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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
L'ultima passeggiata, l'ultimo pomeriggio passato con Quibio, l'ultima ora di sole. La vita conta proprio soltanto per le ore in cui ci siamo sentiti vivi! Io ho vissuto alcune giornate. Il resto ho, come direi? tirato innanzi... come il giumento che gira sempre attorno alla stessa macina ruminando la stessa cattiva biada.
Era l'ultima domenica di settembre. Quibio irruppe nella mia stanza. Io stavo scrivendo.
– Oggi si va fuori – gridò. – Con una giornata simile star tappato in casa! E non spalanchi neanche la finestra! Ma tu ammuffisci: non vedi il sole, non senti l'appello del verde, della campagna! Non sei un provinciale tu, sei un meschinissimo e limitatissimo cittadino!
Egli ci teneva ad essere provinciale: tutti i grandi uomini, secondo lui, nascono in campagna.
Spalancò la finestra, spalancò l'uscio: dal corridoio sbucò una corrente che mi scompigliò i fogli sul tavolo e mi fece rientrar la testa nelle spalle.
– Miserabile serbatoio di reumatismi, tu avrai l'asma a quarant'anni. Hai paura dell'aria che ti fa vivere!
Si mise a ridere fragorosamente. I marmocchi scalzi e col petto scoperto che ballavano sul balcone gli fecero eco. Dal corridoio lo zufolìo di Cimisin di nuovo giocherellava come uno zampillo. Tutto pareva gaio e rinnovato. Dal fondo del cortile salì d'improvviso il suono d'un organetto. Le donne si posero a guardare mezzo accecate dal sole.
Cercammo entrambi la finestra della Biondina: era spalancata anch'essa e i passeri vi saltellavano intorno come al solito, ma il suo capo non si chinò fuor del davanzale, come faceva una volta ad ogni musica che venisse dalla corte.
– Hai più saputo nulla? – mi chiese egli, mentre scendevamo.
– Nulla. Non ho più potuto parlarle.
– Credo che abbia fatto amicizia colla dottoressa Lavriano; o per lo meno questa l'ha cercata più volte.
– Mi par diventata muta, selvaggia. La sola che può entrare da lei è Minca. Credo che la signorina Lavriano potrebbe ammansarla.
– Sai dove andiamo? – chiese il pittore.
– Niente affatto.
– Al Teatro Nazionale per decidere su lo sciopero di tutte le tipografie.
N'avevo sentito parlare vagamente:
– Sciopereremo!
Dissimulavo la mia tristezza. Ero tanto stanco! Il mio lavoro d'ufficio mi riusciva ora gravissimo: il mio Memoriale non avanzava d'un punto e le pagine che andavo rileggendo e logorando a forza di ritoccarle mi sembravano mute, scolorite. Mi pareva che qualcosa avesse distrutto la coesione di tutte le parti del mio essere.
Piazza Statuto, Via Garibaldi erano piene di gente: i portici di Po rigurgitavano: erano le buone famiglie che vanno alla messa a S. Francesco da Paola e a San Filippo e n'escono a mezzogiorno per far due passi e ostentare le ragazze da marito.
– Non vai a quella passeggiata mai? Io ci vado: ci sono dei fior di ragazze.
– Ma non mi hai detto che sei innamorato?
– Perdio! E come! Ma ciò non m'impedisce di guardare le belle donne. Giuro che non mi passa in cuore neppur l'ombra d'un desiderio: è puramente un godimento degli occhi. Ma tu non sei artista.
Infatti io non comprendevo ciò. D'altronde io non m'intendo affatto di bellezza: quando m'è accaduto di indicar a Quibio una donna che io dicevo bella, me lo vedevo ridere sul muso:
– Hai gli occhi che guardano in dentro.
Egli voleva dire con ciò ch'io non vedevo, non udivo, non vivevo coi sensi, ma solamente col pensiero. Forse aveva ragione. Certo, un bel paesaggio mi allarga il respiro, ma egli mi diceva che anche una palude è un bel paesaggio; una bella donna mi eleva e mi rasserena gli spiriti, ma egli sosteneva che è bella anche una donna perduta: egli trovava belli i pezzenti, i cenciosi, i morenti di fame... No! no!
Un giorno però gli ho chiesto se avrebbe trovato meno bella la terra quando non ci fossero più paludi né malaria, mendicanti né donne perdute, ed egli rimase pensoso.
– Eh via! Muterà anche il nostro gusto.
Eravamo in fondo ai Portici. Egli accennò alla collina.
– Ho altro a pensare in questo momento – rispose egli alzando le spalle – che compromettermi collo sciopero! Andiamo fuori, in campagna, all'aria libera...
Arrivammo così sul Monte dei Cappuccini. Il cielo era d'una tersità di cristallo: il Po limpido e piano come uno specchio: una pianura di tetti rosso-cupi e di ardesie si stendeva all'infinito e sembrava giungere da una parte ai pie' del Monviso che parea vicinissimo, dall'altra a Superga splendente. La Mole Antonelliana appuntava il suo ago nel cielo: sotto, le vie diritte incrociantesi parevano delle fosse nere e strettissime.
– Guarda il Monviso! – disse Quibio indicandomi la cuspide a lato, verso la Francia.
Il glorioso arco delle Alpi si stendeva in giro, emergendo per intero fuor della nebbia azzurro-cupa che stagnava, dagli ultimi lembi della città, dal campanile acutissimo di Santa Zita, fino alle prime valli.
– Questa è la bellezza che comprendo – dissi a Quibio, non senza un subitaneo sentimento d'orgoglio.
– Capisco che ti basti – mi rispose egli sommesso.
Mi veniva da quello spettacolo un gran senso di forza e di serenità. La neve, che riempiva tutti gli angoli e le insenature, accusava fortemente le fisionomie di quei gruppi giganti, cui tutto quel biancore vestiva di freschezza, di sincerità e di giocondità austera. Dissi la mia impressione al pittore.
– E il bianco che fa questo.
– Sia quel che si vuole: che ne sai tu col tuo bianco?
Egli cercava così gli elementi di tutti i grandi spettacoli, e li impiccoliva.
– Tu non sei un artista, Stanga: sei un poeta! un poeta che non guasta il suo sentimento cercandone le cause per riprodurlo. Io sono un pittore: e questo, caro mio, è proprio il bianco.
– E ora in gambe! Fra mezz'ora sederemo a tavola.
Lo seguii, non senza un certo impeto di vigorìa, entratomi addosso coll'aria dell'altura.
Tornando al basso, la sera, lo prese la malinconia. Scendevamo dalla collina di San Vito: ad ogni tratto, a sinistra, gli alberi della strada mancavano ed appariva il cielo affocato del tramonto dietro la cuspide nera del Monviso; e il Po, vasto, in basso, chiudeva un altro lembo di cielo sommerso. Così da bimbo io sognavo di scendere, con tutta la mia culla, nel cielo: cielo sopra e sotto e intorno e io navigante in esso come una piuma: così la terra deve sentirsi andare andare, se si sente.
Quibio accennò da quella parte:
– Sai che oggi sono stato a rischio di darti l'addio. Là, la Francia! Chi sa, se ci giungerò mai? Quando una cosa è vicina, quando un gran sogno è presso a concretarsi, allora non par che ti manchi la terra sotto i piedi? Non par che questi pochi giorni siano insuperabili? Penso perfino che potrei morire!
– Eh via! Tu sei tanto coraggioso!
– Hai ragione. – Affermò egli. – Io ho una fede in me e nel mio avvenire che stupisce me stesso; è certo presunzione! Ma lo scoramento, quando viene è più profondo. Eh caro mio! Se si trattasse di me solo! Non so quando, dicevi: Vivere ciascuno come se fossimo nella società che sogniamo! Hai un bel dire tu che sei solo. Supponi invece che il destino ti abbia unito ad un'altra creatura. Tu ami una donna: ella ti ama e non è libera...
E allora mi raccontò. L'aveva incontrata in una esposizione: poi vi si erano riveduti. Lettere strane avevano seguìto, in cui ella sfoggiava uno scetticismo a fior di pelle e una falsa esperienza amorosa presa nei romanzi di Bourget. In fatto era una povera donna. Sposata a sedici anni con un banchiere, fin dai primi mesi s'era accorta che non aveva nulla di comune con suo marito: questi l'obbligava a frequentare assiduamente la società e, sebbene entrambi indifferenti alla religione, ad andare in chiesa e praticare, perché ciò conciliava clienti.
– Doveva far da insegna alla ditta, capisci!
Ed era vissuta con lui dieci anni. Ma quante cose in tutto questo tempo! Ella aveva letto molti romanzi, visitato molti musei: s'era annoiata mortalmente. Aveva tentato distrarsi colla vita mondana: aveva tentato di amare ed era stata disgustata fin dai primi flirts. Aveva fatto della beneficenza...
Egli s'era manifestato a lei come un uomo che sa quello che vuole. «Se vi amerò, – le aveva scritto – cioè se vi farete amare, vi proporrò di abbandonare la vostra casa e venir con me». E si erano amati. Egli aveva giurato di non darle un bacio se non quando fosse affatto sua. Poi era stato vinto dalla foga dell'amore di lei e dal proprio desiderio. Si erano incontrati. Ella era perfino venuta a trovarlo fugacemente in soffitta: era la figurina vestita di nero che io avevo intravista una volta nel corridoio.
– Hai veduto la Diana del Louvre? Io ne ho una fotografia. È lei, svelta, risoluta, lottatrice. La mia vera compagna. E che anima! L'ho tratta io dalla scorza di scetticismo e di frivolezza che le si era appiccata intorno! Un'intelligenza più libera della mia, infinitamente più diritta e logica. Strano com'è sana questa donna, che venne fuori da una famiglia borghese, figlia d'un professore di latino, e stette dieci anni in un ambiente come quello!
E gli occhi di Quibio luccicavano. Parlava sommesso, facendo un grande sforzo per contenere la felicità che lo riempiva, ma s'interrompeva ad ogni tratto come se gli mancasse il respiro e il cuore gli saltasse in gola.
– Ebbene, – proruppe oscurandosi d'improvviso – sai che cosa mi aspetto? Ella è troppo franca ora, e troppo audace: farà una grossa imprudenza e nascerà uno scandalo. Io le ho proposto di partire subito, e stasera dovevamo passar la frontiera. Ella chiede alcuni giorni di tempo. Perché? Ah, le donne sono troppo intente ai particolari, alla pratica: son sicuro che si preoccupa dei mezzi di sussistenza e vuol portare qualcosa della sua dote, o che so io! Tempo perduto e adito ai sospetti!
– Che cosa ti potrebbe accadere se si sapesse? – chiesi io.
– A me nulla, per ora. Ma a lei? E se ci cogliessero insieme, un processo, la prigione... che a me non fa niente. Ma a lei?
– Credi che un uomo simile provocherebbe uno scandalo?
Eravamo giunti al ponte Isabella. Il Po, nero, immobile, moltiplicava nelle sue acque, come interminabili collane di perle, i globi elettrici sospesi sulle rive.
La tranvia affollata ci portava rapidamente verso il centro della città. Un po' di nebbia che smorzava la luce delle vie rendeva più intensa quella del carrozzone, che pareva una sala procedente rapida in mezzo a un deserto. Tutta quella gente, seduti uno in faccia agli altri, si guardavano in viso alternativamente: celava forse ciascuno la sua pena o la sua felicità? Quibio s'era rasserenato, attratto subito dalle fisionomie, ch'egli esaminava senza volerlo; poi chiuse gli occhi come assorto in se stesso.
In borgo San Donato la luce era più rara e la nebbia più fitta. Io aprii la porta di casa e salimmo adagio. Accendevamo un zolfanello dopo l'altro. Sul primo pianerottolo un uomo si schermì, appoggiandosi ad una statua ficcata in una nicchia. Lo guardammo curiosi. Al secondo, sostammo come per lasciarlo passare. Allora egli chiese, con una cortesia ironica, chi di noi fosse il signor Quibio.
– Io – disse il pittore con un tremito.
– Salga, – aggiunse l'uomo – c'è gente lassù che l'aspetta.
Quibio strinse i pugni, poi riprese a salire rapidamente.
– Chi può essere? – dissi: e pensavo a lei.
– Oh no – diss'egli indovinando. – È un tranello! Avevi ragione testé! E io non ci pensavo! Vedi come ci si sbarazza facilmente d'un uomo!
Davanti alla porta della sua soffitta un altro uomo attendeva: aprì la giacca e mostrò la sciarpa:
– Veniamo per una perquisizione...
Quibio aperse, si gettò sul letto, tuffò la faccia nei cuscini e pianse come un bambino.
Mi si mandò fuori. Rimasi sul balcone ad attendere. Non ebbi molto da aspettare: di lì a poco sentii dei passi nel corridoio. Uno portava la candela. Seguiva Quibio, che mi abbracciò con un singhiozzo represso, e discese lentamente con essi.
Io entrai nella mia soffitta, mi spogliai: presi il mio manoscritto, me lo posi sul petto sotto la flanella, e mi buttai sul letto, avvilito, indolenzito come se mi avessero battuto.