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Giovanni Cena
Gli ammonitori

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-2-

 

Al mattino mi svegliai tardissimo sotto l'impressione d'un sogno affatto fuor di proposito, ma, secondo me, molto bello, sì che potrebbe fornire un ottimo argomento per un dramma. Io non sono capace di concretar nulla, sebbene mi senta nato superiore a tanti altri. Ma è certo che se io fossi stato in condizioni di svolgermi secondo la mia forza interiore armonicamente, e intorno tutto non mi avesse compresso, come un germoglio tra i sassi e gli sterpi... Via! Purché arrivi il tempo in cui tutti i nati dell'uomo siano eguali di fronte alla vita, affinché diventino quello che devono, di per sé stessi. Adesso intanto si nasce malamente: le nostre madri ci foggiano come possono, da povere affamate e sfinite che sono... Le nostre madri! Mia madre!... Basta. Ecco il sogno:

Dunque, piazza Statuto, e la stessa scena della sera innanzi. Le piante coperte di neve, la piramide del Fréjus coll'angelo sospeso nel cielo. Cràstino è , in mezzo al brulichio dei piccoli uomini incappucciati che le torce a vento arrossano di scorcio, e la neve è tutta rosata. Da quanto tempo raspano il selciato e per quanto tempo ancora? Ma il silenzio è stranissimo. La neve soffoca ogni rumore e tutti quei gesti e quell'agitazione senza strepito dànno proprio l'impressione di un sogno senza tempo.

Cràstino è fermo, appoggiato al manico della pala: si prova a fare un gran respiro per sollevarsi il petto: quando una carrozza passa... Un giovinotto è dentro. È lui! Chi? Adesso si ricorda: l'aveva veduto per le scale e non l'aveva mai notato. È lui certo. Un moto fulmineo: il giovane cade dalla carrozza, stramazza, colpito alla testa da un colpo di pala...

Un'agitazione enorme. Un fanciullo di sei o sette anni si lancia alle ginocchia di Cràstino, come per proteggerlo contro la furia dei circostanti. È tutto stranamente silenzioso... Cràstino salta su un cumulo di neve e fa grandi gesti e apre la bocca come volendo gridare. Infatti si sente, ma fiochissimo: «Fratelli, quell'uomo ha fatto morire mia sorella dopo averla resa madre... È morta alla Maternità... morta di parto, perché aveva troppo sofferto... Io e mia sorella siamo trovatelli: suo figlio, eccolo, non ha conosciuto la madre. Eccolo!». Lo prende sulle braccia e lo alza sul suo capo. Allora si leva un tumulto sterminato. La piazza è gremita d'un popolo immenso, bimbi, donne, vecchi. Tutti gridano con grida altissime.

In un momento Crastino è afferrato da due guardie nere, scompare.

Ma il tumulto non cessa. Tutta quella turba si stringe, alza i pugni: tutte le braccia sono levate, tutte le voci vanno al cielo: e un uomo altissimo ha afferrato il fanciullo alla vita e lo solleva colle due braccia al disopra del suo capo:

– Il tuo bimbo, popolo!

 

Destatomi, il tumulto continuava nelle mie orecchie. Ma non era già quello: veniva dal pianerottolo, dalla scala, dal corridoio. Era un vocìo di bimbi e di mamme. C'era il sole. Aprii la finestra e guardai di fronte. Quella di Crastino era chiusa ancora.

Il pianerottolo, in cui il sole scialbo gettava un largo sprazzo, era brulicante di bimbi. Alcuni avevano il grembialino pulito: i più erano laceri e sporchi in viso. Una donna frugava nella selva ispida d'una testa riluttante. Un ragazzo, tutto bianco di gesso, un bicc, muratore, esponeva al sole i suoi piedi escoriati dalla calce e dai geloni. Un carbonaio rigirava la testa sotto il robinetto comune dell'acqua potabile, inzuppandosi d'un sapone dall'odor nauseabondo. Un uomo stava seduto in terra appoggiato al muro, con una faccia ebete e gli occhi proprii degli ubriachi e dei morti, simili ad acini d'uva mezzo crepati: cantava una nenia compassionevole:

Minca 'n crous, Minca 'n crous

Le ninsole son pa nous

E le nous son pa ninsole...1

Spuntò dal basso della scala un cappello color caffè, due spalle curve, e un viso da bulldogg si alzò nel sole a guardar la canaglia. Poi traversò senza badar molto accuratamente dove mettesse i piedi, fra i cenci e le gambette dei bambini, e cominciò a bussare all'uscio del n.1. Era il segretario della casa.

Tutte le domeniche egli faceva il suo giro a riscuotere i fitti del mese: cominciava sorridendo e finiva ruggendo e bestemmiando: spesso, la sera della domenica, il pianerottolo era ingombro dei mobili di qualche inquilino scacciato.

Di a poco sentii vociare e strillare nella soffitta attigua alla mia, n.7. Era la moglie dell'ubriaco: protestava al segretario che non aveva da mangiare, né da sfamare i suoi tre bimbi: uno, il più piccino, strillava nelle sue braccia.

Sul pianerottolo un ragazzo patito, dalla faccia pallida e intelligente, occhi inquieti, gran bocca ed orecchie ad ansa, inginocchiato su un gradino, sporgendo la testa sul balcone, guardava verso quella finestra: doveva essere suo figlio. Una bambina ricciuta, colle guancie flosce e le labbra mocciose, tendeva una manuccia verso di lui e raggiuntolo lo tirava pel piede, piagnucolando: «Notu, Notu!». Notu le diede un calcio e scappò lungo il corridoio.

Il segretario si acquietava con la moglie dell'ubriaco. Ciò continuava da mesi: il segretario finiva sempre con acquietarsi, il che non avveniva con nessun altro inquilino, fuorché con la Salamandra, una ragazza equivoca che era lo zimbello e insieme il castigo dei monelli.

Passata la mia soffitta (io pagavo anticipato al suo ufficio, ogni mese) bussò al n.9. Chi ci abitava? Nelle rare notti in cui non potevo dormire udivo, dopo mezzanotte, scricchiare la chiave nella toppa e due passi pesanti avanzarsi di dal muro e talvolta un piccolo tonfo, come d'un sacco. Nient'altro.

Nessuno rispose alla picchiata, ed egli passò oltre. Quando, di a qualche tempo, mi parve d'intravederlo nella soffitta di Crastino, rimasi un momento ansioso. Ma come si tratteneva più che nelle altre, mi risolvetti di intervenire. Traversai il pianerottolo: «Ciao, tipografo!», mi mormorò l'ubriaco. Le donne mi guardarono con indifferenza. Bussai alla porta:

– Son io. Stanga.

– Avanti!–rispose la voce di Crastino.

Il segretario mi ricevette sorridendo in aria di condiscendenza. Salutai l'amico:

– Hai dormito?

– Sì. La fatica, vedi. Un mestiere... Faticare... non c'è di meglio. Appunto chiedevo al signor segretario se avesse qualcosa da farmi fare...

Il segretario sorrideva tra il furbo e il fatuo. Che mistero, la bruttezza! Colui aveva un naso rintanato nella faccia come se tutta fosse stata dissestata da un pugno; gli occhi sporgevano, le labbra e i denti grossi e gialli si protendevano. Aveva qualcosa di un batrace. Quando rideva era orribile. Un tic all'occhio sinistro lo faceva ammiccare spesso fuor di proposito.

Veda, signor Stangacominciava con la sua pronunzia balbuziente. – Io sono lietissimo di vederli amici, loro due. Il signor Crastino... non può che avvantaggiarsi della compagnia d'un giovane ammodo e pratico come lei! Vede, io sono molto ben disposto verso il signor Crastino. E siccome so in che condizioni si trova, e la disgrazia di sua sorella... vorrei perdonargli la pigione, affinché porti un regaletto a lei...

«Buon cuorepensavo diffidente. Ma l'amico gli porse il denaro con un gesto brusco.

L'altro lo intascò affettando noncuranza.

– A rivederla, signor Stanga. Lei è un giovane assestato. Ci ho una bella camera per lei, al quarto piano, se vuol discendere. Ah, lei è un amico prezioso. Se il Crastino l'avesse conosciuto prima... sua sorella...

– A rivederla – l'interruppi, indovinando dove parava.

– Sì, sì, lei è un giovane... – richiuse l'uscio dietro di sé, mormorando lungo il corridoio.

– L'hai trovato , colui che ti darà un impiego! – esclamai a Crastino. – Non accetterei neanche un bicchier d'acqua! Immagini che possa rendere un servigio a qualcuno?

– È vero, ma a chi vuoi tu che mi rivolga?

Ora vedevo il segretario in un'altra soffitta: era seduto su un letto, immobile, le mani nelle tasche dei calzoni. Una donna giovane, ma colla figura cadente e sciupata, dimenava le braccia davanti a lui, come per respingere qualcosa d'invisibile che le si stringesse intorno. Non udendo le voci traverso quei vetri, mi pareva ch'egli fosse un ragno schifoso che guardasse con cupidigia una mosca dibattersi nella sua tela.

«Trovar cinque lire mensili è dunque sì terribileriflettei.

– Quella è la Salamandradisse Crastino: – credo che paghi più degli altri per poter abitar qui.

«Tre classi della società? pensai. In realtà ce n'è un'altra: la classe di quelli che non mangiano, non pagano pigione, muoiono continuamente, fino allo strappo definitivo che li stacca dalla vita... ».

E continuai ad alta voce:

Senti. Io guadagno quattro lire al giorno: non ho nulla che fare con costoro, ma ne sono sì vicino, che ne soffro come se fossi dei loro. Ora, metà del mio salario può essere impiegato a beneficio di quelli che non ne hanno alcuno. Come fare?

– Non giova, caro mio – rispos'egli naturalmente come se avesse seguito da principio le mie riflessioni: – il tuo danaro servirebbe forse a impedire a un povero diavolo di sloggiare, da un momento all'altro, dalla soffitta e dal mondo, ma le cose rimarrebbero allo stesso punto. Soltanto lascerebbe a te l'illusione di aver fatto la tua parte, di crederti sdebitato verso gli altri...

– È vero. Ma il danaro può far due cose, questa che tu dici, poi un'altra: diffondere la verità, la scienza, la scienza che dice: «Ecco, tu, ricco, non sei felice: ti stordisci e chiami questo la gioia: pròvati a guardar in te stesso: ci troverai tanti cantucci inesplorati, tante fibre che ti dànno dolore: perché? Sono le fibre che ti legano agli altri, agli altri che soffrono: ed esse soffrono. Per farle tacere, per sanarle, bisogna sanare il dolore altrui». Allora si capirà che la felicità consiste nella giustizia, cioè nella tua rinunzia libera a qualcosa, che è necessario per il tuo vicino. L'equilibrio, l'armonia è la felicità...

– Fai delle conferenze, Stanga! Tutto questo è buono, ma è lungo! Sarà per il secolo venturo. Per ora, ecco... Sei nato? Colpa tua! Paga il fitto dell'esistenza. Né in terra né in aria c'è posto per le tue quattr'ossa. Paga! Non hai soldi? Ingègnati!... Ah! Sei un utopista, come me, caro amico.

– Hai ragione. Ti annoio.

– No, no: al contrario. Come ti ammiro! Dovevi farti prete. Cioè, tu sei uno dei preti nuovi, della religione nuova...

Fu interrotto da due colpi rapidi alla porta.

– Avanti! – rispose egli, avvicinandosi curioso all'uscio.

Rimanemmo entrambi interdetti. Era una signorina sorridente, rosea, coi capelli lisci, a bande, fino agli angoli degli occhi.

– Oh, lei qui! – disse ella appena mi scorse. – Lei è il correttore della Società Editrice...

– Sì, signorina. Io la conosco... Vedi, – aggiunsi rivolgendomi premuroso a Crastino, e sentendo che arrossivo fino alle orecchie – la signorina dottoressa...

– Non importa, m'interruppe ella con un gesto... E lei è il signor Crastino? – disse all'amico. – Io conosco sua sorella, le voglio molto bene. Oggi lei doveva venire a vederla?

Il volto di Crastino si oscurò:

C'è qualche pericolo? Le fanno l'operazione? – proruppe con ansia.

– No, nulla per ora. Ma il medico la tiene in osservazione: non vuol che abbia nessun motivo di commuoversi, vuol che si riposi, perché l'operazione è imminente. Sua sorella è molto estenuata e... potrebbe esser grave...

Crastino si sedette sul letto e si strinse la fronte tra le mani.

Ci fu un momento di silenzio lungo.

– Lei va in tipografia domani? – mi chiese la signorina. – Io devo passarciaggiunse guardandomi con intenzione.

Ebbi un brivido.

Signor Crastino!–cominciò la dottoressa con la sua voce infantile. Tutta la sua persona era infantile. Pareva che non dovesse aver coscienza affatto della gravità di quel che mi aveva fatto indovinare. – Signor Crastino! – e gli pose la mano sugli occhi, una manina di bimba. – Si faccia coraggio. Domani lei verrà a vederla: ci sarò anch'io. Io voglio bene a lei, signor Crastino. Ho letto le sue poesie e le ammiro. Lei può far molto: è giovane: ha un bel dono che è dato a pochi, e deve tenerne buon conto... Domani lei può venire verso le due del pomeriggio. Verrà anche lei, signoredisse rivolgendosi a me.

Parlava in fretta, di séguito, premurosa di andarsene.

Io sentivo un tremore interno. Volevo raffigurarmi la sorella di Crastino fra le mura bianche d'un ospedale. Pareva invece che mi si delineasse una figura tante volte veduta, non guardata, lungo i ripiani delle scale, negli sfondi dei corridoi. Il volto dalle grandi sopracciglia e dalle labbra pallide dominava ora una personcina smilza vestita di grigio. Tutta la figura emergeva ora nella mia memoria.

Crastino s'era acquietato e la guardava con gli occhi atoni, come attendesse ad altro: ella ne pareva preoccupata e lo esaminava, mentre proseguiva, come per rompere la dolorosa impressione ch'ella ci aveva portata:

– Io conosco queste soffitte. Ho fatto una statistica sulle abitazioni operaie, l'anno scorso: poi parecchi di questi bimbi vengono al Pane quotidiano.

Veramente queste non sono abitazioni operaie, signorinaaggiunsi io prontamente, arrossendo di nuovo e molestato dalla mia timidità. – Sono nidi da gufi per gente che non lavora e non mangia. Su cento inquilini o poco meno, venti soli lavorano: gli altri succhiano il sangue di questi: le mogli e i figli. E le famiglie dove l'uomo non lavora e si ubriaca, o è assente, o è morto, mangiano la neve dei tetti, ché non hanno altro... Solo io e Cimisin siamo senza famiglia... e Crastino pel momento...

Questi si mosse udendo il suo nome: mi guardò con un profondo scoramento, e vòlto verso la signorina, forse per una specie di rancore, vedendola tutta un mite sorriso, un mite fiore di giardino al sole, mormorò fra i denti:

– La vita è un cosa orribile.

– Sì – diss'ella semplicemente. – Bisogna mutarla!

– Bisogna...

E le braccia di lui si levarono rigide in atto di violenza... Ma si rilassarono subito. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

– Bisogna finirla! Ed appoggiò un braccio al muro e vi premè la testa singhiozzando.

Povero fanciullo! – disse ella con voce commossa e cantante, chinandosi a guardare dei libri logori su un cassettone. – Povero fanciullo, che è nato per cantare e per far della musica come gli usignuoli, nato per godere il sole e gli alberi fioriti della primavera, nato per sentirsi padrone dell'aria e del giorno, e rinchiuso qui colle ali legate. Povero fanciullo!

La voce era tenerissima e pareva cantare per non spezzarsi d'emozione; e le sue mani e i suoi occhi passavano da libro a libro, come se non sostenesse di guardare e di essere guardata. Anch'io sentivo una strana soggezione. Sentivo qualcosa di vibrante sospeso nell'aria fra noi. E non mi pareva d'essere estraneo fra lor due, fra l'addolorato e la consolatrice, che non mi sembravano più due individui, ma da una parte l'uomo che si crede re della vita e se ne sente lo zimbello, e la donna dall'altra, che vede la vita qual'è, frenando gli slanci imprudenti, sollevando gli abbattimenti, immagine della vita stessa, che è buona.

E con un tono di risoluzione:

– Su, infine... Non siate tanto debole. Domani verrete da vostra sorella. Addio. Datemi la mano, su...

Gli prese la mano e la strinse, poi si volse per partire.

– L'accompagno fin sulla strada? – chiesi io in fretta.

– No. Ci sono avvezza. Resti... A rivederlaaggiunse guardandomi.

Rinchiusi l'uscio. Crastino s'era seduto sul letto e aveva la faccia nel cuscino. Io guardai dalla finestra. Sul pianerottolo un vocìo: «Signorina Lavriano, signorina Lavriano!». Il ragazzo dalle orecchie ad ansa le correva dietro zoppicando.

– A proposito. Sai chi è? – dissi a Crastino. – E la figlia del grande psicologo, la dottoressa Eva Lavriano.

Egli non si mosse, come se non avesse inteso. Io ascoltai le voci scendere dietro la signorina. Comparve in basso, traversò il cortile seguìta da un nugolo di bimbi. Un fiore di sole. E pensai che la donna sanerà la società inferma.

 




1 Cantilena piemontese






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