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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Egli era assolutamente fuori di posto nella società presente. Dal suo volume di versi che aveva raggiunto due edizioni, non aveva ricavato che seicento lire, e la metà l'aveva lasciata dall'editore comprando continuamente libri. Avrebbe avuto bisogno d'un editore quale ho letto che ce ne furono in Francia al tempo del Parnasse e più tardi, che anticipavano denaro ai poeti od assegnavano loro una somma mensile. Sono convinto che ottanta o cento lire al mese l'avrebbero fatto felice e gli avrebbero permesso di gustare senza difficoltà né rimorsi le due tazze di caffè giornaliere che, a suo dire, gli erano necessarie come l'aria. Ma anche l'aria, povero diavolo, gli si concedeva scarsa e di pessima qualità.
Mi parlò molto di poesia e avrei voluto raccogliere tutte le considerazioni preziose che mi veniva sgranando di continuo ad ogni occasione, se non fossi disgraziatamente affatto ignaro perfino della prosodia.
Egli era anche un profondo musicista. Ma la musica di cui egli parlava maggiormente e di cui si diceva nato cultore era l'armonia dell'universo, era il cielo, l'innumerevole unità del cielo: soltanto, egli l'amava troppo, e si dimenticava di vivere, di essere, su una minima stella, una minima nota di quest'immensa armonia. Rinunziava a vivere, ad amare (amare l'amore, cioè la propria integrazione, se stesso) per pensare; si uccideva nel corpo per vivere della mente, rompendo in sé quella musica che adorava nell'universo.
È vero che il suo corpo non lo induceva ad amar l'esistenza. Esso non gli si faceva sentire altrimenti che come un peso o una sofferenza: la miseria e la lenta inanizione, peggiore della fame, perché poco si avverte e non provoca reazione, infiacchendo sempre più gli organi del senso animale ed acuendo le sensazioni superiori, lo avevano reso indifferente alle esigenze del corpo: non le sentiva più. E alla fine una febbre, una specie di ebrietà continua che lo teneva in una strana illusione di felicità, di gioia, lo estenuarono affatto.
Il giorno dopo tutti i giornali dell'Alta Italia, riferendo la morte del giovane poeta e facendone grandi elogi, rintracciavano nei suoi stessi versi le querele su la noia di vivere e le invocazioni alla morte, come sintomi e presentimenti. Uno proponeva l'erezione d'un asilo per i pensatori e gli artisti, lamentando le tristi condizioni d'una società ove gli uomini d'alto intelletto sono costretti a dedicare la maggior parte della loro attività alla bisogna del pane e ad esercitar la loro massima forza che li costituisce re dell'umanità, quasi di straforo, di furto, se non vogliono morir di privazioni.
Io ricordavo quel ch'egli m'aveva raccontato un giorno: aveva inviato dei versi a parecchie riviste sociali e la risposta era stata: che la poesia è inutile alla società e trastullo de' scioperati.
– Vedi, – mi diceva – ho la disgrazia di non poter leggere che giornali socialisti. Gli altri hanno maggior coltura, eleganza e varietà, ma ne usano per difendere e ornare le cause egoistiche ed abbiette. Sono i sofisti d'Atene. Quelli socialisti sono i soli in cui non trovi degli insulti personali contro di me e di te e di tutti quelli che ci sono più vicini, i poveri diavoli. Ma essi non mi vogliono, senza dubbio per cecità, perché non mi riconoscono: non sanno ch'io sono loro amico e necessario. Mi ameranno, troppo tardi, naturalmente...
Borghesi dunque e socialisti non lo volevano, la società moderna insomma, in cui era nato per sua disgrazia. Una volta aveva mandato tre sonetti alla Domenica Italiana domandandone un dieci lire. Erano stati subito pubblicati, ma i danari non vennero!
La società moderna non vuole l'arte: vuole una certa arte: quella del prestigiatore, dell'illusionista, del lusingatore.
Un giorno gli dissi: – Perché non scrivi tutte queste cose? Nel nostro momento sociale molte vite sono un segno e un ammonimento. Affinché muti al più presto questa intollerabile galera ch'è la vita per gran parte degli uomini, alcune autobiografie piene di verità e di passione desteranno i sentimenti di giustizia negli uni, di rivolta negli altri...
Ma egli stimava inutile tutto ciò: – Soffrono? Perché vivono? Si lascino morire!
Ed è scomparso. Inutilmente dunque una simile apparizione è passata sulla terra?
No. Una vita intensa si prolunga lontano. Uomini e cose intorno avranno qualcosa di quella vita senza saperlo...
E pensavo che soltanto la vita mia era priva d'insegnamento: io non avevo fatto nulla e nulla mai mi era accaduto... Nondimeno cominciavo a presentire che pure a me il destino qualche cosa riserbava. E me ne cresceva il desiderio.
In quel tempo io mi immersi tutto nel mio Memoriale. M'animava un'energia strana. La mia intelligenza era divenuta talmente libera, che nei momenti più inopportuni, lavorando e persino mangiando, essa si lanciava nello spazio, dandomi spesso, al richiamo della realtà, quasi una scossa al cervello, impercettibile, ma singolare, che mi teneva un attimo nel timor della follìa.
Scrissi in quel tempo precipitosamente molte pagine, che più tardi cercai invano di ordinare e alcune perfino mi riuscirono indecifrabili. È quello che avveniva, dicono, al Nietzsche, a parte l'immodestia. L'ebbrezza delle idee dà un delirio che si oblia facilmente. Dal naufragio del mio Memoriale (dirò poi perché lo abbandonai) ne salvo qui alcune.
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È un destino che ci tormentiamo continuamente a far delle leggi, sapendo che i nostri figli dovranno sudar sangue nello spezzarle? Noi tramandiamo, centuplicata, un'eredità di dolore.
Leggo che la vita umana si allunga. La notizia non è fatta per consolare colui che considera come l'uomo faccia, fino alla virilità, quattro passi, e torni indietro di tre, prima di morire. Le idee camminano, la scienza corre a precipizio: l'uomo, animale abitudinario, va lentissimo, cosicché noi siamo in gran parte dei barbari che usano del telefono e del radiotelegrafo. Bisognerebbe che la vita umana fosse composta di parecchie diverse vite e che potessimo non solo mutar idee, ma organismi d'idee.
Ciò non sarebbe poi troppo difficile, se la nostra educazione non fosse stranamente imbecille. I nostri padri e maestri ci dànno un'educazione evoluzionistica a rovescio! Mi spiego: essi credono necessario, invece di farci partire dal punto a cui essi sono arrivati, farci rintracciare non solo il loro cammino, ma quello dei proavi, e direi perfino tutta la scala animale inversa. Tutti gli errori per cui è passata l'umanità, essi ce li fanno credere, dall'adorazione dei feticci ad una religione di terrore, dalla rinuncia alla propria ragione a una fede ultraterrena nel premio e nel castigo. A vent'anni, i giovani trovano che hanno creduto ad un'illusione, indi abbandonano questa per un'altra e per un'altra ancora. Allora poi si ripete loro: «Cercate, studiate». Come faranno a gettar quel carico? Le nostalgie dell'infanzia e della gioventù accompagnano degli errori: gettandoli, bisogna spogliarsi anche di quelle nostalgie, di tutta la poesia dell'età fervente.
E ora: «Credete!... » Hanno essi ancora forza di credere?
Gli errori dell'umanità vanno insegnati solo in rapporto colla verità d'oggi.
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I Medici e i Maestri: questi riprendono l'opera di quelli. Tutte le azioni vitali si connettono e si integrano: l'igiene presta alla morale dei solidi appoggi e delle terribili sanzioni e il colpevole si punisce in se stesso e nei suoi figli. La malattia, la miseria sono errori individuali e sociali di cui portano la pena tutti i responsabili, poiché la tubercolosi, la contaminazione, la delinquenza afferrano quasi con predilezione i fini rampolli degli oppressori e degli sfruttatori.
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Mi si dice un ideologo, un visionario, un monomane. Quest'ultimo epiteto mi fu largito da un compagno che mi vede sempre leggere sui giornali i fatti gravissimi e mortali dovuti alla rivolta contro la miseria o alla fuga di essa fuor della vita. Sì, temo perfino d'esser crudele. I fatti di cronaca, i suicidii sopratutto m'attirano: li leggo avidamente per scorgere in essi un continuo ammonimento. I giornali illustrati dovrebbero scegliere piuttosto, tra i fattacci, quelli che eccitano alla bontà, alla riflessione sulle miserie sociali, al desiderio di rimediarvi. Il sangue è sempre fecondo: è forse il solo reagente che scuota la società inerte e curante soltanto d'un benessere corporale. Esso nuoce alla digestione, e chi vuol ben digerire deve cercar un rimedio. Sono gli strappi della catena che molti non sentono al piede, foderati come sono d'ovatta e di velluto... Siam tutti legati gli uni agli altri; così volle la natura. Ad ogni forte strappo qualche lieve ammaccatura si produce anche nei più grassi e prosperosi.
Ah se tutti nascessero nudi, invece che imbottiti, e sentissero tutti il roder del ferro! Allora si cercherebbe insieme che la catena si mutasse in ghirlanda...
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Oh la lotta colla parola! Non riuscirò dunque mai a concretare l'essenza del mio pensiero?
Sono io socialista o individualista? Non lo so. Sono io. Ecco un'umile affermazione che non intende punto esagerare il mio posto nell'umanità e nell'universo.
Il nucleo del mio pensiero è questo.
L'umanità si sviluppa nel senso della sociabilità. L'individuo tanto più accresce la sua persona quanto più partecipa dell'altrui. Chi è circoscritto dalla sua epidermide ha una vita meschina e povera: chi invece sente i suoi nervi innestarsi nei nervi, le sue arterie penetrare nelle arterie di una prossima e lontana umanità, chi irradia, fruisce di tanto maggior vita, quanto è capace di comprenderne. Chi più dà di sé, più riceve. Per questa comunicazione, compenetrazione, si fondono gl'individui in famiglie, gli Stati in Unioni. Soltanto quando l'umanità sarà una, potrà provvedere a se stessa e guardare là dove ora guardano soltanto gli astronomi...
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Su La Stampa del 15 gennaio 19**. Una ragazza madre, non trovando di che sfamar la sua creatura, la depone in una chiesa, poi corre alla Questura a denunziarsi come colpevole d'averla abbandonata. La sera prima era stata trovata per istrada col bambino e ricoverata in Questura. Era forse qualche pietoso questurino che le aveva insegnato il solo modo col quale la società moderna avrebbe permesso alla sua creatura di vivere? Il bimbo fu portato all'Ospizio. Ma, quel ch'è miserabilmente comico, la donna fu condannata e messa in carcere.
Un ordinamento sociale ov'è possibile una tal contraddizione non merita più d'essere puntellato dalle coscienze nuove.
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S'io potessi ammettere ch'esiste un uomo responsabile di tutto questo, e lo scoprissi... sarei un infame se non l'uccidessi a costo della vita. Ma io so che non esiste. Ed è questo che complica la cosa, più che non pensino gli anarchici. Esistono invece piccole e grandi dosi di male, che ciascuno di noi fa subire, o subisce, ed esistono uomini che possono procurare altrui secondo le loro forze un bene minimo o grandissimo...
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Nota al Memoriale. Sovente ho nell'orecchio un ritornello: «Chi ha fatto soffrire, soffra». Donde viene? È atavismo? Istinto di padri selvaggi? Mi assale nei momenti cattivi, specie quando ho mal di denti. Parecchie di queste pagine furono scritte durante un terribile mal di denti.
V'ha un male più stupido? Tutto ciò per l'antipatica operazione di rifornire la macchina! Oh i piaceri della tavola, per tutti i mangiatori di granturco che marciscono nelle basse del Po!
Un microbio s'introduce nelle vostre ganasce e rosica impercettibilmente. La mascella, le tempie, tutto il cranio sono in congestione: è una tortura senza tempo, fissa come un'ossessione, che fa pensare al suicidio!... E tanto supina e miserabile che non ha mai avuto l'onore della letteratura. Mi ricordo una caricatura d'un leone con le mascelle fasciate d'una pezzuola!...
Anche un de' miei ricordi più atroci v'è connesso. Io ho anche immagini di mio padre nella memoria: lo vedo il più delle volte zappare nella creta con la testa nuda e le gambe nell'acqua. Ma talvolta lo vedo in un'attitudine spaventosa. Egli è inginocchiato sul pagliericcio ov'io mi distendevo tutte le sere accanto a lui: ha gli occhi stralunati e si preme le guance colle mani e apre la bocca con gemiti strozzati che interrompe soltanto qualche requemeterna! Requemeterna!... e io mi rannicchio contro le sue ginocchia piangendo di terrore...
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Nella compagine del più duro metallo i fisici dicono che le molecole hanno dei movimenti proprii estesissimi. Così noi uomini c'incontriamo, ci incrociamo, ci allontaniamo, ma invano cerchiamo di sottrarci alla compagine dell'umanità. E la libertà consiste nell'essere consci di questo vero, nel secondarlo, in luogo di contrastarlo inutilmente...
Il mondo morale di Dante, pensava Crastino, era più ricco del nostro... È vero? Certo un mondo di cui l'uomo costituisce il centro, componendo a sua immagine terra e cielo, demonio e Dio, riesce grandioso. Ma l'uomo d'allora, che informava di sé un mondo irreale, era schiavo delle creature uscite dalla sua immaginazione: ora egli è libero e re in questo piccolo angolo d'universo che ha riconosciuto suo.
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Alcuni concepiscono la società a somiglianza di certi enormi casoni d'affitto moderni, dalle innumerevoli camere; dalle innumerevoli finestre uguali, un monotono parallelepipedo a traforo. Invece dovrebbe essere l'ardita, complessa, nervosa cattedrale, dai robusti contrafforti e dalle nervature agili, ove ogni capitello è una personalità e tutto è una armonia e di sulle cupole brilla verso il cielo il genio. Oggi che cos'è? Una massiccia piramide ove le pietre brute durano da secoli nello sforzo di sostenere le superiori e l'ultima, senza proprii impulsi, senza slancio, schiave d'una sola legge, il peso, l'oppressione...
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Ci sono altri mondi. Quelli del nostro sistema solare hanno qualche affinità con la Terra? La vita vi ha manifestazioni paragonabili? Giove, ad esempio, è in formazione: forse le prime cellule vi nascono ora nel primo sedarsi della lotta tra gli elementi. Dovrà in esso la vita superiore, quella che potrebbe dirsi l'umanità di Giove, percorrere la stessa sanguinosa evoluzione che la nostra, senza che le nostre esperienze dolorose possano servirle in nulla?
La mia fede nel migliorismo mi risponde risolutamente di no. Io non ne so nulla; ma in questa universale tendenza all'armonia, correnti ignote, che forse non ci saranno più un mistero nel futuro, devono collegare continuamente le vite planetarie. Ad esempio, possiamo noi spiegarci con elementi attinti in noi e attorno a noi l'idea? No: esse furono perfino credute immanenti di per sé: non sarebbero esse il legame fra le vite intelligenti del mondo siderale? L'ideale è in noi e nello stesso tempo viene di fuori, cioè è l'essenza di noi stessi che fa parte con quella di altri esseri ignoti alla nostra coscienza, ma sentiti oscuramente dall'istinto.
Io non so se alcuno abbia già enunciata questa verità: può essere un ricordo rimastomi delle mie bozze, senza ch'io lo avvertissi. Ma in vero mi pare che i professori non parlino punto di queste cose. Essi sono troppo timidi nelle sintesi. Per esempio: io vorrei vedere in un quadro rapido disegnata questa evoluzione interiore dell'umanità. Una grafica quasi astratta, esclusi assolutamente Alessandro, Muzio Scevola, Carlo V, Marat e tutti questi individui che se non guastarono nell'evoluzione dell'umanità, guastano certamente nella storia scritta dai professori.
I quali, se leggeranno questo mio scritto, sentiranno pietà di me e mi classificheranno fra gl'imprudenti pei quali la scienza è una lampada che brucia le ali. Ma la mia scienza abborracciata alla meglio, dirò piuttosto rubata o spigolata come faceva mia madre il grano nei campi dei padroni, mi serve, a me: mi è nutrimento, mi è sangue del cuore. Per essi è anche nutrimento, sì...
Abbasso i saggi, i veggenti che tengono le mani nelle tasche, mentre i lor fratelli per errore si sgozzano a vicenda!
***
Una striscia di sole sul mio letto, dalle imposte socchiuse. Come mi sento vivo, lucido, agile, allo apparir del sole!
E in quel piccolo raggio miriadi di pulviscoli. All'ombra non si vedono, per noi non esistono: ed ecco, il sole ce li rivela illuminandoli. Così il cielo è pieno di mondi nell'ombra o illuminati: pulviscoli. Tutto si somiglia nell'universo, date le proporzioni: nella mia stanza e nello spazio immenso polvere, null'altro. La Chiesa dice: «Ricordati che polvere sei e polvere tornerai... » Ha ragione: ma l'errore è qui: la polvere non è la morte: nella mia soffitta e nello spazio immenso vive.
Un giorno un di questi pulviscoli si staccò – un attimo – da un granello più grande, per tornarvi dopo quell'attimo.
E durante quell'attimo, ecco, il pulviscolo, la Terra, come un figlio che cessa d'appartenere al grembo materno, acquista una vita sua: si consolida la sua ossatura; si sviluppano gli organi, i cristalli, le piante, gli animali; e il cervello infine, cioè l'uomo plasmato d'infinito... Tutto il resto è l'organismo speciale della Terra: l'intelligenza è ciò che la unisce agli altri organismi giganti dello spazio. Perché l'intelligenza si lancia fuor della Terra.
E mentre il granello move nello spazio, ecco che quest'intelligenza si agita sulla sua corteccia. Da prima a prender coscienza di sé. Fatto concreto nell'uomo, lo spirito della terra spunta nell'Oriente e nell'Occidente. Varie di climi e di razza, le civiltà germogliano, s'innestano, si diffondono, possiedono l'estensione della Terra.
Ed ecco quest'intelligenza penetrar nella terra, leggervi dentro, traverso gli strati delle civiltà, traverso gli strati accumulati nell'infanzia della vita, fino al nucleo ardente, ch'è la sostanza del sole.
E la Terra si conosce, ora, e prende possesso di se stessa. Di poi s'irradierà nell'infinito.
Le epoche primordiali, la storia umana, il ritorno nel grembo del sole padre, un attimo. E il turbinio della polvere di stelle nello spazio immenso non sarà mutato d'un punto.
Questo ha pensato, un mattino di sole, il correttore di bozze che non sentì mai umiliazione d'essere minuscolo, d'essere polvere.