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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Intanto era penetrata nel nostro convento una grande novità. Un giovanotto, un pittore, era venuto al n.27. Egli non vi dormiva spesso in principio, avendo anche un'altra abitazione. Era un bellissimo tipo, un modello d'umanità: alto, proporzionato, elastico, con una testa dalle fattezze forse un po' troppo fine, ma resa maschia da due grossi baffi e da una gran barba, che si mescolavano a coprirgli tutta la parte inferiore del viso d'una ondulata seta color di bronzo; nonché da una capigliatura folta cui sormontava un piccolo cappello tondo. Un gran vocione dalle sonorità di rame dava tale eco nel suo largo petto, che a qualche distanza, quando l'udivo nei corridoi, non distinguevo più le parole, e pareva talvolta un bordone d'organo. E l'udivo spesso, perché egli, appena tornato dal lavoro (era disegnatore nella fonderia Nebiolo), interpellava tutti gl'inquilini delle soffitte, provocava le loro risa con facezie a freddo, si traeva dietro tutti i bimbi, a cui gettava dei pomi e delle noci lungo il corridoio, per farli ruzzolare a mucchi e scompisciar dalle risa. Non so quando dormisse, perché la sua soffitta era sempre illuminata e lavorava moltissimo di notte, traendosi dentro i modelli; un dopo l'altro tutti i piccoli scavezzacolli dell'aeropoli.
Aeropoli è il battesimo ch'egli aveva dato al nostro convento, che era, a suo avviso, il più numeroso e vasto di Torino: ed era il titolo d'un album di acqueforti che voleva eseguire e mandare in Francia, ad un suo amico pittore che là veniva molto valutato e aveva promesso di farlo conoscere e chiamarvelo ben presto. Egli lavorava la notte e tutto il giorno di festa. Aveva fatto subito conoscenza con tutti gli abitanti della nostra piccola città; fatto lo schizzo di tutti. Di Crastino, di me e della Biondina volle fare dei veri ritratti.
Non ho mai creduto d'aver una fisonomia interessante. Le mie fattezze oggi mi sono perfettamente indifferenti. Ma Quibio (che nome strano!), altrimenti detto Cribio!4 era un mago. Il ritratto di Crastino è meraviglioso e io non ho visto più bello il mio amico ne' suoi momenti di trasfigurazione: quando gli sarà resa giustizia e i suoi pochi versi saranno considerati come i più significativi che abbia prodotto la poesia italiana in questi ultimi vent'anni, questo ritratto costituirà un prezioso documento. Ora non è che uno dei tipi più suggestivi di un aeropoli!
Il mio è molto strano e non credo di essermi mai veduto con quell'espressione, per quanto quelle siano certo, ad una ad una, le mie fattezze. Tutto è alterato curiosamente; la pallidezza sopratutto colpisce e un senso di terrore che ho negli occhi. Forse ciò proviene dal momento in cui egli eseguì il disegno, un momento che non dimenticherò più.
Quibio aveva la più buona indole del mondo, sebbene la portinaia, ch'era moglie d'una guardia civica, lo guardasse con diffidenza. Il segretario era evidentemente orgoglioso di tenere un simile inquilino e lo aveva consultato a proposito di certe oleografie che voleva comprare per il padrone di casa il giorno delle sue nozze d'argento, al che Quibio gli aveva dato del filisteo e peggio. Ma la considerazione e la diffidenza della portinaia e del segretario provenivano da certe lettere profumate che gli pervenivano, e più ancora dal fatto straordinario che più d'una signora (o era probabilmente sempre la stessa) aveva fermato la carrozza davanti alla casa ed era salita a veder lo studio.
Per alcuni mesi, Quibio fu la mia compagnia nelle ore di libertà, poiché Vigi s'era evidentemente allontanato da me per passar quasi le intere giornate solo con la Biondina, verso la quale sentivo una specie di rancore. Vissuto per tanti anni solitario e ignorato anche a me stesso, me ne rivalevo, cercando ad ogni costo quella compagnia che mi dimostrava che esistevo, ch'ero vivo, e che, in fondo, meritavo anche di vivere.
Una domenica Quibio bussò al mio uscio. Entrò tutto lieto.
– Due notizie, Martino – cominciò col suo vocione: – una: che ho vinto il concorso della Calcografia di Roma, l'altra... che gli abitanti di Marte fanno segnali verso la Terra.
– Tutt'e due dello stesso valore queste notizie? – risposi io.
– Sì – riprese. – Ecco qui l'annunzio della Calcografia e il Popolo di stamane col telegramma di Marte. Ora ti afferro con una mano, e vado ad afferrar Vigi coll'altra, poi partiamo per Valsalice a far festa.
Non ci fu modo di replicare. Mentre mi vestivo, egli andò da Crastino a partecipargli la doppia notizia.
Io avevo sentito d'un romanzo inglese molto strano in cui si supponeva un'invasione di Marziani sulla Terra. Ora l'annunzio del giornale, che alcuni punti luminosi, supponenti una direzione intelligente, fossero stati notati sul nostro pianeta più affine, mi colpì fortemente. Il mio cervello, forse per mancanza d'un organismo scientifico complesso, è prontissimo ad accettare di botto le cose più straordinarie. Questa concezione mi dava un singolare senso quasi di smarrimento, quasi sentissi di essere veramente colla terra lanciato nello spazio. Io credo che quando codesti pensieri siano entrati profondamente in noi, potremo sentir meglio la vertigine dell'isolamento nell'infinito. Dicono di non so qual poeta francese, che avesse trovato un frisson nouveau. Questo pare invece a me il brivido nuovo.
Uscirono dal corridoio e mi attesero un momento sul pianerottolo. Scendemmo. Quibio era in preda alla sua allegria rumorosa e rideva con tutti i suoi denti brillanti in mezzo a quel barbone biondo. Crastino pareva invece un po' contrariato. Da qualche tempo non lo vedevo più: lasciato l'impiego, s'era chiuso nella soffitta: lavorava? Era diventato diafano, cogli occhi cerchiati e ardenti, le narici mobilissime e la bocca nervosa. Io m'ero inquietato molto per la sua salute: il suo aspetto ora mi aumentava l'inquietudine.
Nonostante la gaiezza del pittore cui cercavo di tener dietro, Vigi taceva, pur rimanendo in apparenza sereno e un po' assorto in se stesso. Quibio era tanto felice, che me ne sentivo anch'io contentissimo: parlando, talvolta la voce gli si alterava; la gioia lo prendeva alla gola. Ah, che gusto di sentir ridere a quel modo! C'è chi nasce prepotentemente felice.
Valsalice era piena di gente: tutte le cantine risonavano di organetti e rigurgitavano di borghesi e di operai indomenicati. Quibio si piaceva enormemente dell'allegria popolare in campagna: e io pure me ne consolo tutto: è sincera, larga, sana. Ci sedemmo sotto un pergolato, e il pittore fece portare un certo vinetto frizzante, che l'inuzzoliva tutto e gli faceva schioccar la lingua. Crastino ne assaggiò un sorso e fece una smorfia: io sono astemio.
– Ah miei cari! – fece Quibio. – Che bella cosa se la terra producesse più barbèra e meno ferro da cannone. Che ne dite? La vigna è il segreto della pace universale. Guardate: appena due uomini sono brilli, subito si abbracciano. Non è vero, Minca'n Crous? – disse alzando la voce verso la padrona grossa e rubiconda che si affannava a portar bicchieri qua e là... Si era innamorato di quel nome, e lo ripeteva a tutte le donne.
Un organetto entrò nel cortile e cominciò a suonare. Tosto Quibio si levò e afferrò la padrona per le braccia: questa, girando pesantemente, rideva e oscillava tutta. La lasciò subito quando vide entrare una ragazza con un gran cappello a piume di gallo.
– Oh! – esclamò. – La principessa d'Aeropoli. Facciamo un giro?
Era la Salamandra. E senza lasciarla rifiatare la trascinò in un valzer vertiginoso. Polvere e ciottoli sprizzavano dalle sue scarpe chiodate. Quando non ne poté più, si fermò e trasse la ragazza fino al nostro tavolo.
Ella sedette, guardandoci con atto tra d'interrogazione e di noncuranza; poi bevve d'un fiato il bicchiere che Quibio le porse.
Io sentivo un leggero batticuore, il senso che ho sempre di fronte a una donna, di timidezza e insieme di dispetto contro la mia timidità.
– Ebbene, come va la salute, Minchin?–chiese Quibio sorridendo.
– Sempre bene la mia – rispose la ragazza quasi offesa. – Chiamami Olga intanto!
– Quanti anni hai? Venti, non è vero?
– Ventuno.
Quibio rise fragorosamente: ella gli dié del ventaglio sul capo. Aveva i cappelli biondissimi, radi, gli occhi allungati agli angoli da una riga di bistro, la pelle delle guancie disuguale e guasta: la bocca, assai bella, nelle mosse del discorso prendeva sempre delle inflessioni ignobili. Aveva forse quell'età e poteva anche avere più di trent'anni.
– Che farai quando sarai vecchia?
– Io vecchia? – rise, e un'ombra d'inquietudine mi parve le passasse un momento sul viso: – Farò l'affittacamere per le ragazze come me.
– Bene! Per vendicarti di chi ti fa fare questa vita? Tu ti ripagherai sulle disgraziate come te; la tua padrona fa lo stesso ora, e la catena non finirà più – disse Quibio tra grave e ironico.
Ella volgeva gli occhi sovente a osservare Crastino: d'improvviso chiese a me, sommesso, ma sì che lui sentisse:
– Sua sorella dov'è?
– Morta – risposi subito sottovoce.
Crastino ci guardò entrambi con un rimprovero triste negli occhi. Ella diede un sospiro, crollò il capo, poi percosse il pittore forte sulla spalla:
– No, grazie. Troppo liscio il pavimento e tu pesi troppo, cara Olga mia, e poi... io non voglio essere un rivale per nessuno...
E accennò ad un giovanotto che sedeva davanti a un bicchier di birra tutto solo e guardando fissamente il nostro gruppo. La Salamandra lo adocchiò di sfuggita e arrossì:
– Quello... sapete chi è quello là? Guai se ve lo dicessi!
– Brr! – fece Quíbio. – È il re dei gargagnan, scommettiamo! – e vedendo passare la padrona, ordinò un altro mezzo litro.
– Quello è il contino Raffi: ha pochi soldi ma molta sfacciataggine, e mezzi i barabba delle Ca' neire gli fanno i servitori.
Si volse a lui e lo guardò fisso atteggiando la faccia a un disprezzo indicibile, poi si levò, cercò collo sguardo tutt'intorno, e si sedette di nuovo rassicurata.
– Vuol che facciamo un giretto, signor Crastino? Io posso contarle delle belle cose... E la Biondina non è venuta?
Crastino arrossì e rise nervosamente, poi mise le labbra al bicchiere e bevve con una smorfia.
– Ti proibisco di sedurre il poeta! – vociò Quibio. – Lui è tutto scombussolato perché Marte fa dei segni a Venere, sbaglio, alla Terra... e non bisogna disturbarlo nelle sue meditazioni...
– Sì, sì, lasciamolo meditare. Che vuol dire aver la testa nelle nuvole!
Poi si fece improvvisamente seria:
– Ma è malato il vostro amico, non vedete?
Egli era difatti pallidissimo, ma protestò vivamente.
La padrona si avvicinava: depose il vino sul tavolo con una leggera smorfia verso la ragazza, che si levava dando un colpo di ventaglio a Quibio.
– Vedi qui la donna onesta e spietata – mi disse Quibio sommesso, accennando alla padrona.
– È vero – riflettei, mentre seguivo coll'occhio la Salamandra.
Subito il giovane solo che dapprima ci osservava fece una mossa per avvicinarla. Ella gli lanciò un'occhiata che l'inchiodò sulla panca, poi s'appressò ad una tavola, ove un ubriaco in mezzo a parecchi bevitori urlava con quanto fiato aveva nei polmoni:
E si sedette nel gruppo, accanto a un giovanotto mingherlino. Quando ella gli accennò il contino, i due si guardarono, e il mingherlino ebbe un istante la faccia illuminata da un sorriso così maligno, fino ed energico, ch'io ne fui scosso. Aveva due occhi agilissimi e mutevoli, che in certi momenti parevano quasi luccicare fuor d'una guaina e ringuainarsi sotto le palpebre subito. Io pensai che il suo coltello doveva apparire e scomparire bene spesso a quel modo.
La sua fisionomia non m'era nuova. Quegli occhi dovevano aver fissato me pure altra volta...
C'è dunque una società sotterranea dove la soperchieria, la lotta, la solidarietà, sono praticate all'insaputa dell'altra, ma con la stessa intensità. Qualche sommovimento lancia ogni tanto alla superficie un cadavere. E tutto ciò viveva accanto a me: ne sentivo le pulsazioni quando rincasavo tardi la sera e udivo dei susurri o delle risse negli angiporti: qualche volta avevo inteso accanto a me, nell'ombra, due parole che mi causavano un fremito di terrore e subito dopo mi aveva colto un moto di fiducia e quasi di compiacenza: «No, è Stanga!» Mi conoscevano dunque: avevano una polizia anch'essi: io ero nella lista degl'innocui o degl'insignificanti... Tutto ciò nelle tenebre. Alla luce del sole nient'altro che uno sguardo d'odio, di provocazione, di vittoria, come quello che avevo veduto luccicare un momento sulla faccia di quel mingherlino...
Intanto un'altra reminiscenza mi perseguitava. Avevo già visto io il conte?
Imbruniva. Il cortile si riempiva sempre più. Entravano ora famiglie intere con marmocchi e sedevano alle tavole facendo preparare da mangiare. Mangiavamo anche noi in mezzo al tumulto, ma tutti tre eravamo taciturni; l'allegria del pittore era sparita.
Ci levammo e movemmo per uscire. Ad un tratto mi sentii toccare. Era il mingherlino che mi sorrideva coi suoi occhi aguzzi:
– Una parola.
– Dica – feci io imbarazzato.
Tacque un momento, poi accennò dall'altra parte, al contino.
– La sorella del vostro amico... Eccolo là!... E ora lasciate fare a me. Nient'altro. Stia tranquillo, monssù Stanga.
E sparì nella folla che ingombrava il portone. Noi ci avviammo verso la città.
Molta gente scendeva per lo stradone battuto e bianco. Le donne, stanche, si sospendevano al braccio degli uomini, i bimbi ruzzolavano per le chine: su tutte le facce era la stanchezza e l'intontimento delle giornate di sole passate all'aperto da gente che vive l'intera settimana nei laboratori e nelle case buie.
A un certo punto Quibio prese per una via traversa:
– Allungheremo un poco, ma saremo tranquilli.
Era un sentiero fra le vigne: a quando a quando si cingeva ai lati di siepi o di muri a secco. Le viti, vendemmiate, cominciavano ad arrossare.
Il cielo era tutto popolato di nubi ineguali, fra cui il sole spargeva i suoi colori.
– Mi par che il paesaggio vada mutando – incominciò Quibio – o muto io? o mutiamo tutti? Io non so più come si può dipingere il cielo: è molto più difficile che una volta, perché bisogna far intravedere qualcosa di là.
– È vero – aggiunsi io. – I pittori dipingono uno strato d'aria azzurra o un movimento di nuvole. Ma ciò non è il cielo, è semplicemente l'atmosfera.
– Oh certo! – rispose Quibio ridendo. – Non vorrai mica che dipingiamo fuori dell'atmosfera! Ma chi sa? Il mio amico Chedda mi mandò da Parigi delle fotografie di un certo Redon, da cui ho presentito quel che potrebbe fare uno che conoscesse il cielo, come dici tu, Stanga...
– È la letteratura che deve precedere – esclamò Crastino che usciva un momento dalla sua distrazione.
–È vero – confermai. – Io conosco ben poca letteratura, ma quel poco che ho sfogliato non mi interessa per nulla. Dopo d'aver parlato tanto di sé stesso, l'uomo c'insiste ancora; eppure ne parla a vanvera, perché vede poco di sé stesso; si vede poco perché non vede per nulla tutto il resto, la terra, il cielo. Dico l'uomo letterato... Infatti chi sa che cosa è l'uomo? L'uomo non è altro che la realizzazione della coscienza della terra, è la terra che sente se stessa... Che cos'è la terra? un punto. È la figlia del sole, un punto un po' più grande... Il sole l'ha creata... Il sole scalda l'aria, trae l'atmosfera dai poli all'equatore e crea il vento; il sole crea le correnti del mare, assorbe i vapori e li cristallizza sui monti in ghiacciai e ne fa scendere i fiumi; il sole solleva il mare come un seno che respira. Il sole forse solleva il cuor della terra, il nucleo plastico che freme dentro la scorza, e lo trae a sé e lo farà esplodere un giorno. Noi siamo figli del sole.
– Bravo! – gridò Quibio. – E tu sei figlio dei libri. Qual è l'ultimo libro che hai letto?
– È vero: questo è una mia sintesi dell'ultimo libro che ho corretto, la Geologia generale, semplicemente. E che perciò? La poesia sta tutta lì.
– Sì, – interruppe Crastino colla gola stretta. – Questa è la poesia nuova!
Sentii nella sua voce le lacrime. Lo guardai: la luce del tramonto illuminava la pallidezza della sua fronte: aveva i pomelli accesi come per febbre.
– Chi la farà? – aggiunse.
Tacque. Il cielo si chiudeva: le nuvole s'erano assiepate, avvicinando i lor nuclei bigi fra cui brillavano delle lagune d'argento.
– Il giornale – ripresi io – stima che la notizia dei segnali di Marte sia una fantasia di un astronomo poeta. Può darsi. Che importa? Non ne sappiamo nulla, ma intanto l'ipotesi che il cielo tutto sia vivente non ci stupisce più. Com'è ciò? Forse tra i mondi esiste qualche mezzo di comunicazione che gli psicologi direbbero subcosciente: forse domani questo sarà coscienza. Avete notato come le scoperte più strabilianti si accettino con un'estrema facilità?
Ma mi accorsi che i miei compagni non mi seguivano più. Essi erano entrambi assorti in se stessi, nella lor vita particolare. Ne ebbi la sensazione quando Crastino concluse quasi un suo ragionamento interiore, che pareva anche chiudere il mio discorso.
– E dopo tutto si muore.
– No – protestai con veemenza. – La vita ha forse un fine rispetto all'eternità. Per noi, che siamo un attimo, non ha né principio né fine. Muore chi non ha vissuto, chi non ha creato. Bisogna creare, una cellula, un'idea, un moto... e non si muore!
– Si muore, si muore!... – insistè egli quasi con angoscia.
– Purtroppo, caro Stanga! – appoggiò Quibio. – E ciò non impedisce che non me n'importi un fico secco! Io e Crastino abbiamo la stessa idea della vita, intendo della nostra particolare; ma lui pensa alla fine, io penso... a prima della fine, al momento. Ecco la differenza. Tu poi vivi nelle nuvole e nei libri o, se vuoi, di là dalle nuvole... Sei un uomo felice!
Essi pensavano infatti alla lor vita particolare. Il crepuscolo li inteneriva mentre contemplavano in se stessi un'immagine d'amore. Per un momento io sentii acutamente la nostalgia di questa accompagnatrice esistenza femminile che la natura assegna come complemento a tutti gli uomini.
Allora m'accorsi d'una puntura interna, come d'una di quelle ferite troppo rapide e dirette che non si avvertono subito e si rivelano al bruciore lentamente.
«La sorella del vostro amico... Eccolo là» Avevo compreso? M'era rimasto nell'orecchio... Ora percepivo la cosa in tutto il suo orrore e in tutta la sua profonda miseria.
Anelai di esser solo per interrogarmi e sentirmi. Giunto a casa, mi coricai e spensi il lume e m'immersi in me stesso.
Fu prima un tumulto confuso e doloroso che mi riempiva il capo e il petto, una ridondanza di amarezza e di calore da soffocarmi. Poi divenni straordinariamente lucido e calmo, come se il mio sangue si fosse sedato e tacesse, e sola l'intelligenza splendesse come una luce a illuminare il mio passato e la mia miseria e la miseria di tutti i miei simili.
Amare, amare, amare! Sentirsi vivo e complesso e perfetto nell'amore dell'altra creatura necessaria, sentirsi una perfetta unità, che tende a una comunità, a una umanità più ricca e piena. L'ideale mi appariva semplice e lucido, e per me lontano, passato, morto forse con quella povera morta che m'aveva sorriso nell'agonia. Ella era una povera creatura: aveva seguito innocentemente il suo istinto di felicità: la perfidia e la morte l'avevano ghermita.
E l'acre gioia e l'angoscia datami dalla scoperta dell'infame che l'aveva tradita, si dissiparono. Potevo io vendicarmi di colui? Chi era egli? Forse nulla: forse un essere non ancora apparso alla superficie ove respirano gli esseri coscienti. Aveva seguito il suo istinto pervertito dall'eredità di generazioni oppressive e malefiche. Creature che nascono senza doveri, ricche di tutti i diritti, che possono fare se non approfittarne?
Reagire su di esse! Reagire colla luce!
Ma i malvagi si sopprimono fra loro. Quello era in buone mani e avrei voluto potergli desiderare che la punizione non fosse fatale, da impedirgli un ritorno alla sua vera natura umana.
Io vorrei credere ad una legge inflessibile: chi ha fatto soffrire, soffra!
E risolsi di non dirne nulla a Vigi. A che pro'?