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Giovanni Cena
Gli ammonitori

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-3-

 

Il giorno dopo, seduto nel gabbiotto dei correttori, lavoravo distratto. Nulla di peggio! I refusi passano davanti agli occhi lungo le linee fitte. Che tormento i refusi! Io li sogno di notte. Nel principio dell'assopimento i caratteri, nitidi sul bianco, mi scorrono dinanzi, con lo stesso moto irresistibile di un viale d'alberi o d'una serie di solchi interminabili davanti allo sportello d'un vagone, che vi porta fatalmente, senza che la vostra volontà possa farlo rallentare o sostare. Quando si scorrono bozze, l'occhio e perfino la testa intorno al collo prendono un moto regolare automatico: mentre infilzate un refuso sul margine bianco, l'occhio e il capo continuano il loro moto di pendolo e arrestarlo è quasi un dolore fisico, un urto al cervello.

Per correggere bisogna essere tutt'occhio: la mente deve eclissarsi: se pensate al senso intimo del periodo, i soldatini di piombo vi sfuggono affatto o vi nascondono una parte del loro uniforme vecchio o rotto o irregolare. Talvolta un soldato d'un altro corpo s'è intruso fra estranei, un corazziere tra bersaglieri. (Immagini tolte al militarismo. Ne ho rimorso).

Bisogna passare in rassegna i caratteri come individui a sé. E certi esseri invisibili anche i vuoti, cioè. Bianchi tra nero e nero, sono entità di cui bisogna tener conto, punti e interlinee. Ma io faccio un trattato...

Fatto sta, nondimeno, che i profani a stento riescono a capire da qual pesante lavoro materiale risulti il leggero foglio su cui gli occhi afferrano, come a volo, le più delicate sfumature di sentimenti e le idee eteree. Innumerevoli e minuscoli prismi di piombo accostati ad uno ad uno formano le pagine: una pagina pesa d'ordinario... da un chilo in su: un giumento non porterebbe sulla groppa un volumetto di vaporosi versi elzeviriani.

Io diventai un pessimissimo correttore. Leggevo: cercavo inconsciamente di capire, e se il testo mi prendeva la mano, andavo innanzi, deponevo la penna e lasciavo che gli errori facessero il comodo loro, facessero gazzarra, sfacciatamente: sicché mi toccava riprendere poi da capo, afferrando ben bene la mia attenzione, dividendola cioè in due, ardua faccenda, una parte costringendo a badar a' segni neri, l'altra facendo tacere il più possibile.

Quella mattina ero più distratto del solito. Guardavo spesso verso la porta, e chinando la testa sulle prove, vedevo ad ogni momento l'immagine della sorridente, di quel vivente sorriso, che entrava e guardava verso la gabbia nel canto, ov'era scritto in grande: Correttori.

Ed ecco appunto, di a poco, entrare la signorina, dire una parola ad un ragazzo e guardare verso il nostro angolo, volgendomi un saluto, mentre il ragazzo giungeva a me col messaggio.

– La signorina Lavriano la desidera un momento.

Mi mossi col batticuore.

I compositori avevano vòlto la testa dalle loro casse a ricevere quel sorriso che raggiava dal vano della porta sotto la gran volta vetrata, fumicosa e buia. Era vietato di entrare, ma ella spesso con la sua imperturbabile tranquillità si affacciava all'uscio e talvolta traversava le corsìe, andava fino alle macchine o alla legatoria per parlare con qualche ragazza. Il direttore sorrideva anch'egli, non senza un'occhiata di rimprovero verso quella gentil distrazione che attirava tutti gli sguardi per un momento e li rallegrava.

Mi trasse nel gabinetto del direttore e mi disse, con un moto di tristezza subitanea che la fece somigliare ad una bimba che stesse per dare in pianto:

La signorina Crastino, sa? è in condizioni disperate. Questione di giorni.

Una fitta al cuore. Rimasi accasciato.

– Perciò è necessarioriprese – di preparare fin da oggi il fratello, e prima ancora che egli la veda, alla possibilità della sua morte. Perché la sorella, che sa di morire, è capace di dirglielo d'un colpo, e ciò gli potrebbe far molto male. Mio padre lo crede un po' debole di cervello e magari epilettico... Lei non conosce le poesie del francese Verlaine? C'è molta affinità fra i due temperamenti, salvo i costumi e l'incoerenza. Crastino è un debole, condannato probabilmente ad una malattia progressiva di esaurimento. Un'emozione forte potrebbe essergli fatale.

Io era fortemente colpito da quelle rivelazioni. Ella aveva ripreso la sua serenità. La miseria, la malattia, la morte eran divenute il suo ambiente ordinario, la sua atmosfera, perché ella vi si movesse con una tale calma? Parlava tenendo le mani incrociate sul grembo come una bimba che voglia darsi l'aria di donnina, ma spesso le sue mani scappavano a toccare un oggetto sul tavolo, a brandire un tagliacarte, una penna. Com'io la esaminavo con evidente curiosità, mista d'ammirazione, ella restava qualche istante leggermente interdetta, poi sorrideva.

– E di lui che avverrà dopo la morte della sorella? – ripresi io. – Non si potrà già nascondergliela per molto tempo... E il bambino? Non potremo mica affidare un bambino a questo fanciullo...

– Il bambino è mortointerruppe ella – fortunatamente. Un disgraziato di meno. Quanto a lui, ci penseremo. Ne ho già parlato a mio padre: chi sa, nell'insegnamento o in un ufficio d'Opera pia...

– Forse è incapace d'una qualsiasi occupazione continuata. Conosce lei la sua infanzia?

E le raccontai in breve quello che avevo udito da lui qualche giorno prima. Dalla Casa dell'Infanzia Abbandonata, la Ca' Granda, i due orfani erano passati ad un Orfanotrofio, sempre tenuti con molto riguardo. Poi una donna li aveva ritirati e aveva provveduto loro fino alla sua morte, avvenuta due anni prima. Ella viveva agiatamente, faceva dar lezioni ai bimbi, creduti suoi figli; ma alla sua morte non aveva lasciato nulla affatto. Con la vendita dei mobili, gli orfani avevano vissuto un anno. Poi la Lena s'era messa a lavorar di ricamo e di cucito, il che le rendeva qualcosa. Avevano continuato così altri due anni.

– Quanto alla loro nascita non sanno nulla essi?

– Nulla affatto: la donna pare avesse detto che il figlio doveva la vita ad un alto personaggio morto or sono pochi anni, che bazzicava sovente in via San Donato. Favole!

– Ah! – fece lei. – Può darsi. Quel sobborgo era molto di moda, anni fa...–E i suoi occhi ebbero una punta d'ira.

Tacque un momento, come riflettendo, poi depose il tagliacarte che aveva stretto nervosamente, e si levò con un piccolo scatto. In quel punto il mezzogiorno era scoccato. Ella rimase tacita un istante, come ascoltando piena di stupore.

Io sorrisi. Allo scocco del mezzodì le macchine s'arrestano come per incanto e il silenzio che ne segue reca un breve intontimento anche ai più assuefatti.

E subito nel corridoio un rimescolìo di voci e di passi. Donne e uomini, giovani in gran parte, vi si ingolfarono e ciascuno dava una occhiata curiosa per la porta aperta.

Ella mi porse la mano.

– Verrà anche lei oggi? Vada a pigliarlo a casa, non lo abbandoni in questi giorni.

– Non dubiti, signorina.

E si inoltrò nella folla.

Afferrai le mie bozze e corsi verso casa.

Ingollando prestamente un boccon di colazione, non riuscivo a fissar la mente sulle pagine che tenevo innanzi, secondo il mio uso di intrattenermi con qualche libro o giornale durante l'antipatica faccenda di rifornire la macchina... Mi preoccupava il pensiero del povero amico, e sopratutto l'immagine della sorella. Che cosa aveva pensato di me quando l'avevo rasentata, chi sa quante volte, salendo o scendendo le scale a salti come facevo, rincantucciata su un pianerottolo ad aspettar che passasse la valanga de' miei passi giganti? Dovevo sembrare uno strano animale, un di quei ragni magri del granturco, d'autunno.

Fatto è che ora mi pareva di averla veduta durante anni ed anni: mi pareva che anche allora, qualcosa fosse entrato in me, forse soltanto un alito della sua atmosfera. Non è così? Ognuno di noi ha intorno un'atmosfera propria, come le stelle...

Quando bussai al n.30, Crastino attese un momento prima d'aprirmi, non senza cagionarmi ansietà: aveva la faccia stanchissima e pallida e gli occhi rossi. Gli chiesi se aveva mangiato. Mi rispose:

Credo.

Non potei far a meno di sorridere. Avevo portato meco due ova crude e lo pregai di berle, il che fece docilmente e con indifferenza.

Andiamo? – dissi.

– Come vuoi. È già tempo?

E si guardò in un pezzo di specchio sostenuto sul muro da tre chiodi: si dette un colpo ai capelli colla mano:

– Come sono pallido! Sono mortuario...

– Perché non sai farti coraggio. Bella faccia che porti dinanzi a tua sorella!

Afferrai la spazzola e gli pulii il pastrano pieno di polvere: gli porsi il cappello. Egli si rigirava intorno come se dovesse cercar molte cose da portar seco. Prese un libro e fece per uscire. Poi si rivolse e alzò la tenda: c'erano alcune sottane appese al muro e un lettino ripiegato: mise le mani in un piccolo baule: brancicò non so che:

– Non avrà bisogno di qualcosa? Che devo portarle delle cose sue, qui?

Io lo afferrai per un braccio e lo spinsi fuori. I corridoi erano deserti e silenziosi. A un tratto scoppiò un pianto fortissimo di donna. Mi volsi indietro: tutti gli usci erano chiusi: doveva venir dal fondo.

– È la Biondina del 40 – disse Crastino. – Le è morto il bambino iersera: lei è a letto, assistita dalla moglie dell'ubriaco, e il bimbo nella culletta: un'ora fa dormivano tutti e due; sì, pareva che dormissero tutti e due. Va' a vederla.

Mi ricordai. Era l'inquilina dell'ultima soffitta, una cantarina bionda di I7 anni, sarta; sul rullìo della macchina a cucire la sua voce instancabile finiva per dar noia a chi dovea sentirla a lungo: a me che ben di rado tornavo a casa durante la giornata, faceva l'effetto d'uno sprazzo di sole. Un giorno la ragazza aveva messo al mondo un bimbo: di chi? Nessuno lo sapeva. Lo portava in braccio, seminudo, per tutta la casa, continuamente: entrambi con una faccia tondeggiante, bianca e rosa, ella pareva la sorella maggiore del suo bimbo. Una signora del piano inferiore, che aveva avuto, pochi giorni dopo, una bambina troppo affamata, la mandava sopra a finir di pascere, e io avevo veduto una volta la ragazza con due batuffoli rosei in braccio, baloccandosi: doveva divertirsi un mondo.

– Non abbiamo tempodissi a Crastino. – Povera ragazza! Ma d'altra parte non è meglio così? per lei no, forse, ma per il bimbo...

Scendemmo. Il fischiettio di Cimisin trillava a tutt'andare al battito del martello. Ai pianti di donna e alle bestemmie degli ubriachi, da tanti anni, l'allegria di quel pazzo innocuo si mescolava senza riposo.

 

Non ricordo molto di quella visita. Ricordo un viso bianco, capelli neri umidi e appiccicati alle tempie: le fattezze parevano di marmo. A un certo momento sotto le grandi sopracciglia nerissime i grandi occhi s'aprirono e le labbra bianche sorrisero. Quegli occhi! Io guardavo in essi per la prima volta, ma li avevo veduti e li ricordavo. Essi m'avevano guardato certo ed erano entrati in me. Così li vidi sempre di poi, così mi sorgono ora dinanzi in un volto d'alabastro, come trasparente per un lume nascosto. Disse qualche parola, fiochissima; era così stanca! Ma gli occhi erano profondi, intensi, volevano significare quello che non potevano dire le labbra: passavano da Vigi a me, come se volessero intessere fra noi una misteriosa trama che ci unisse per sempre.

Intorno erano altri letti bianchi, altre teste esangui, altri occhi che ci guardavano. E il sole era stranamente pallido e dolce in quell'aria immobile e tepida.

La dottoressa venne per condurci via. Si sedette un momento, prese la mano dell'inferma e cominciò a parlare, come per cullarla, con parole carezzevoli, le parole dell'illusione per la moribonda e per il povero fratello, che non si sarebbero veduti mai più.

Poi ci guidò fino alla porta. In tutto quel tempo Crastino rimase stranamente calmo.




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