, su cui i camini in fila parevano armenti immobili e candidi. Un augusto mistero splendeva in cielo ove le stelle limpidissime tremolavano.
Egli aveva gli occhi chiusi. Disse:
– Il cielo! Che bellezza! Quando spengo il lume, la finestra par che si apra sull'immenso!
Poi, dopo un po':
– Sa lei che io ho fatto un libro di poesie? Non ha mai letto il mio nome? Io mi chiamo Vigile Cràstino: pare uno pseudonimo. Infatti c'è chi nasce sotto uno pseudonimo... Chi sa qual anima di rivoluzionario mi dette questo nome, affatto fuor di proposito! Perché io non sono né del domani, né dell'oggi. Sono fuor della vita... Sa lei che significa?
– Sì; so un po' di latino. Ma io l'ho sentito chiamar Luigi...
– Infatti Vigi era il mio nome da bimbo, e così mi chiama mia sorella.
Tacque un istante, poi ripigliò:
– Ma per me non c'è né oggi, né domani. C'è l'eternità, cioè un punto, e tutto è contemporaneo: il tempo e lo spazio non sono che apparenze: le variazioni, il numero, gli individui non sono che apparenze. La realtà è l'uno, l'Essere.
– Cosicché lei non vive, e neanch'io...
– Non esistiamo. Ombre... Così non abbiamo colpa e merito di quello che agitiamo nella nostra vita, come non l'abbiamo nel sonno. La vita è un sonno. Ci sveglieremo. Allora io potrò anche abbracciare mia sorella e baciarla in fronte...
– E morta dunque? – interruppi io pieno di stupore. E mi sorse nettamente negli occhi il volto dalle grandi sopracciglia e dalle labbra pallide. Ne sentii come un disagio al cuore.
– No. È nel sonno come noi. Ma il suo sonno è un incubo. Ella soffre fisicamente e moralmente, dolore e onta. Mia sorella!...
Non poté proseguire, la voce divenne stridula, si spense. Indi riprese con un grande sforzo e con voce mutata:
– Mia sorella è una disgraziata!
Pareva che da un sogno di languore fosse piombato in una realtà disgustosa.
Io non seppi che soggiungere. Dopo un po' mi feci coraggio, ma non osai interrogarlo direttamente:
– Dunque pensa lei che non esiste la colpa o il merito. Esiste il perdono: no?
– No, no! Né colpa, né perdono. Quello che deve avvenire avverrà. Perché siam nati noi? Non sappiamo, io e mia sorella, chi ci ha messi al mondo. Un burlone ci chiamò Cràstino, come se ci affidasse una missione e forse una vendetta, di che? e noi siamo perfettamente all'oscuro. Che dobbiamo fare? Intanto mia sorella ha ripetuto quello che ha fatto probabilmente mia madre... Ella è ricoverata alla Maternità...
– Qui? – chiesi io, volgendomi verso di lui e sentendomi afferrare da una gran commozione. – Lei va a trovarla? Domani è festa. Andiamo a trovarla? Posso accompagnarla?
Mi stupii del mio ardire. Avevo quasi il senso di un'intrusione ch'io compiessi, ma mi ci sentivo spinto irresistibilmente.
– Da due settimane non me le feci più vedere... Non so perché. Ho una immensa pietà, ma sento in fondo una specie di rancore. Che obbligo aveva ella verso di me? Io sì, grandissimo, verso di lei. Ella guadagnava da vivere per entrambi. Io sono buono a nulla: non sono un uomo io. Non dovevo nascere: perciò desidero morire!
Tuffò la faccia nel cuscino e io udii come se il suo petto si rompesse. Che fare? Forse il meglio era ch'io lo lasciassi piangere. E avevo un nodo in gola, e i miei occhi dilatati verso la notte si riempivano di lacrime.
– Non aveva confidenza in me. Sono sempre stato fuori della vita. Ero sempre astratto. Ella sentiva forse degl'impulsi prepotenti nel suo corpo robusto. Che ne so io? Uno studente, un commesso, un seduttore di professione, un signore, dice la portinaia... doveva essere bello e ben vestito, che ne so io? Io non l'ho mai veduto, non ho sospettato nulla. Forse chi sa quante volte ella fu in procinto di confidarsi: doveva pesarle il segreto... massime quando lui scomparve senza lasciarle una parola d'addio... Infine non ne poté più. Un giorno credette ch'io le osservassi i fianchi: m'era caduto lo sguardo lì: non sapevo nulla, io!... E ruppe a piangere e mi svelò tutto... Tutto? Cioè nulla. Un giovane... Chi? Dove abita? Nulla. E non lo saprò mai... Ora avrà un figlio... di chi? Lo chiamerà Cràstino anche quello, e così di generazione in generazione, procrastinando...
Lo scherzo orribile mi riscosse. La tirannia delle parole! Gli si era imposta, ed egli aveva dovuto eruttarla per liberarsene. N'ebbi maggior pietà. Mi gli appressai: aveva sulla faccia una smorfia amara... Gli presi una mano e mi sedetti accanto:
– Sei mio amico, hai detto. Diamoci del tu: quassù non si fanno cerimonie. Io non credo che la vita è un sogno. Prima e dopo la vita non c'è nulla per noi, vale a dire per la nostra coscienza che è la nostra memoria e la nostra induzione dal passato al futuro, dico bene? Perciò dobbiamo vivere la vita. Tua sorella ha tentato di vivere... Bene o male? (Perché abbiamo anche quelle parole lì. Ma quelle parole lì non hanno mica il significato che dà loro la portinaia, ad esempio). Io dico: bene. Bene, se ella pensa che ha amato, che fu amata forse un istante, che una nuova vita nasce da lei, affidata alla sua lealtà. Voi non avete che da ricevere questo dono che vi fa la vita, lealmente, ed essere poi leali con essa, con lui, col nuovo essere, quando acquisterà il diritto di sapere chi egli è, dico giusto?
Egli taceva: aveva gli occhi chiusi, pareva dormire, ma il suo respiro era troppo silenzioso: ascoltava.
– Vedi, – continuai.– C'è qui sopra un centinaio di sofferenti e tutti sono estranei l'uno all'altro. Sembrano estranei, e non sono. Io sento pesare su me le loro sofferenze: così essi devono sentir le mie, e nessuno cerca di togliersi di dosso questo malessere. Noi, per esempio, guardavamo le nostre finestre illuminate, ed ecco che un pensiero ci univa, questo solo pensiero: «egli è là». E ci siamo avvicinati: ora la nostra mutua sofferenza non ci pesa più tanto, perché la conosciamo e la dividiamo.
– E tu... soffri?
– Io no, ora. Ma ho sofferto moltissimo in una età in cui non ci dovrebbe essere sofferenza. Ora soffro soltanto del dolore degli altri, ed ho tale desiderio di sollevarlo, che ciò mi diventa un tormento, e non posso scuotermelo se non coll'azione. Cosicché vo pensando ad un'azione ch'io debbo fare, e non la trovo.
– Non sono capace. Le mie idee sono confuse. Potrei scrivere, per esempio, quello che ho detto a te adesso, ma questo serve soltanto per il tuo caso. Io, vedi, avrei bisogno di sistemarmi tutti questi pensieri, di farne un organismo saldo, e darlo agli uomini perché vedano chiaro...
– No: sarebbe una cosa fredda. Gli uomini non vanno innanzi con la luce che apparisce alla ragione, ma col sentimento... Questo non conclude che io ti seguirei. Dovresti far delle conferenze. Ma io non ti credo.
– Conferenze? Ho paura... E poi, un correttore di bozze! È vero che adesso anche gli operai fanno delle conferenze... Socrate diceva: «So di non sapere». Ora io non posso dir questo, ma non posso neanche dire: «So di sapere». Ho udito dei professori di Università i quali non dicevano una sola cosa ch'io non sapessi già, ma la dicevano in modo, come se sapessero molto di più, anzi, come non esistessero più misteri per essi. Io non sono neanche sicuro di quello che so... O meglio, finche non l'ho tirato fuori, non ne sono sicuro. Ma quando l'ho affermato, allora ne sono certo. Per esempio, io credo fermamente a tutto quello che t'ho detto questa notte.
Chiacchierammo così ancora per un po' di tempo, e io venni in tal modo a raccontargli la mia povera storia e lui la sua. Poi andai a dormire, dopo averlo fatto coricare, e copertolo ben bene. Entrato in letto, mi sentivo contento, e mi pareva anche di essere diventato qualche cosa, o almeno di aver riconosciuto una forza dentro di me che stava nascosta prima.