Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Tornammo che i fanali erano già accesi. Lo condussi alle Cucine, presso casa; entrava per la prima volta in un ambiente simile. Sedemmo ad un posto libero.
Il luogo era pieno di strepito e d'un vapore nauseabondo. Io mangiai, secondo l'abitudine, in gran fretta e macchinalmente: l'amico provò a trangugiare qualche boccone, ma la gola gli si chiudeva e gli occhi gli s'empievano di lacrime. Alla sua destra un grosso uomo appoggiava al tavolo due enormi braccia che sostenevano un testone bovino; egli metteva in moto due grandi ganasce. In faccia a questo, la Salamandra mangiava svogliata, versandosi di frequente un vino nero e denso; gettandogli qualche parola e voltandosi a sorridere intorno con aria di civetteria.
– Non sei mai venuto qui? – domandai a Crastino.
– No. Mi fa nausea.
– Ma si paga poco. D'altronde potresti mandar a prenderti da mangiare per mezzo d'un ragazzo.
Volevo così insegnargli a vivere da solo.
Lo accompagnai fino alla sua stanza e gli diedi la buona notte.
Seduto al mio tavolo, sotto la lampada a petrolio che aveva assistito alle mie veglie sui còmpiti di scuola, alle mie lotte contro i refusi, alle mie divagazioni fantastiche sopra i periodi che più afferravano la mia intelligenza, mi provai a figgere gli occhi sul Wundt che avevo portato dalla tipografia. E tosto l'immagine di Lena mi si affacciò: mi guardava con gli occhi supplichevoli, quasi imperativi: mi pareva che m'imponesse con una dolce forza il pensiero costante che aveva animato la sua vita per quello strano fanciullo che da due giorni mi era divenuto fratello. Un passo pesante nel corridoio, accompagnato da urti contro le pareti e da spergiuri, interruppe le mie riflessioni: l'ubriaco aveva fatto il lunedì. Un uscio s'aperse; poi un tonfo, e non sentii più nulla: quella sera non avrebbe più avuto la forza di picchiare la moglie...
Ripresi a scorrere le mie bozze; inutilmente. Non potevo fermare la mia attenzione; forse d'ora innanzi queste cose, l'ufficio, la scuola, i libri, non mi avrebbero mai più interessato come prima: alcun che di estraneo era subitamente penetrato in me e faceva sì ch'io non mi sentissi più come prima affatto libero e solo. Ne avevo a tratti una punta di malessere che mi pareva fosse puramente immaginario; in fondo non avrei affatto desiderato che non fosse avvenuto così. Ad un certo momento mi domandai: «Ma che faccio io nella vita?» Fino a quel punto dunque io non mi ero ancora accorto di me stesso, perché non guardavo che me e nessun altro: non avevo termini di paragone. Che facevo io? Lavoravo, cioè vendevo la mia opera ad un padrone, estranei l'uno all'altro. Fortunatamente, non amando il padrone o i padroni, che non conoscevo, né il salario se non come una necessità, amavo invece il mio lavoro e avevo un ideale di me stesso a cui il mio lavoro poteva condurmi. E d'intorno a me? Correttori, compositori, macchinisti, entravano, uscivano, vendevano mente e mano a ore e a tariffa fissa. Nessun amore al loro lavoro, cioè alla loro vita, e nessun ideale.
Ciascuno vedeva di continuo uscir dalle sue mani per sempre e anonima la fatica di un'ora, un frammento, e nessuno poteva dir mai di qualche cosa: «Quello l'ho fatto io!» Che cosa resterà loro alla fin della vita a provare che hanno vissuto? Non hanno vissuto: questa è la verità.
O forse in quella uniformità d'azione, estraneo, lontano dal monotono affaticarsi che li esaurisce, qualcosa esiste, sorride, splende? Qualcuno ha un piccolo usignuolo che gli canta in cuore mentre le sue mani s'insudiciano attorno alle ruote? E qui, intorno, in queste celle tra di prigione e di chiostro, qualcuno di quelli che tornano ogni sera abbrutiti dallo sforzo della giornata, si assopisce in un sogno sereno e un ritornello di canzone suona al ritmo del suo respiro?
Guardai intorno la mia soffitta: non era più sì fredda, sì nuda. La lampada diffondeva in essa una luce calma, dorata, che pareva quasi sottilmente intepidire l'aria. O era il senso d'una presenza invisibile? Appoggiai la testa su ambe le mani e chiusi gli occhi: traverso le palpebre la luce mi riempiva le pupille d'uno splendore marmoreo. Rimasi a lungo così, quasi ascoltando il brusìo nelle mie vene d'un tepore nuovo e vibrante. La finestra dietro il paralume era tutta azzurra. La neve era azzurra, il cielo quasi nero seminato di stelle. Apersi. Anche la finestra di fronte era aperta e una figura v'era in mezzo, china sui gomiti. Non mi meravigliò: non mi pareva infatti testè quasi d'essermi sentito chiamare?
Che avveniva in quella gran sala bianca, lontano? Rabbrividii.
Ma un'altra finestra laggiù nell'angolo, l'ultima, era illuminata: vi si vedevano due candele, e un gemito uguale ne usciva, tranquillo come se perdurasse nel sonno. Un'ombra di donna anche vi si moveva, alcuno vegliava il morticino, forse la moglie dell'ubriaco... Il silenzio era infinito. Le stelle palpitavano, il cielo non pareva una vòlta cupa, ma lo spazio senza limite in cui stavano sospese nel loro moto impercettibile quelle vite luminose. In terra tutto era bianco: tetti senza fine, e in fondo il profilo delle Alpi: esse parevano inerti e morte. La vita era qui, intorno a me, su queste altezze tese verso il cielo: la vita e la morte.
Lungo le scale un passo saliva e una luce si proiettò sul pianerottolo, scomparve nel corridoio. Dopo un po', lo sentii tornare, più pesante e cauto; vidi vacillare su la parete lungo la scala il profilo d'un uomo con in spalla un oggetto oblungo: discendeva. Nella soffitta d'angolo le candele si mossero, l'ombra della donna si disegnò un momento sui vetri; poi si spensero. Il gemito continuava uguale nel sonno.
– Crastino! – chiesi verso la finestra dirimpetto, pianissimo, come temendo di svegliare quel gemito. Egli si mosse, accennò con la mano alla finestra ora buia e si ritrasse.
Tre giorni dopo fui chiamato nella sala d'ingresso della tipografia. Mi attendeva un signore alto, biondo, che avevo già veduto nel laboratorio, il dottor Semmi. Infatti egli rivedeva delle bozze. Riconobbi il primo foglio di un'opera che passava ora sotto le mie mani.
– Senta – incominciò egli guardandomi con due occhi azzurro-chiari. – La dottoressa Lavriano m'incarica di informarla che la sorella del suo amico è morta iersera...
Quantunque fossi preparato alla notizia, ne rimasi costernato; egli lo vide e i suoi occhi tranquilli si velarono leggermente:
– La dottoressa è andata stamani a trovare il suo amico: intanto vuol ch'io avverta lei, perché l'assista questa notte, che può essere terribile per il giovane, un po' ammalato, a quanto mi si dice...
Io non seppi rispondere parola. Egli proseguì:
– È morta d'emorragia. Se fosse venuta all'ospizio subito... Invece ha creduto poter superare la crisi da sola. Quando ce l'ha portata la dottoressa Lavriano, era già tardi; aveva già dei guasti interni cui non si poté rimediare...
Diede un'occhiata alle sue bozze, poi si decise a posar la penna e volgendosi tutto a me, mi chiese:
– Oh, un bravo giovine!–m'affrettai a rispondere. – Probabilmente non ha saputo nulla di nulla. È un poeta. Ha scritto Tenebre...
– La rimproverava, che lei sappia?
– Non credo. Soltanto, ella doveva averne soggezione, da quel che posso immaginarmi. Doveva poi temere enormemente di addolorarlo. Credo che gli facesse un po' da madre...
– Ah, le parti s'erano invertite! Lui, certo non sapeva proteggerla. Lì sta il male.
– Non posso giudicarne. Ad ogni modo, tutti gli uomini sono colpevoli in complesso, se non della morte dei neonati (quelli, pazienza!), certo della morte delle madri; non sono soltanto indirettamente responsabili... Ora lei legge il mio libro? La signorina mi dice che lei ha studiato molto di questioni sociali.
– Io? – protestai confuso, sentendomi arrossire. – Io non ho studiato che le bozze che vo correggendo da dieci anni.
– Bene! Mi dicono che dà dei punti agli autori, qualche volta. – E sorrise della mia confusione: nei suoi occhi brillava un'ironìa benevola che non mi cagionava disagio. In quel momento il sole che entrava dalla finestra l'aveva raggiunto sulla sedia e illuminava la sua bella testa bionda, dall'alta fronte calva, dai baffi radi spioventi, traverso i quali i denti brillavano nel sorriso simpatico. Aveva qualcosa del sognatore e dell'apostolo; e subito sentii per lui un segreto moto di simpatia.
Egli si trasse indietro dal sole e riprese la penna, ma tosto la depose per porgermi la mano. Io la strinsi e tornai al mio gabbiotto.
Il seguito delle sue bozze che avevo dinanzi (L'allevamento dell'Uomo) diceva:
«Il dovere primo e assoluto d'una società civile è di favorire e sorvegliare le nascite. Tutti gli altri momenti della vita umana sono secondari vicino a questo, e in essi l'individuo può in diverso grado provvedere a se stesso: qui due vite sono in pericolo e l'una, la più indifesa, comincia appena, e guai se comincia male!
«Invece oggi la nascita è lasciata al caso. La procreazione, ch'è in fondo il solo fine visibile della vita, viene dall'uomo considerata come la spiacevole conseguenza d'un atto di piacere egoistico, dalla donna ora una sofferenza senza compenso, ora una condanna, una diminuzione del suo essere, tutt'al più una funzione semplicemente animale.
«Una gran parte di coloro che sentono in sé inquietudine, squilibrio fisico, difetti od eccessi, germi di male, di pazzia, di delitto, possono rintracciarne la causa nella nascita. Chi ne ha la colpa? Di rado la madre, spesso il padre, sempre la società...».
Quando fui libero dal mio lavoro m'affrettai verso casa. Crastino, nel suo letto, aveva un febbrone. Delirava. Minca, la moglie dell'ubriaco, lo assisteva, colla sua faccia patita e la persona lunga e magra: gli umettava le labbra ardenti e cercava di farlo rimanere quieto e coperto. Non mi riconobbe, e rimasi lunghe ore accanto al letto, mezzo intorpidito e colla testa ondeggiante e vuota.
La febbre durò sei giorni. Il medico era inquieto e la dottoressa, che venne più volte, temette seriamente che il cervello gli si sconvolgesse. Era divenuto spaventosamente arido e secco. Un giorno scorsi così nitida la forma del teschio sotto la sua barba rada che n'ebbi un istantaneo ribrezzo.
Nondimeno si risollevò lentamente. Pareva che si fosse dimenticato d'ogni cosa e una dolce convalescenza mi fece apparire il mio povero amico come un fanciullo nuovo e ingenuo, ignaro d'ogni dolore, anche privo d'ogni pensiero, come una pianta, un semplice essere di senso.
Poi si ricordò, a sprazzi, del passato; ma con lieve dolore. L'attività del suo cervello ridestatosi all'improvviso con un vigor nuovo, lo elevava subito, dai singoli casi, alle considerazioni generali della vita: essendo stato sì vicino alla morte, diceva egli, non si contava più fra i vivi e i sofferenti, pensava agli altri che soffrivano e immaginava come avrebbero potuto non soffrire, trovando ciò, infine, molto facile, tanto viveva nell'astratto.
Io lo vedevo due volte al giorno. Era debolissimo, talché ci volle più d'un mese, prima ch'io potessi condurlo a fare qualche passo all'aperto.
A mano a mano che la primavera coloriva la terra e l'aria, vedevo il volto dell'amico animarsi, illuminarsi.
Passammo così alcuni mesi in una intimità ineffabile: io amai quel ragazzo di genio come avrei amato una creatura mia, la mia donna o mio figlio. La bellezza di quell'essere, che sorpassava la mia facoltà d'ammirazione, che mi riempiva spesso di stupore e di riverenza, come dinanzi a un mistero che si manifestasse in lui, mi affascinava. La figura divina ch'egli appariva, quando i suoi occhi contemplavano certi spettacoli eterni di natura o d'umanità, non mi uscirà più dalla mente.
Mi condusse a visitare le gallerie, ove mi colpì la sua dottrina e la sua ammirazione ragionata e istintiva dei capolavori. Lo incantava il museo egiziano, ov'egli passava ore intere a sognare in presenza delle mummie e dei resti così viventi e strani di quel popolo misterioso. Diceva che gli Egiziani dovevano somigliare ai grandi uccelli e ai grandi fiori delle acque, creature sospese su una linea d'orizzonte, e sopra, il cielo infinito, e sotto, lo specchio del cielo infinito: null'altro che cielo: perciò furono astronomi e matematici, e probabilmente musici...
Ma la natura vivente aveva potere di trasfigurarlo. Dinanzi al paesaggio dilatava gli occhi che diventavano luminosi come se concentrassero in sé quei colori e quella luce. Guardavamo così, al tramonto, il cielo grande che si continuava dentro lo specchio del Po, chiuso dalle masse dei pioppi. In principio gli sfuggiva qualche monosillabo: ero ancora presente a lui. Poi mi dimenticava affatto: drizzava le sue spalle gracili, ergeva il petto come per levarsi un'oppressione e respirava a larghi sorsi: non tornava a me che all'annerirsi delle forme, per ripetermi con rare frasi, tirate fuori a stento, le sue solite tristezze, la sua inettitudine ad un'opera grande, la morte che lo chiamava con voce sempre più insistente.
Le piccole agitazioni degli uomini lo toccavano talvolta prontamente e vivacemente. Egli gironzolava per la città, ruminando di continuo i suoi pensieri o «connettendo a musaico», com'egli diceva, qualche sonetto. I moti soliti dei passanti non lo distraevano punto: ma ogni più minuto incidente insolito lo richiamava; e come usciva da un mondo di sogni, la cosa prendeva un senso profondo e gli dava subito cagione di risalire a idee generali o a visioni d'umanità che lo prendevano alla gola; uso sempre, sciupandolo, il suo modo d'esprimersi. Ricordo che, avendolo incontrato una domenica in corso Vittorio tutto in preda a' suoi pensieri, non mi peritai di distrarnelo, salutandolo e accompagnandomi con lui. Ma pareva ch'egli durasse fatica a mantenersi meco nel mondo reale. Ad un tratto una fanfara sbocca da un angolo di via e parecchie squadre di ragazzi marciano dietro di essa.
I primi gonfiavano le gote rosse sulle loro trombe con un misto di letizia e di baldanza: gli altri marciavano serii, ma baldi e lieti anch'essi, come compresi della loro azione, che era di solidarietà e di armonia, di fiducia verso l'avvenire. Egli li guardò passare con gli occhi lucidi, attentissimo, li seguì a lungo con lo sguardo: poi lo prese l'affanno, aprì la bocca a respirar forte per non piangere, singhiozzò due o tre volte, indi si acquetò. Di lì a un momento: – Vedi? Disse – I nostri figli quelli... i nostri nipoti!... Come sono belli, sani! E gli altri, i nostri fratelli! Là, su le soffitte o nelle tane. I nostri fratelli! Ma il mondo cammina, caro Stanga, domani camminerà così, come questi bimbi... quando noi saremo sotterra!
Una sera volle portarmi ad ogni costo a vedere il Faust. Fu per entrambi una fonte di grande emozione. Egli pianse dal principio alla fine. Io gli tenevo una mano nella mia, premendola ad ogni tratto fortemente, quando temevo che scoppiasse in singhiozzi: ma il suo pianto era piuttosto calmo. Eravamo in loggione: egli appoggiava la testa sul parapetto, senza mai guardare il palco: ed io sentivo con angoscia inesprimibile ch'egli faceva una trasposizione: ascoltava la storia di sua sorella.
Ma io, che non conoscevo se non gli spettacoli delle chiese e la musica degli organi e dei cori, facevo amare riflessioni. Ecco: il pubblico ama questi quadri: dei burattini ridipinti, caricature dell'uomo, con gesti che tradiscono le cerniere nascoste nelle giunture, fanno grandi passi, si voltano verso il pubblico quando devono parlare coll'amante: nel duetto i due amanti fanno perfino un mezzo giro l'uno intorno all'altro, come i gruppi dei musei che hanno un perno sotto il piedestallo...
Il mio amico era pienamente afferrato dall'azione, o piuttosto dalla musica e dalla sua stessa fantasia. Io pensavo a quella Margherita. Ecco che cosa è la donna oggidì. Da una parte il diavolo che la tira per la lunga treccia, dall'altra Dio, che finisce col salvarla per far piacere agli spettatori e con lei l'altra allegra vittima del diavolo, Faust. Margherita non esiste di per sé: soffre, uccide la sua creatura... Che strazio e che ridicolo insieme in quella scena alla porta della chiesa! Accanto a noi c'erano delle ragazze che avevano veramente paura. E mi s'affacciò irresistibile la domanda:
«Dov'è questa religione consolatrice degli afflitti? ».
Dio finisce col trionfare, ma che importa se il diavolo ha continuato a torturarmi durante quattro atti e mezzo, cioè quasi tutta la vita?
Più tardi Vigi divenne sempre più instancabile e inquieto. La mia compagnia non gli bastava più. Egli mi dimenticava spesso quando l'accompagnavo: si concentrava e rimaneva muto, non rispondeva; non udiva, forse, il più delle volte. Io l'annoiavo, probabilmente, e ricordando gli sguardi supplichevoli di sua sorella, una profonda angoscia mi prendeva. Mi sentivo impotente, meschino, nullo: in certi momenti avrei voluto stendermi a' suoi piedi, farmi calpestare, perché s'accorgesse di me.
Talvolta poi, all'improvviso, parlava e le sue frasi erano una continuazione di un discorso interno ch'io non riuscivo a ricostruire. E l'idea insistente era l'amore. Che cos'era quest'amore, per cui sua sorella aveva tanto sofferto in silenzio ed era morta con tanta serenità?
Lena aveva certo amato. Amava ancora quando moriva? Perché mi feci tante volte questa domanda, e perché non osai farla giammai a Crastino? Quante volte essa insisteva nel mio cervello fino al tormento mentre gli parlavo di cose indifferenti, ma non riuscii mai a superare la mia timidezza.
L'amore! Io non ci ho mai pensato. O per dir meglio: ho pensato moltissimo alla donna, senza che potessi neanche concepire di aver mai una donna mia, una famiglia mia. I miei coetanei, i miei colleghi di lavoro sono tutti ammogliati: ma si dibattono in tali difficoltà, che il far saltare sulle ginocchia l'ultimo marmocchio e veder gli altri rotolarsi nei prati, fuori porta, seduti colla mogliettina sotto la pergola di qualche osteria, è loro troppo scarso compenso. Altri non vogliono rampolli, e sono i più duri e i più chiusi, quelli che sorridono di più, ma di un sorriso scoraggiante, motteggiatore; tristissimi certo, in fondo. Parlate di amore e di una famiglia in una società che dà la medesima razione di pane a chi è solo e a chi ha moglie e bimbi!
Ma tutto ciò non bastava a tenermi lontano dal matrimonio. In fondo io ho un'immensa nostalgia della carezza femminile che non ricordo d'aver sentita mai. Forse, appena messo in luce, mia mamma poté ancora stringermi al suo seno e baciarmi? Non lo so. Ma mi pare che una donna (ora sono vecchio, ho trent'anni), una donna che mi avesse amato come avevo bisogno di essere amato, sarebbe stata un pochino mia mamma, e avrei avuto bisogno, sì, di piangere, quando l'avessi sentita mia, quando avessi sentito che tutto il suo mondo ero io, io; di piangere nel suo seno tutte le lagrime che non ho pianto in trent'anni; di versare tutta la immensa tristezza accumulata giorno per giorno, da bimbo nelle giornate fredde e senza pane, da ragazzo nella reclusione priva sempre del conforto d'una faccia femminile, da giovanotto quando la sera trovavo sempre la mia soffitta buia e gelida. Avevo una forza, accumulata in tanti anni di lotta contro un vero strato di terra pesante su di me: non sono uscito dalla mia tomba di creta come un germoglio in mezzo a un sentiero battuto? Non avevo rinunziato a quello che molti altri hanno, alla vita facile, apparecchiata dinanzi a loro come una mensa imbandita: rinunziato, perché ero riuscito a non desiderare, sebbene me ne sentissi un diritto uguale a quello di essi?
E avevo una debolezza organica, portata in me sia dalle inconscie sofferenze e privazioni dell'infanzia, sia da quella rinunzia terribile. Una donna avrebbe soddisfatto a questo mio bisogno di proteggere e di essere protetto.
Non venne. L'attendevo e non la cercavo. Non osavo cercarla: ero timidissimo di fronte alla donna, perché conscio fin da ragazzo del mio aspetto triste e deficiente. Io sono alto, magro, giallo, con un torso gracile, gambe e braccia troppo lunghe: a sedici anni mi ricordo d'aver avuto per un periodo di tempo una fame da cannibale: quando cessò, io ero cresciuto di trenta centimetri! Da qualche anno non mi guardo più nelle vetrine, e quando per caso l'occhio mi cade sul mio individuo riflesso, m'esilaro non poco: ma prima fui di una suscettibilità malaticcia. Avevo un orecchio prodigioso per sentir dietro di me tutte le gaiezze ch'io suggerivo alle ragazze che mi passavano accanto, e il mio occhio, che pare un po' uguale e muto, non si lasciava sfuggire i menomi moti che apparivano su le facce dei passanti. A qualche monello avrei ben volentieri non poche volte tirato le orecchie. Ma mi contenevo: chiudevo gelosamente tutte queste ferite di spillo: credo che avevo una vera faccia di diplomatico, tanto sapevo dissimulare. Ora dicono invece che ho una faccia buona come il pan caldo. Gli è che vedo di quante piccole cose soffrono gli uomini: e sono tanto indulgente verso il me stesso d'allora, che m'intenerisco stranamente all'aspetto di tutte le piccole sofferenze che gemono o tacciono intorno a me.
Non avevo poi molto tempo da cercarla... Era necessario ch'io incontrassi per caso una donna che mi guardasse, mi trovasse simpatico, mi parlasse e mi conoscesse: conosciutomi, mi avrebbe probabilmente amato, perché mi pare impossibile, dio buono!, il contrario. Ciascuno di noi ha dentro di sé di che far felice un altro essere. Ma dov'è quest'altro? Ecco tutto. Lei era forse ben lontana e io stavo là nel mio buco di correttore... O era forse a due passi: forse m'ha guardato, m'avrà anche parlato... ma non m'ha conosciuto: e neppur io.
Dunque io scrivo qui come su una pietra sepolcrale: IO NON HO AMATO.
Tutte queste riflessioni e questi rimpianti furono sollevati in me dalla intimità con Crastino. Egli viveva così intensamente dentro di sé che le sue parole, da cui ricevevo delle momentanee rivelazioni, come dei lampi, di quella vita, mi riconducevano immediatamente alla mia e mi sentivo tutto rimescolato. Una volta uscivamo da una chiesa, entrativi a udire i cori dei vespri (la chiesa, le madonne, la musica!... Se volete dell'arte, del sentimento, oggidì, siate ricchi! Solo la chiesa dispensa dell'arte ai diseredati!) e il sole era così bello! Crastino disse:
– Io non ho mai creduto veramente a una vita mia oltre a questa, ad una vita individuale: non ci ho mai creduto, ma ho vissuto come se ci credessi: vale a dire che, in vista di un'altra vita, non ho vissuto questa...
«Vero», riflettei. E pensavo a me: io ho fatto lo stesso: anche nel mio piccolo avrei ottenuto qualche felicità se l'avessi voluta con tutte le forze. Credo che molti oggidì sono simili a me: non ci si rifà a nuovo tanto facilmente. Ma vedo che nostri figli nascono già diversi: guardano il sole con maggior confidenza. Il sole è il nostro vero bene: per ora non ce n'è uno maggiore. Godetelo, figli nostri!
Quella osservazione di Crastino era forse dedotta da mie idee anteriori che ero venuto quasi costruendo e connettendo dinanzi a lui: a mano a mano che le dicevo, si organizzavano e diventavano più persuasive, solide anche dinanzi a me stesso. Io dunque ebbi una influenza sul suo pensiero: ho paura, ahimè, di averla avuta anche sulla sua vita, o, dirò meglio, sulla sua morte! Ma non ho rimorsi.
Il professor Lavriano gli aveva trovato un impiego nel dazio: lo esortava a mantenercisi per un mese, intanto ch'egli avrebbe cercato qualcosa di più consentaneo alle sue attitudini. Crastino ci si mise di buona volontà. Tornava a casa parlandomi dei carri pittoreschi che scendevano dalle Alpi ed entravano nella barriera di Francia, dei sotterfugi curiosissimi a cui ricorrevano i carrettieri per nascondere qualche chilo di salame o qualche litro di vino. Ma ben presto il lavorìo dei calcoli e della contabilità lo annoiò, lo irritò, e, passato il mese, se ne partì, insalutato ospite.
Allora il professore lo ammise nella redazione d'una rivista di sociologia, affidandogli, poiché non aveva alcuna cognizione speciale della materia, la compilazione dei fascicoli. Né ciò gli piaceva gran che. Pure tirò innanzi qualche tempo.
Un giorno, cadeva una pioggia fitta, accidiosa, ero venuto a casa nel meriggio, contro il mio costume, e stavo per tornare alla tipografia, quando sento altamente urlare fuori. Mi pareva la voce dello zoppetto, Notu. Infatti lo scorgo sul tetto opposto, aggrapparsi agli spigoli delle ardesie, colle mani gonfie. Nella soffitta attigua alla mia l'ubriaco urlava, sporgendosi dalla finestra e minacciando di tirargli una scarpa. Il ragazzo si voltava con una faccia pavonazza: piangeva e insieme gli faceva le beffe. Che era andato a fare lassù? La Biondina aveva aperto la sua finestra e lo chiamava, lanciando degl'insulti all'ubriaco. Ora il ragazzo si trovava sul crinale, all'altezza dell'abbaino di Crastino. D'un tratto, torcendosi verso di noi, perdette presa colla mano, i piedi scivolarono...
Dei gridi di terrore seguirono... Il ragazzo era sceso bocconi coi piedi innanzi e le mani uncinate sulle ardesie. Il canale di scolo lo arrestò. Rimase immobile un secondo. Allora la finestra di Crastino s'aprì e la Biondina gli afferrò un braccio. Era salvo.
Respirai. Per un momento ebbi la visione di un mucchietto di cenci sparso sul lastricato del cortile. Udii allora aprirsi l'uscio attiguo al mio ed uscir l'ubriaco. Lo seguii. Egli andava senza dubbio a continuar la scenata nella stanza di Crastino... Ma giuntovi, afferrò il ragazzo e se lo strinse al petto piangendo forte. Noi lo guardavamo sdegnati e inteneriti.
Io dovetti correre all'ufficio. Fu allora che s'iniziò l'amicizia fra la Biondina e Crastino, che doveva presto mutarsi in amore, e togliermi per sempre quella dolce intimità che m'era divenuta necessaria.