Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
È forse l'assenza della donna nella mia vita, madre, sorella o moglie, che mi permette di considerarla oggettivamente, come un essere il cui destino è estraneo al mio destino? Io ho sempre visto quello che nessuno vede, il sacrifizio ora inconscio, ora volontario e sempre misconosciuto di questa porzione dell'umanità, di quest'elemento femminile che l'origine dice equivalente all'uomo e che l'uomo sa soltanto adorare o calpestare.
Un pomeriggio, attendendo alla seconda edizione de L'Allevamento dell'Uomo (la prima s'era smaltita in pochi mesi), mentre la macchina era pronta per un nuovo foglio, m'imbattei, rivedendo le aggiunte, in un passaggio che mi riusciva inesplicabile. Non c'era in quel momento un messo disponibile: lo dissi al direttore e m'incamminai io stesso alla volta della Maternità.
Ci passavo accanto ogni giorno, mentre mi recavo al lavoro: per tanti anni non avevo guardato l'edificio con occhio diverso da quello con cui vedevo tutti gli altri palazzi splendenti di vetrine: quel pezzo di via mi pareva soltanto più monotono, nient'altro. Ma dopo la morte della povera Lena ne avevo sentito un crescente fascino.
Entrai: mi si fece attendere un momento. Il cuore mi batteva forte.
L'uscio della sala ove aspettavo era aperto, e ci passavano dinanzi le infermiere vestite di bianco e qualche suora. Di lì a poco, apparì in fondo al corridoio il dottor Semmi in un bianco camicione, su cui la lunga testa bionda s'alzava nobilmente. Gli esposi il passo controverso, ch'egli chiarì subito.
Non mi restava che andarmene: le macchine attendevano:
– Lei non ha tempo da perdere, non è vero, dottore? arrischiai.
– Io, no davvero... Mai!... Perché?
Esitai un istante, poi mi feci coraggio:
– Si potrebbe vedere una sala della Maternità?
– No – s'affrettò a rispondere. – È impossibile. Fuorché per casi eccezionali. Mi duole...
Ma s'interruppe tosto, mi guardò e sorrise:
– Attenda un momento e torno subito.
Tornò di lì a un minuto e mi disse semplicemente:
– Venga. Io stesso voglio fare un giro. Da più giorni arrivo alla clinica e me ne scappo subito. C'è tanta miseria fuori!...
Avevo un gran batticuore. Traversammo il lungo corridoio ed entrammo nella prima sala.
C'erano alcuni letti: non si scorgevano su di essi che le teste delle inferme. Una visione lontana mi si presentò violentemente, quasi da farmi svenire.
Il dottore s'avvicinò ad un letto:
– Come va? E il bimbo? Non l'hai più? Dove l'hai? – chiese con voce carezzevole.
L'altra tacque.
– Te l'han portato via, eh? I tuoi?... A balia?... All'ospizio!
Ella si voltò dall'altra parte, la faccia terrea le si contrasse: si coprì con le coltri fino ai capelli.
La vicina era bruna, florida, con due grand'occhi curiosi:
– Va bene, eh? – le domandò il dottore tastandole il polso. – E il bimbo?
Quella sorrise:
– È all'ospizio, ma poi lo manderò a balia. Non ho latte...
– Hai marito? Quanti anni hai?
Un'altra accanto la guardava con invidia:
– E tu, non l'hai il bimbo?
– Io sì, che l'ho... Ho sofferto tanto!
– Hai marito?
– No...
– Ti sposerà?
– Ma? Si sa bene, gli uomini!... Mio padre è impiegato al municipio: io l'ho disonorato... Ah il castigo vien sempre! Abbiam fatto all'amore un anno, poi mi son lasciata... Mio padre è venuto stamani.
– Non lo vuole il bimbo in casa?
– No! Ma io andrò a lavorare da sola e me lo terrò; ho sofferto tanto!... Volete che lo butti via! Ho sofferto tanto per lui...
Uscimmo. Nel corridoio il dottore aggiunse:
– Creda: l'egoismo e l'incoscienza dell'uomo sono mostruosi. La donna è di molto superiore moralmente all'uomo.
Io avevo il petto chiuso come entro una morsa.
Aprì un altro uscio. Un'altra sala, altre sofferenze.
In faccia alla porta, un letto portava in mezzo come un tumulo, e avvicinandomi scorsi, dietro, affondata nei cuscini, una testa livida, cogli occhi fuor delle orbite: n'usciva un gemito rabbioso. Due mani ghermivano i ferri della testata e si torcevano. Una infermiera si avvicinò al dottore.
– A quando? – fece questi.
– Stassera.
Un altro letto, di fronte, simile a quello. La donna era calma, una bruna magra, di età indefinibile. Il dottore le disse non so che parole, poi trasse in giù le coltri... Ho tutto ciò negli occhi!
Che mistero tremendo, mostruoso, inesplicabile!
Uscimmo, per entrare in un'altra sala. Due ammalate stavan sedute in mezzo di essa. Il dottore s'appressò e si rivolse alla più giovane, una ragazza bellissima:
– Come stai? Non ti sei ancora coricata?
– È muta – intervenne l'altra. – Venuta stamattina...
– Muta? – riprese quegli accigliato. E rivolgendosi a me: – Vede, non è ancora sviluppata del tutto... Avrà sedici anni? Indifesa!... Indifesa!
La ragazza ci guardava con due grandi occhi e un sorriso ingenuo. Comprendeva qualcosa di quel che le accadeva? Pareva affatto ignara.
– Che dice?–domandò il dottore alla vicina. – Che fa?
– È a servizio. L'ha portata la sua padrona.
– E la riprenderà?
– Sì, pare che la riprenderà.
– E il bimbo?... All'ospizio... – concluse egli senza attendere risposta.
Allora vidi dirimpetto una donna alzarsi sul letto a sedere, scoprirsi il seno e avvicinarvi un batuffolo bianco: una testina rossa, grande come un pugno, vi affondava tutta la faccia. Una manina impercettibile brancicava il seno roseo. La donna non era bella, una campagnuola robusta e sana, ma aveva sul viso qualcosa d'inesprimibile che infondeva riverenza e tenerezza. Il dottore s'appressò sorridendo:
– Questo è il primo?
Ella rise:
– Hai sofferto molto? Perché sei venuta qui?
– Sono a servizio.
Un'altra si levò e s'accostò il bimbo al petto:
– E tu – le chiese il dottore – che fai?
– Lavandaia. Mio marito è falegname.
– Com'è grosso! Tu ti senti bene?
– Ne ho due, – fece ella, ed alzò le coltri. Un altro batuffolo molto più piccolo: stringeva le palpebre aprendo la boccuccia.
– Perché non dài a mangiare a quella lì che ne ha più bisogno? È una femmina, eh? Prepotenti sempre i maschi... – aggiunse rivolgendosi a me.
– Questo vivrà – disse la donna. – Io le dò bene da mangiare a quella lì, ma questo mi divora tutta...
Due altre guardavano le felici; entrambe erano tristissime. L'una assai bella, aveva vent'anni. Il bimbo, mandato all'ospizio. Perché? Perché, lui, era un militare.
– Ti sposerà? – chiese il dottore.
– Mi scrive ancora... – e nei suoi occhi vagava un'incertezza sconsolata.
Ci allontanammo per uscire. Nel corridoio il dottore m'indicò una scala.
– Lì sopra – disse – ci sono quelle che vogliono rimanere incognite. Ce n'è una trentina! Io ci sono addetto, e discendo di rado. Qui abbasso è ben più terribile! La signorina Lavriano è proprio quello che si dice la provvidenza per queste creature!
Mi parve che la sua voce s'intenerisse un momento. Lo guardai: egli divenne pensieroso.
– Creda, aggiunse dopo un istante – è una gran piaga. Sopratutto crescono di numero le fanciulle madri. L'uomo volgare, il soldato specialmente, non ha più il freno della religione che lo allontani dal delitto (ché è un vero delitto!) e trova impossibile o troppo difficile il matrimonio. E la ragazza vien qui... Come ha veduto, sono troppo numerose, troppo fitte. Se vedesse poi gli altri ospedali! La questione degli ospedali è una questione di vita e di morte per la società.
Egli mi guardava. Riflettevo che forse stimava inutile dire a me tutto ciò; ma ci era tanto avvezzo e n'era tanto convinto che ripeterlo, anche a un povero invalido sociale com'io sono, gli costituiva uno sfogo.
Oh, pensavo, avere la forza, il potere: essere un legislatore, un benefattore!
– E non c'è nessun rimedio per ora – continuò. – I deputati hanno altro da pensare che agli ospedali! I lasciti non ci vengono che rarissimi, dopo che gli ospedali sono laici; e crescono le domande di ricovero, a causa dell'accentramento nelle città, a causa del buon trattamento che ha vinto le prevenzioni del popolo. L'ospedale, vede, dovrebbe essere la casa dell'uomo nel momento che s'acuisce la lotta fra lui e gli elementi di dissoluzione. La città dev'essere costituita in modo che tutti i cittadini possano venir a passare quella che direi la loro purificazione in un ambiente propizio e immune.
Riconoscevo qui le idee da lui propugnate con tanta foga nel suo libro. Egli si fermò d'un tratto e mi domandò:
– Mi dica la verità. Una visita simile turba molto, eh? Ebbene, pensi, nel momento che lei ha passato qui, quanti bambini sono nati in Italia, e quanti sarebbe meglio che morissero subito! No, vivranno, soffriranno e daranno la vita ad altri miserabili...
Io mi sentivo la mente confusa. Dopo la prima sala, in cui ero stato afferrato da una commozione violenta, mi ero sentito divenir ottuso e quasi insensibile. Me ne rimproveravo e me ne sgomentavo; soltanto osservavo con avidità, quasi ripetendomi interiormente: «Vedi tutto, afferra, ricorderai poi e sentirai... » E pensavo al mio Memoriale che andava svolgendosi fantasticamente nelle nuvole!
– È un'impressione enorme – risposi al dottore che mi guardava con un sorriso indagatore. – Ne sono interamente disorientato.
Mi pareva che qualcosa si rimovesse in fondo a me stesso come un peso informe. Pensare mi diventava una fatica: eppure presentivo che quando sarei riuscito a svellere il mio pensiero da quell'ammasso di sensazioni, ne avrei tratto una conseguenza capace di dirigere una vita.
Eravamo nel cortile. Dalla porta opposta a quella ond'eravamo usciti cominciò a sfollare uno stuolo di giovinette. Immaginai che fossero le allieve levatrici: poche erano belle, in gran parte di fattezze grossolane (era forse un'impressione momentanea), e nessuna pareva compresa del mistero terribile che gravava dentro quelle mura. Un vecchio curvo, dal volto burbero, le seguiva. Al vederlo, il dottor Semmi si volse a me con precipitazione:
– Il direttore... La saluto, a rivederci! – mi disse col suo sorriso e tendendomi la mano. Poi si appressò al vecchio.
Quando fui nella strada, guardai intorno e tutto mi parve nuovo. C'era una piazzetta, degli alberi, poi due file di case ai lati. La strada era deserta, ma un vecchio apparì da una via traversa, poi un carretto di lattivendolo, e dal lato opposto una donna con una fanciulla.
Oh l'angoscia che mi diede la vista di queste due creature! Poi, andando innanzi vidi altre donne, e nessuna pareva preoccupata: alcune erano belle e chiacchieravano e ridevano. Mi riusciva dolorosamente strano che potessero pensare ad altro.
E per alcuni giorni, attraverso le mie occupazioni usuali, il mio cervello pareva ondeggiasse pieno di una visione formidabile, in cui l'umanità ad ogni minuto, assiduamente, mentr'io leggevo, camminavo, respiravo, pullulava fuori dalle profondità della vita inferiore, passava, passava, per aver foce nel mare dell'essere.
Soltanto dopo qualche settimana riuscii a ristabilire il mio pensiero nelle correnti normali.
E mi s'affacciarono queste domande:
La vita umana merita che si soffra tanto allo scopo di prolungarla sulla terra?
Se l'amore non fosse, come si dice, cieco, l'uomo (e sopratutto la donna) accetterebbe il compito della procreazione?
Tanta parte dell'umanità, le nostre madri, le nostre sorelle, durante il miglior periodo della lor vita, sono in un'alternazione di minuscole malattie che preparano altri malori terribili. La nascita è una malattia, un lungo, grave, talora mortale guasto dell'organismo materno. V'ha un mistero più augusto, un pensiero che possa far tremare il nostro cuore più di questo?
La vita ha dunque un valore immenso se poveri esseri, per cui la maternità vuol dire il disonore, la miseria, la morte, amano il bimbo nato da loro. «M'ha costato tanto dolore, volete che non l'ami?»
Ora, l'amore non dev'essere cieco!
L'amore fatto cosciente, l'afflusso, la tensione, l'espansione suprema e volontaria della propria vitalità, l'attimo dell'unione fra due esseri reso concreto in un nuovo essere, deve apparire ben più augusto che non l'istantaneo e imprevidente spasimo egoistico.
Amore e morte? Ecco una formola poetica che fu bella quando l'amore voleva significare soltanto il soddisfacimento di due desideri. «Dopo noi il diluvio!» Ma amore e vita, se esso è la vera integrazione.
Ed ecco che il pensiero della morte perde tutto il suo valore e il suo significato a petto del pensiero della nascita.
La Chiesa porta i suoi fedeli dinanzi al letto di morte e dice: – Tremate! – La religione nuova deve condurre i neofiti al letto dove nasce l'uomo.
Ed ecco la differenza fra la vecchia età e la nuova. Oggidì il vecchio muore e non vuol morire, non vuol finire individualmente: vuol vivere al di là con lo spirito, e prolungarsi materialmente al di qua nel figlio: perciò con la vita gli ha dato tutto il suo lavoro e la ricchezza ch'egli ha accumulato per sé, togliendo ai suoi fratelli quanto più poteva.
Così l'eredità favorisce l'individuo, il prolungamento limitato dell'individuo e l'egoismo.
Invece concentriamo la nostra attenzione non sulla morte, ma sulla nascita. Allora sentiremo la necessità che ciascuno nasca nelle condizioni più favorevoli, e circonderemo di benessere, di rispetto e d'amore l'età in cui l'individuo diviene. L'individuo si svilupperà poi, si fonderà con la famiglia, accrescendo la sua vita con tutto quello che lo attornia, fino al suo declino; ma i suoi figli nascano e si nutrano nella comunità, per individualizzarsi poi a loro volta, com'egli fece, un istante.
L'uomo è come quell'insetto che insinua il suo ovulo nel gemmulario d'un fiore, perché la sua larva trovi a pascere la polpa del frutto fino a quando abbia l'ali per possedere il cielo e la terra. Possano tutte le madri trovar un calice di fiore per le loro larve! È così vasto il mondo!
Ma quella vista! Io non mi raffiguro più la faccia spasimante su quel letto... Un senso violento di rivolta m'invade, come per una sopraffazione mostruosa della natura sulla povera umanità.
Eppure ho sentito d'allora che, nei peggiori momenti in cui i miei istinti avrebber potuto prendere il sopravvento sui miei ideali, il richiamar quella visione mi sarebbe stato salutare.
E forse avrei invocato quel ricordo quando mi fossi trovato di fronte ad un'impresa terribile o ad un sacrificio mortale.