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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Com'è ch'io sento tanta compiacenza nel redigere queste note? Quanto più procedo, più m'indugio e quasi, in qualche momento, mi scompare dalla vista la conclusione, l'atto che deve dare ad esse il valore ed il suggello. Ma io non ho più nessuna esitazione interiore: ho risoluto. E questo stesso indugio sulla mia breve vita di due anni mi pare talvolta il ricordo d'un sogno.
Questa scena che racconterò è rimasta nella mia visione stranamente intera e viva in tutti i suoi particolari. Essa mi pose per un momento a contatto con l'anima profonda di esseri, che avevo sempre veduti dissimulati sotto la comune e uniforme inquietudine della lotta quotidiana e mi diede chiaro e inesorabile il senso della loro condanna e del loro inevitabile naufragio.
Il più fiero sole d'agosto era sceso dietro le Alpi. Io sedevo sulla finestra di Quibio con un libro in mano, mentre egli lavorava. Le gallerie interne della casa cominciavano ad animarsi di bambini e di donne, mentre lungo la giornata dal vuoto del cortile profondo parevano venir su fino alle soffitte e disperdersi nell'atmosfera dei faticosi respiri d'un grande organismo oppresso d'asfissia. Ora sui ballatoi dei piani superiori vociavano i bimbi, le donne traevano esclamazioni di sollievo, le braccia nude, molli nelle vestaglie chiare, rimandandosi l'una all'altra delle frasi pigre.
La magrissima gatta della Salamandra mi guardava pietosamente di sul letto di Quibio. Questi l'aveva attirata altra volta nella sua soffitta per disegnarla, insieme al gattone bianco e soffice di una signora dei piani inferiori, ed ora entrambi si contemplavano in perpetuo in un'acquaforte color ruggine. Il gatto borghese era presto scomparso, reclamato, con insolenza, dalla sua biliosa padrona, il che, venuto all'orecchio della Salamandra, aveva cagionato da parte di costei molte considerazioni astiose e allusioni ad alta voce su la fortuna dei gatti e degli uomini, o più precisamente delle donne, perché fra lei, affermava, e la signora del piano di sotto non era differenza che di fortuna.
Il disegno di Quibio d'altronde portava alla medesima conclusione. Ora la gatta dai peli grigi ritti e radi aveva posto amore a Quibio e s'insinuava nella sua stanza ogni volta che la vedeva socchiusa, guardandolo con due occhi strazianti e troppo grandi nel testone angoloso.
– Non leggi più? – mi domandò Quibio forbendo la sua lastra. – A momenti è qui Picaday.
Entrò di fatti poco dopo il caricaturista, portandosi dietro Notu. Questi rideva fino alle orecchie, che si drizzavano come quelle della gatta. Aveva fra le mani un grosso corvo.
Ci salutammo. Io avevo incontrato più di una volta Picaday ed eravamo diventati amici d'un tratto. Era simpaticissimo, sebbene d'una chiaroveggenza che mi dava soggezione. S'era subito interessato a me, quantunque forse troppo da curioso. Egli mi aveva spiegato qual fosse la differenza tra me e Quibio... Io era una di quelle piante pensili che si nutrono d'aria e si dissolvono nell'aria. Quibio era invece una quercia ben radicata, che germogliava in altre quercie: «Tu non hai conosciuto tua madre e non hai una donna tua. Quando non c'è una donna, nella vita d'un uomo, val quanto dire che egli non ha carne né sangue. Sei troppo staccato dalla vita: non sei neanche riuscito ad a adottare qualcuno, come fanno i buoni bottegai che hanno l'istinto della propagazione. C'è qui tanti miserabili, grandi e piccini, e tu hai un bel dirti che sono tuoi fratelli, ma non li senti. Io d'altronde faccio lo stesso. Noi amiamo l'umanità, cioè un'astrazione: i nostri fratelli non li amiamo... »
Era forse vero? Ciò mi aveva molto impensierito.
– Una novità – cominciò Picaday, carezzando la gatta che era subito scesa a supplicarlo della sua attenzione. – I tipografi della Nazionale hanno votato lo sciopero per domani.
– Ben fatto! – approvò Quibio.
– No. Non otterranno nulla e sarà peggio. Lo sciopero se non si vince è un disastro. E guai se le altre tipografie accetteranno di appoggiarlo. Questo inverno digiuneranno tutti.
– Ma se hanno ragione! – interruppi.
– Non basta. Ci vuole la forza. Non vedi? Il governo garantisce la libertà. Viva la libertà! Sappiamo tutti cos'è la libertà. Io ti dico: Stanga, sei libero! Ma il suolo dove posi i piedi è mio, l'aria che respiri è mia, vale a dire che tu sei mio. Il governo garantisce la libertà di quelli che ti possiedono come una cosa!
Dei soffii, poi dei miagolii uscirono di sotto il letto. Era Notu che lanciava sulla povera gatta il corvo, il quale apriva le due valve del becco come per ingoiarla.
– Animale! – fece Quibio afferrando il ragazzo per la collottola. – Siediti qui e sta quieto e fa ben attenzione a quello che dicono i grandi. Perché hai preso il corvo?
– Cimisin l'ha lasciato scappare. Adesso glielo porto.
Il corvo era un nuovo compagno del vecchio matto. Anch'esso era molto vecchio: aveva il becco enorme e tutto spelato alla radice, dove le piume parevano canute. Saltava agitando le ali e la coda monche. Poi abbassava il capo nelle spalle e s'appisolava. Quibio l'aveva già registrato nella sua Aero poli.
Comunque – riprese Picaday, – questo impedirà di fare più tardi uno sciopero in regola. I proprietari approfitteranno dell'avvisaglia e si prepareranno a sconfiggerli. Gli operai sono troppo confidenti nella loro nuova potenza...
Udimmo picchiare all'uscio. Netu balzò alla maniglia, e comparì la testa della Salamandra.
– La mia Ninì?
– Eccola – disse Quibio indicando la gatta.
– E quell'impertinente! – fece ella allungando le mani verso le orecchie di Notu.
– Non le ha fatto nulla, è uno scherzo! – interruppe Quibio, proteggendo il monello e invitando la ragazza. – Entra, non aver paura. Ti presento Picaday.
– Ah! Una cittadina di Aeropoli – disse questi sorridendo alla donna. – Vi ho già ammirata...
– Mi ha fatta troppo brutta! – protestò ella, accennando ad uscire.
Quibio la fece sedere su una scranna.
– Se attendi qualche minuto, beveremo un gotto. Oggi è il ferragosto. Va a chiamar tua mamma – aggiunse volgendosi a Notu.
Il monello s'illuminò ed uscì come un razzo.
– Voglio molto bene a quel monello. Farà qualchecosa. Vedessi come disegna!
E trasse di fra le carte un foglio che porse a Picaday.
La Salamandra aveva spesso, quando m'incontrava per le scale, un sorriso sardonico che m'irritava segretamente: ella mi volse una simile occhiata anche questa volta ed io alzai le spalle...
– Bello! – esclamò Picaday meravigliato, dopo aver osservato lo schizzo. – Ma è un disegnatore consumato. Chi lo avrebbe detto? Ne faremo un caricaturista di prim'ordine!
Era uno sgorbio a penna. Un fanciullo che pareva un signorino sbucciava una mela, con dignità accondiscendente; in faccia a lui un altro assai più piccolo, seminudo, traeva la lunga buccia a spirale, per mangiarsela contento. Così me l'aveva interpretato Quibio.
– E che ironia incosciente! – continuò Picaday. – Bisogna scriverci sotto: Eguaglianza. Ecco un altro microbio, di quei che ti dicevo... – soggiunse rivolgendosi a me. – Vedrete che bel dissolvente sarà quel monello! Bisogna educarlo!
M'aveva spiegato infatti Picaday, ch'egli stesso non era se non un microbio, di quelli che si mangiano le cose corrotte, per far piazza pulita. Tutti sanno d'altronde a chi si devono certi bozzetti sarcastici, colla firma stafilococcus o bacillo virgola. Egli affettava anzi una crudeltà inesorabile colle sue vittime, eppure era di cuor tenero come una fanciulla. Temeva sempre di mettere del rancore personale nelle sue caricature: è certo che alcuni grossi personaggi te li aveva conciati talmente, che tutta la cittadinanza non li vedeva più se non a quel modo. Ma aveva sofferto tanto, che comprendevo anche un pochino di crudeltà da parte sua. Egli aveva fatto tutti i mestieri possibili, dal lustrascarpe al venditore di bibbie, aveva mangiato delle radici e dei rimasugli di strada, e quattro inverni di seguito li aveva passati all'ospedale. Ora era contento di tutto ciò come d'una superiorità. Diceva che conosceva tutta la gamma della vita, toute la lyre. E la gustava come un dono squisito, perché tutto, anche il pane quotidiano, gli faceva l'effetto d'una ricchezza, d'un lusso.
– Allora si fa il ferragosto! – esclamò la Salamandra.
– Ecco! – E per tutta risposta Quibio trasse di sotto il tavolo due bottiglie. Sciorinò una tovaglia, aprì due pacchi e ne dispose il contenuto in alcuni piatti. Accese una grossa lampada a petrolio armata d'un largo paralume rosso.
– E adesso, allegri! – concluse.
Entrò la moglie dell'ubriaco e Notu con la sorellina scema.
– Non ci manca che Cimisin – fece Quibio.
Ma la Salamandra inquieta:
– Allora me ne vado io!
– Perché? Oltre il rogo non vive ira nemica– asserì Quibio. – Cimisin è risuscitato ed è molto più innocuo di prima. Adesso provo a chiamarlo...
– Me ne vado io, me ne vado io! – protestò ella. – Chiamerai anche la Biondina, non è vero?
– Eh! venisse! Ma non provo neanche a invitarla, povera ragazza! Siedi lì, intanto – concluse, obbligandola a restare.
La Minca si era rincantucciata, facendosi più piccola che poteva con la sua bimba e trattenendo invano il monello, che ormai la faceva da padrone.
– E il bimbo, Minca? – disse la Salamandra.
– Coricato.
– E dov'è l'ubriaco? – insinuò la ragazza con un sorriso pungente.
– Non lo so... Non parlarmene! Ormai non va più a bottega. Spesso non torna più a casa neanche la notte, e quando torna dorme due giorni di seguito.
– Che non torni più! – fece la Salamandra rabbonita. – Dove piglia i soldi per ubriacarsi? Quell'uomo ti fa delle brutte cose, Minca.
S'udì come un litigio nel corridoio. Era Cimisin, che guardò nella stanza, poi si ritrasse diffidente. Quibio lo spinse dentro:
– Diavolo! Non vi mangeranno mica! – E rivolgendosi a Picaday con un gesto solenne: – Ho l'onore di presentarti al signor Verrua, detto Cimisin dalla plebe ignorante...
Il vecchio salutò il disegnatore come se già lo conoscesse. Conosceva infatti molte persone in tutta la città, giovani specialmente, che si divertivano alle sue spalle lodando le sue invenzioni aeronautiche, e da vero grand'uomo vedeva in tutte le facce sorridenti un ammiratore, e un nemico in tutti gli indifferenti.
Sedette presso il tavolo e aspettò che parlassero di lui. Incominciò subito il monello, dicendogli che il suo corvo stava pensando anch'esso inutilmente al modo di volare... Il corvo in due salti fu sulle ginocchia del vecchio.
– Siete fautore del «più pesante dell'aria?» – gli domandò di botto Picaday.
– Più pesante dell'aria; ma certo!... Non c'è un insetto che voli, che non sia più pesante dell'aria. – E afferrato l'uccello si impegnò subito in un complicato discorso, stirandone l'ali e la coda spennate. Parlava con grandi gesti, agitando la blusa ampia di cotone che indossava sempre, d'estate e d'inverno, e tendendo spesso in alto il braccio sinistro come a proteggersi la fronte da un nemico. Teneva sempre l'avambraccio fasciato e armato, sotto la manica, d'un bracciale di latta, per servirsene a mo' di scudo contro gli assalitori, che potevano portarlo, come già un'altra volta, al Manicomio.
– Orsù, finiamola – fece Quibio. E cominciò ad affettare un coteghino: poi trasse un prosciutto e infine sviluppò da una cassetta un rosario di salamini che attaccò ad un chiodo.
– Tutto questo è dovuto al bulino, o signori. Viva l'arte sociale!
Era il compenso di un menu che aveva eseguito per un albergatore. A quella vista la gatta pareva diventata ubriaca. La bimba scema grugniva e la Salamandra affettava le nausee:
– Troppo salume! – fece ella con una smorfia.
Allora Quibio scoperse una scatola di paste e di frutta candita, orlata di pizzo. Gli occhi della ragazza si placarono.
Le vettovaglie sparivano come per incanto. Lo spettacolo che dava la povera Minca era commovente: ella divorava e sorrideva e aveva gli occhi pieni di lagrime. Ella sentiva di dover attenuare col sorriso l'espressione bestiale che la fame doveva dare a tutta la sua faccia, nell'ansia di soddisfarsi, mentre la bimba mangiava con tutta l'applicazione, come la gatta per cui quell'occupazione era l'intento di tutte le ore. Il corvo, già sazio, rubava e si nascondeva a riporre i rimasugli.
Io consideravo tutto ciò con una tristezza profonda, perché il senso che ne avevo non era di simpatia, di pietà, ma di rancore. Era la mia umanità, era l'idea di me stesso che vedevo umiliata, calpestata. E pensando che la fame degli uni, dei molti, l'ignobile sofferenza del ventre, è la conseguenza dell'ingordigia di pochi, mi sentivo invadere da un impeto di violenza disperata.
– E pensare che quando abbiamo preso Roma, e io c'ero, credevamo che ci sarebbe da mangiare per tutti d'or innanzi!
– Siete voi che avete preso Roma! – gridò la Salamandra. – Chi ci crede!
– Invece – continuò Cimisin senza raccogliere l'interruzione e guardando la Minca – si sono messi d'accordo col Papa. Per me, sono costituzionale, non c'è che dire, ma ecco, lasciarci prendere Tunisi... è stata grossa! Potevano mandarci tutta quella gente! – aggiunse accennando agli affamati.
– Andateci voi – strillò la ragazza buttandogli un racimolo d'uva, cui egli oppose pronto il braccio blindato.
– Cavour e Vittorio! – sospirò rannuvolandosi il vecchio. – Poi più niente, più niente...
– Basta. All'avvenire dell'aeronautica! – esclamò Quibio offrendo un bicchiere a Cimisin.
– Sono astemio – dichiarò questi con dignità.
Picaday bevette alla salute degli aeropolitani. Ma anch'egli continuava a guardare la Minca con curiosità triste. Io alzai il mio bicchiere d'acqua:
– Al giorno del pane per tutti!
– Non ci saremo più, allora! – soggiunse la Salamandra come beffandomi. – D'altronde e il vino? Il vino anche è necessario. Sentite, amici... senti, Quibio! Se non ci fosse il vino, io mi butterei dalla tua finestra, adesso, subito!
Si alzò con la faccia brillante, poi ricadde accasciata sulla scranna.
– C'è più d'uno qui, – riprese poi con una smorfia sarcastica – c'è più d'uno qui che vorrebbe finirla, in una maniera da accorgersene il meno possibile, non è vero, Cimisin? E anche tu, Minca, non è vero?... Cimisin vuole volare. Tutti vogliamo volare, non è vero, Stanga?
La sua voce diveniva rauca, il suo occhio fisso e opaco: ne sentivo un disagio crescente.
– Tu sei felice, Quibio, io lo so! Io vorrei esserti sempre vicino per difenderti colle unghie, come quel corvo lì, come la mia gatta, e che tu non mi vedessi... Ma io non sono sempre stata la Salamandra. La mia compagnia non vi fa onore e voi siete troppo buoni. Voi siete forti, siete uomini e fate la vostra strada. Ma se foste delle donne, ebbene, ve lo giuro che voi non sareste usciti fuori, non sareste diventati qualche cosa, ve lo giuro...
– Vado a dormire! – interruppe Cimisin afferrando il suo corvo. – La Salamandra ha il vino malinconico.
Le voci nel cortile si erano spente. Un gran silenzio regnava nel cielo in cui la luna diffondeva un chiarore calmo, tingendo il tetto opposto e i monti lontani come d'un velo azzurro.
– Vi annoio, eh? – continuò la donna.
– No! Tu sei una creatura umana come noi, non c'è differenza al mondo.
– Eh, sì, amico mio! Adesso che ci ripenso, le trovo le differenze. Vedi lì... La Minca muor di fame. Io mi dico bene che quando saremo morte sarà la stessa cosa per tutte e due. Ma adesso no, che volete! Mi pare di essere come l'Ubriaco. Lui non torna più indietro. Non bisognava camminare... Bisognava morire allora, quando il primo vigliacco vi offerse la prima cena non guadagnata con le dita bucate... Io non ho nessuna scusa. Potevo morire come la Minca e morirò come la Salamandra... il più tardi possibile però... Allegro, vecchio mio!
Fece per afferrare Cimisin che usciva, ma questi le sfuggì, mentre ella rideva tenendosi i fianchi e finì in uno scoppio di tosse.
– Voi non ne sapete niente, d'altronde – continuò facendosi cupa. – Al mio paese, laggiù... era proprio in questo mese, e avevo diciott'anni... il parroco fece la predica su lo scandalo del paese, e io ero in chiesa, e tutti mi guardavano così che volevo sprofondare... Ebbene, perché non era lui lo scandalo, lo studente nipote suo che m'aveva ridotta in quello stato? Allora ero una brava ragazza. Chi se ne ricorda!...
E un altro scoppio di tosse la interruppe. La Minca si levò e le si avvicinò premurosa.
Un passo pesante s'udì sul pianerottolo.
– È papà! – fece Notu, colle orecchie dritte.
La bimba che dormicchiava spalancò gli occhi pieni di terrore: una viva inquietudine apparve sul viso della madre. Ella si mosse, attrasse la bimba e scivolò via senza rumore.
– Povera gente! – fece Picaday tristissimo. – La batterà?
La Salamandra s'appressò al tavolo, tese la mano verso un bicchiere pieno, ma la ritrasse subito.
– Ti ringrazio, Quibio! – E diede in singhiozzi. – Non sono ubriaca... Me ne ricorderò per sempre. Vi ringrazio tutti!
Mi fece un cenno di saluto... Picaday le tese la mano. Ella uscì senza prenderla.
Allora noi ci lasciammo. Quibio tentava di sorridere e di rasserenarci, ma non trovava le parole e mi strinse la mano fino a schiacciarmela. Volli accompagnare Picaday sino alla strada, ma anche noi non trovammo una parola. Risalendo le scale nel buio sentii come una vertigine che mi spingeva a cader nel vuoto. Giunsi nella mia soffitta e mi ficcai sotto le coltri con un gran gelo nelle membra. E non dormii.
Il giorno dopo in tipografia c'era un certo fermento mal celato. Ma lo sciopero della Nazionale finì presto e malamente. Da quel giorno nondimeno si cominciò a parlare d'uno sciopero di tutti gli operai tipografi della città come d'una cosa possibile e da considerare sul serio.
Ed ecco introdursi poche settimane dopo nel nostro stabilimento una novità inquietante. Una linotype. Era in un gabinetto riservato e difficilmente si era ammessi a vederla. Come ci riuscii non ricordo, ma potei contemplarla a mio agio. Era uno strumento complicatissimo, su cui una signorina, nella sua calma esotica, pareva combinare coi tasti delle armonie non udibili... Mentre la signorina move le dita, le fini pulegge girano interminabilmente, una pioggerella di stellette cade come attirata in una bocca d'insetto. Pare veramente una bocca d'insetto colle complicate mandibole e i palpi minuti, attivissimi. Di quando in quando un braccio forte e nervoso si abbassa a raccogliere come nel pugno qualcosa che una manina gli porge; se ne spicca tornando in alto, donde la piccola pioggia e il lavorìo ridiscende, si riproduce all'infinito...
In breve le macchine furono quattro. Poi ne venne una quinta, d'altro genere, la monotype, un altro organismo nero e lucente, altra specie di gigantesco insetto dagli innumerevoli arti, che attrae, avvince lo sguardo, nel giro delle sue piccole ruote, nel rimenìo delle piccole mascelle e delle braccia nervose, con un fascino irresistibile.
E gli operai osservavano preoccupati e tristi, come se qualcosa della loro vita si inghiottisse, sparisse lì dentro.