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Giovanni Cena
Gli ammonitori

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-7-

 

Devo all'amico Quibio i pochi momenti d’espansione e di buon umore che ebbi in questi ultimi anni. Mi fu anche causa di qualche piccola soddisfazione d'amor proprio: dapprima non mostrava curarsi di me e talvolta mi lasciava intravedere un po' di sprezzo, come per un ingenuo un po' scemo; poi mutò concetto, finché andò anche all'eccesso opposto.

Egli aveva una tale esuberanza di temperamento, che doveva continuamente darle sfogo colla più varia attività, quasi sempre spesa a benefizio altrui, senza compenso, sebbene affermasse che gl'importava poco del prossimo.

Tra le altre cose, s'era offerto un giorno di dipingere la sala dei concerti d'una Società corale. Mi volle condurre all'inaugurazione.

Io credo che un grande elemento di pacificazione e di elevazione sia la musica e sopratutto il canto: questa preghiera fuggitiva e continua è la cosa più commovente che l'umanità possa dare di sé nella sua aspirazione oltre la terra.

Ricordo il primo giorno che entrai nella Pia Casa. Mezzo rincantucciato in fondo al cortile, rimanevo cupo, selvaggio, sentendomi disperatamente imprigionato per tutta la vita. Il fiume, il verde, il cielo, com'erano lontani! spariti per sempre. D'un tratto una voce si leva. Cantava delle parole incomprensibili: re sol la si... Un'altra si spicca e la raggiunge, poi altre, e si fondevano, procedevano unite, si svolgevano, s'annodavano, sostavano, riprendevano... e sempre quelle stesse parole discordi su un canto concorde. Il mio cuore s'ammolliva, il mio singhiozzo si diradava, i miei occhi lasciavano cadere lagrime tranquille. Tutti i giorni, nell'ora della ricreazione, io mi rincantucciavo, ascoltavo la preghiera del Mosè.

Più tardi fui arruolato nel piccolo coro. Possedevo una vocina di soprano che si guastò presto con una serie di raffreddori.

La Società corale aveva la sua sede fuori di porta. Da quel lato i circoli da ballo s'alternano coi ricreatori infantili, le osterie coi monasteri. Il vento d'autunno mulinava le foglie rugginose, ma il freddo non s'era ancora fatto sentire. Chiacchieravamo come al solito, essendo io divenuto un ostinato parlatore, mentr'egli ben sapeva tenermi bordone. Mi pareva che si facesse anch'egli accessibile alla emozione delle idee. Io poi me ne inebriavo come d'un vino. Con lui vincevo la mia faticosa lentezza d'espressione; diventavo eloquente e inesauribile. Confesso che mi ci preparavo un poco...

Mi ricordo che una discussione fervida s'impegnò a proposito di quanto ci si offrì un momento allo sguardo. Erano i ragazzi d'un Collegio clericale che marciavano col fucile a spalla dietro una piccola banda di trombe e di tamburi. Il pretino che seguiva tentava di aggiustare il suo sui piccoli passi.

– Ecco la musica che tu amiincominciò Quibio.

Appuntorispos'io prontamente. – Perché no? Io non amo la musica per se stessa e neanche la pittura, se ti piace. Amo l'arte tutt'intera, non come un abbellimento delle cose, ma come la loro misura, la loro battuta in cadenza... Sono sicuro che mi piacerà la tua pittura perché sarà adatta alla sala e allo scopo di essa... Ebbene, i fanciulli che vanno a passo di musica mi entusiasmano; essi imparano a camminare insieme, ti par poco? a misurare il loro respiro, il giuoco dei loro muscoli, il loro movimento simultaneo verso una meta comune.

– L'arte dunque, o mio dottrinario, è il maestro di cappella che mette d'accordo e in battuta le cose...

Esattamente.

– E i fucili, – ribattè egli subito – dovrebbero anche spararsi a battuta?

– I fucili saranno dei giocattoli, domani, speriamo... come oggi le alabarde nelle processioni. Soltanto costeranno meno, e quanto più saranno vecchi, tanto più riusciranno venerabili.

– Quanto a me non so che dirmenesoggiunse Quibio ridendo. – Sai, un giorno un mio amico, uno studente di medicina, quando ero al reclusorio mi offrì di essere complice con lui in una allegra impresa. Si trattava, appena usciti, di spandere alcuni tubi di bacilli del colera nella conduttura dell'acqua potabile d'una grande città. Io rifiutai soltanto perché pensavo che, una volta aperto il vaso di Pandora, la poteva essere spacciata non solo per me, ma per tutta l'umanità, e allora... addio speranza di svignarcela da questa terra che si raffredda e scappare in un altro pianeta come tu predici!

Stavamo per abbandonare la strada provinciale ed entrare in una valletta. Ad un tratto compare poco lontano un'enorme automobile, disotto al quale pareva si vomitassero dei nuvoloni bianchi. Appena il tempo di gettarci nel fosso.

– Vi caschino i piedi! – urlò Quibio, mentre io chiudevo gli occhi e tossivo soffocato.

Avevo avuto il tempo di vedere due uomini e due donne, irriconoscibili, sotto un baldacchino che scuotevasi come un sinistro uccellaccio.

Parlami di pace, ora! – disse il pittore fremendo. – Quando gli aristocratici cercano di nascondere le unghie per non esasperarti, ecco qui i borghesi parvenus che vengono a schiaffeggiarti a casa tua. Sì, perché la strada provinciale è del contadino, è del povero! Vedi! Io prenderei uno per pugno quei due mostricciattoli e li sbatterei insieme in presenza di quelle altre due smorfiose occhialute in waterproof!

Per dieci minuti il polverone rimase sospeso sulla strada. Noi infilammo tosto la valletta e c'immergemmo nel verde e nell'aria pura.

Ricordai la passeggiata d'un mese prima, con Crastino. Né Quibio né io avevamo più potuto vederlo. Doveva rimanere delle giornate intere nella sua soffitta. Lavorava?

Credo che lavoridisse Quibio. – Ma dubito anche che si esaurisca in tutti i modi. È di quelle nature nervose che reggono a lungo, poi si spezzano d'un colpo. Quel ragazzo m'inquieta assai.

Io ricordavo come Crastino m'avesse confidato le sue aspirazioni amorose, rivolte a semplici figure di leggenda. Era dunque molto mutato. E riflettei che la vita si gioca spesso delle nostre più accarezzate fantasie.

Eravamo giunti a un bivio. Guardammo lungo le viottole serpeggianti. A destra scendeva una serie di grossi fusti d'abete che doveva servire per una conduttura di forza elettrica. A sinistra scorgemmo poco lontano una bandiera sui tetti d'una vecchia cascina.

– È – fece Quibio.

Vedi accanto – accennai al pittore mentre salivamo – una forza che servirà domani ad ammazzare in un modo spedito... Per conto mio ci tengo assolutamente a che gli uomini non s'ammazzino più fra di loro.

– Qualcuno ti accuserebbe di pusillanimità.

– Avrebbe tortosoggiunsi piccato, cogliendo una sua rapida occhiata alla mia persona. – Io credo che desiderare la pace non significhi viltà, ma elevazione nel tipo umano. Il pugno massiccio è dell'antropopiteco...

Eravamo giunti presso una vecchia cascina circondata da orti e da giardini pieni di crisantemi che spandevano i lor ciuffi variopinti. Un muro la cingeva, mezzo coperto di rovi, coi mattoni sgretolati e scavati dai passeri, su cui le lucertole correvano come razzi. Quibio si fermò davanti al cancello.

– Ecco, parliamoci chiaro – fece egli, ancora un po' vibrante dell'impazienza che gli era entrata in corpo poco prima. – Tu vorresti fare di me un tuo proselite. È inutile che tu protesti; con tutta l'aria di lasciar liberi gli altri, tu imponi le tue idee. Veniamo al sodo: in fondo, tu vuoi ch'io rinunci a qualche cosa, a molte cose, a favore degli altri...

– Ma non tu, – l'interruppi – non tu, povero diavolo come me!

–  Sì, io! – ribattè con volto infiammato e in un tono d'inusata violenza. – Anch'io voglio conquistare tutta intera la vita. Se bado a non far male agli altri (e questi altri che ho in mente, son dei furfanti) io rinunzio a troppo, a tutto quel che mi è necessario e che ora è in mano di questi altri... Perché devo dunque rinunziare? Per l'onore? per la patria? per la razza? Lascia parlar di razza coloro che ebbero degli avi. Noi non ne abbiamo, a parte la pietà verso quei poveri esseri a cui toccò di darci la vita; non ne abbiamo più che non ne abbiano le galline o le raganelle o queste lucertole qui...

Così dicendo sferrò una bastonata a un mucchio d'ortiche, d'onde sorse un gran fruscìo.

Perfettamentedissi richiamando alla calma il buon gigante. – Ma credi ch'io m'opponga a che tu conquisti la tua vita? Io non so quello che ti è necessario e che appartiene ad altri. Gli è che probabilmente non appartiene a nessuno...

– Hai ragioneconcluse pensoso, e tirò con forza il campanello. – Perché non scrivi tutto questo? Tu dici delle cose che non ho mai udite...

Un uomo comparve ad un uscio in fondo al cortile, poi si volse verso l'interno. Subito una moltitudine ne apparì. Gli abiti chiari delle donne vi spiccavano.

– Presto, – gridò un giovane bruno e smilzo avanzandosi di corsa – non mancavi che tu.

Quibio mi presentò e mi fece il suo nome, Picaday. Io lo guardai tra il curioso e rispettoso: era il terribile caricaturista del Pasquino. Non l'avevo mai incontrato, sebbene egli fosse noto a tutta Torino, dalle sartine al sindaco Di Nole.

Il maestro era dietro di lui e abbracciò il pittore, trascinandolo, fra il cicaleccio delle signore, nella sala. Io rimasi tagliato fuori e mi ci rassegnai. M'intimidivano tutte quelle gonne.

La sala era piena zeppa. Per fortuna la mia statura mi permetteva di vedere. Un fruscìo di carte e un silenzio subitaneo: indi il coro attaccò Il riso di padre Martini, che mi fece sussultare di piacere: da tanti anni non avevo più sentito quella gaia musica. Oh l'infanzia, così bella... perché lontana!

Poi saltò su Picaday, che lanciò una bizzarra improvvisazione, in un linguaggio semi-giandujesco i cui spunti mi tornano spesso a mente come una musica stranissima.

Secondo lui, la prima volta che l'uomo sentì la propria voce, doveva esserne rimasto spaventato, non potendo immaginare che uscisse dal suo petto; immaginar lo stupore d'un contrabbasso che tutto ad un tratto si ascoltasse! Poi se ne diverti e se ne giovò... Io non fo qui che spogliar delle immagini brillanti e delle sfaccettature iridate, i concetti che esprimeva il caricaturista dal viso arguto di satiretto.

Che fa la campagnola nel meriggio e nel crepuscolo, quando il pieno sole o l'ombra calante la riempiono di sgomento? Canta. Ella è piccola, smarrita, ma la sua voce, la sua inquietudine, la sua baldanza invadono tutta la campagna. L'umanità, dentro il cielo troppo grande, fa appunto come la piccola villanella. Canta.

«E quando la voce più non basta, vengono gli strumenti. E la polifonia si chiude in un tempio ed ecco infine il più maraviglioso degli strumenti, la cupola!».

Si può avere, aggiungeva egli, un modello più attraente di una società ideale che nel coro? C'è un più rigoroso e insieme libero legame fra uomini, che nello svolgersi d'un canto di Palestrina? In un alternarsi di sentimenti in tutte le gradazioni, tutte le parti in perfetto accordo conservano la loro personalità, che or si nasconde, ora emerge... E il maestro non forma che una volontà, un segno d'unità, un centro. A un certo punto non è più lui che guida, non è più il coro che consente a lui; ma ne risulta un tutto, in cui il maestro non è più che il gesto del ritmo... Anche la personalità del maestro, cioè chi rappresenta la norma, la legge, tace. Perché la legge è entrata in tutti, la legge è il movimento stesso della vita, la legge è il flusso, in tutti i petti, del medesimo sangue umano.

«E questa legge intima non è che la pulsazione del piccolo pianeta di cui siamo materiati, rispondente alla pulsazione dei mondi, dell'Essere. Quando questa legge agirà liberamente in noi, non ci sarà più bisogno di codici, né di governi».

Dopo il discorso, altri corali seguirono. Io guardavo, ascoltando, le volute decorative del soffitto dipinto da Quibio, che mi parevano svolgersi con una stessa armonia. Le arti non sono manifestazioni di uno stesso desiderio, d'uno stesso moto continuo dell'uomo verso l'infinito?

Pochi probabilmente degli assistenti avevano compreso il discorso del disegnatore, non cogliendone che i motti e i paragoni inattesi. Era quello un singolare miscuglio di persone. Fra operai e commessi di negozio stavano artisti, professori d'Università, un grande scultore e un libraio tedesco; la musica fondeva tutta insieme questa gente, la cui vita svolgevasi distante e diversa, e anche negli intervalli la medesima cordialità creava nell'atmosfera come un tepore, un sorriso.

Uscimmo che declinava il sole. La valle era tutta fiorita e mossa d'abiti chiari e d'ombrelli variopinti, come se l'inverno imminente non soffiasse nell'aria. Picaday a braccetto con Quibio andava innanzi, ed io dietro, sentendomi un po' isolato, ma con un gran desiderio di non essere un estraneo nella folla che ora si riversava lungo la viuzza sinuosa. Un gruppo, fra cui predominavano le donne, raggiunse i due, facendo loro ala: i due si erano fermati a guardare il lavoro sospeso lungo il ciglione. Era la trasmissione elettrica. La città appariva in distanza velata di nebbia; più presso, il Po tra i pioppi; a pochi passi, la strada bianca e polverosa di Moncalieri.

Picaday parlava del telegrafo Marconi.

– Nulla va perdutodiceva egli. – Gli esseri che sono intorno, dalle cose alle persone, agiscono su noi, onde noi siamo ricevitori, condensatori, trasmettitori... Forse anche le cose che diciamo morte, sono più vive di quando vennero all'esistenza. Le case, le stanze, i mobili, si può dire che sono vivi soltanto quando c'è morto dentro qualcuno, e forse accumulano un'energia di vite passate che si scarica su noi ad ogni contatto. Onde e pulsazioni, tutto l'universo non è altro, dal nostro cuore al sole!

Io mi raffiguravo infatti un'incisione che avevo veduta nei giornali. Delle antenne, nient'altro. L'uomo ha trovato le sue antenne, come gli insetti: esse palpano l'aria. E così la terra viene avviluppata dall'anima umana. Oltre l'atmosfera, oltre i pianeti, oltre, oltre!

E Picaday continuava tormentandosi la barbetta e sorridendo:

– Chi sa dirmi perché l'uomo cammina in piedi, cioè parallelo al raggio della terra e del sole? Perché egli è un vero raggio della terra, egli la irradia nell'infinito.

Io rimanevo come trasognato. Quelle erano le idee che io ruminavo da anni e il solo sentire che un altro le esprimeva mi faceva un effetto strano, come d'una prova, infine, che esse esistevano. E quegli pareva estrarle dalla confusione della mia mente, pronte e lucide, come dell'oro dalla ganga.

La sera scendeva. Le donne ridevano. – Che belle fantasie! – dicevano al disegnatore.

Infatti, siamo ancor ben lontani da tutto ciò. Fantasie! E mi sentii solo, solo, come quando, bambino, correvo troppo innanzi nei sentieri, e non udivo più dietro me il passo zoppicante di mio padre.

Stavamo per sboccare nella strada provinciale. A un tratto alcuni ciclisti passarono. Un piccolo automobile scivolò tranquillo dinanzi a noi: altri ciclisti seguivano.

– Il re! – dissero alcuni.

Passò a distanza di pochi passi.

E d'un colpo la confusa, dispersa, informe mole della società mi s'affacciò, mi circondò, mi assorbì. Che ironia! Che caduta dal sogno armonioso di Picaday! Ma non basterebbe volere? No: prima bisogna sapere, e prima di sapere, vivere...

– Che stai almanaccando, Martino? – mi domandò Quibio, toccandomi la spalla.

Il mio pensiero correva dietro il veicolo già lontano.

– Siamo sempre allo stesso punto, amico mio! Bisogna che tutti abbiano prima di che vivere...

Roba vecchia!

– Sì, ma nessuno incomincia, nessuno opera: ciascuno pensa per sé e nessuno pensa a tutti...

Un'idea repentina aveva lampeggiato nella mia mente.

 

Giunto a casa, scrissi sulla fronte d'un quaderno:

IL PIANTO DEL POPOLO.

Poi rimasi lungo tempo con la penna in aria fissando la lucerna. La commozione mi gonfiava il petto, come se mi accingessi ad un'opera grandiosa in cui sarei rimasto certo inferiore al còmpito, ma avrei infuso tanta intensità di fede da rimovere una montagna. Rimasi a lungo senza raccapezzarmi: non già che mi mancassero le idee: esse tumultuavano come un fiume che non trovasse sbocco. In breve il mio capo s'appesantì e gli occhi s'intorbidirono. Dovetti coricarmi.

Sedato il primo tumulto, cominciai a vedere e discernere ne' miei pensieri. Era necessaria molta brevità, molta chiarezza, e una gran passione. Non si racconta di certi Santi, che avevano una tale efficacia di persuasione da guadagnare il cuore degli stessi tiranni? Ci voleva un esordio rivelatore, una trattazione bene equilibrata e particolareggiata, e una perorazione che bruciasse come la fiamma. La prima e l'ultima parte potevano improvvisarsi dopo aver bene allestito la mediana che era la più ardua.

Scelsi e respinsi successivamente molti progetti. Dipingere il male delle diverse classi e propugnare la necessità della loro fusione? Ma io non ne conosco che una... Ripigliar il programma non mai attuato: Libertà, eguaglianza, fraternità? Parole andate fuori d'uso... Classificar le materie secondo i diversi ministeri del Regno?

E mi sentii d'un tratto umiliato, stupido, nullo! Per quindici anni m'ero tuffato in tutte le correnti del sapere, ma da egoista, per soddisfare soltanto la mia sete enorme. Da tutta la mole di cognizioni che mi gravava dentro, io non sapevo estrarre una semplice regola di vita, né per me, né per gli altri... E desiderai subito di addormentarmi, di isolarmi, di sottrarmi a tutte queste pressioni intorno, che mi imponevano qualcosa ch'io non vedevosapevo, qualche còmpito troppo faticoso... Ah, poter dormire! C'era tanta gente, che non avrebbe dovuto dormire! Io ero solo, solo, senza un cane! Io non dovevo nulla a nessuno!

Ma non mi addormentavo.

Una cosa soltanto ero sicuro di poter ben fare. Dipingere la gente che soffre e che muore. Molte cose muoiono insieme ad essa: l'amore, la fiducia nella giustizia presente, la fede nella giustizia avvenire. Per molti non resta che la disperazione, e in essa non sono più neanche sostenuti dal pensiero d'una condanna comune. Ognuno morendo sa che ha diritto di vivere, e che ne avrebbe il potere, se l'altro uomo, se una coalizione d'uomini non glielo rubasse... La critica della società presente mi sarebbe dunque stata facile; e questo era la prima parte del mio programma. La seconda consisterebbe nel ricostruire.

Delle diverse sorta di socialismo avevo poca conoscenza, ma sopratutto mi scontentava in esse l'importanza eccessiva accordata al danaro, a tutto quello che forma bensì la condizione sine qua non dell'esistenza, ma che di per sé è troppo poco.

Finalmente mi attenni a un progetto che mi parve men preciso nella sua composizione, ma che dava maggior riposo al mio spirito. Mi alzai e lo buttai su carta subito. Ecco. – Un re, che contempla una società in uno stadio più alto, vuol condurvi con un metodo di governo i suoi sudditi, col proposito anche di abdicare quando li sentirà veramente liberi. Suo strumento principale: i Medici e i Maestri. Da una parte libertà, dall'altra azione. Libertà anche all'errore, ma tutto il favore e l'aiuto efficace alla luce. Tendenza all'abolizione di tutti i legami, da quelli materiali per i delinquenti e i pazzi, a quelli morali per tutti gli uomini; dalle manette ai codici. Abolizione graduale della proprietà ereditaria: dato il sufficiente ad ogni nato d'uomo, ricada tutto il suo acquisto, alla sua morte, nel fondo comune. Personalità giuridica della donna, uguaglianza dei sessi di fronte alla conquista della personalità, della libertà, della felicità. Libero sforzo di ciascuno verso la propria vita, verso il proprio amore. Protezione della nascita e dell'allevamento dell'uomo. Riposo assicurato ai vecchi. Sorveglianza continua sulla salute pubblica fino alla eliminazione della malattia. Massimo favore alle industrie, al commercio, alle scienze, incoraggiando l'uomo alla conquista di se stesso, della terra, del cielo. Fede nel progresso dell'umanità, come se non fosse, e non è, destinata a morire colla Terra. Culto della vita...

E mi addormentai intenerito da una grande speranza.




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