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Giovanni Cena Gli ammonitori IntraText CT - Lettura del testo |
Lo sciopero era cessato il giorno dopo. Quando ci presentammo alla tipografia, parecchi operai erano congedati, ed io fra essi.
Cinque signorine sedevano allineate dinanzi a cinque nuove macchine: pareva si gingillassero colle dita sui tasti...
Rimasi sconvolto. Uscii e trassi un gran respiro. Ero dunque libero? Ma la mia libertà improvvisa m'imbarazzava assai, sebbene possedessi di che sopportare senza danno una disoccupazione di qualche mese. Dopo alcuni giorni mi sentii come un pesce fuor d'acqua: mi pareva che ogni passante mi rimproverasse, mi disprezzasse...
Una breve diversione mi distolse dalla cupa tristezza che cominciava a impadronirsi di me. Una sera la Biondina mi fermò nel corridoio e mi pregò di seguirla nella sua soffitta.
Un alito di gentilezza spirava dai mille oggettini raccolti in quel piccolo spazio. Un lettuccio in un angolo, sotto il piovente del tetto: a lato presso la finestra, una gabbietta, ove due canarini addormentati si stringevano l'un contro l'altro su un piuolo. Negli angoli, mensolette con statuine di gesso e sulla testata del letto una Santa Cecilia di Donatello. Sotto la finestra una macchina da cucire. Ella mi porse una sedia, poi si volse a frugare nel suo tavolino da lavoro e ne trasse un quaderno legato con un nastrino rosso:
– Questo è il manoscritto di Crastino – disse, porgendomelo con un gesto come toccasse una cosa sacra.
– Ah! – non potei a meno di esclamare. – Immaginavo che doveva essere in salvo: soltanto non pensavo...
– E a chi doveva affidarlo egli? – disse guardandomi con rimprovero.
– È vero! – risposi, riflettendo a quello ch'ella era stata per lui. Alcuni mesi erano bastati per una donna ad acquistar tutti i diritti; perché nessuno nella vita doveva avergli dato quanto lei in quel breve tempo.
Osservavo la ragazza: era dimagrita assai, il che le scopriva marcatamente la forma del viso ch'era d'una gran purezza: la lucerna le disegnava fortemente la fronte e gli zigomi, mettendole molta ombra negli occhi, che ardevano come per febbre ed acquistavano una profondità d'espressione quale non si poteva immaginare nella bimba espansiva e incurante che appariva prima.
– Lei sa certamente quanto può costare la stampa di questo libro; dev'essere bello, s'intende: come questo qui.
E mi trasse da una piccola scansia dietro le mie spalle il primo libro di Crastino. Era in compagnia dei Miserabili, dell'Odissea, dell'Eneide, della Gerusalemme.
– Questi me li ha dati lui – disse, vedendomi esaminare i libri nella loro modesta ma pulita legatura; – li ho letti: qualche volta me ne leggeva lui dei canti interi. Ah, che musica! Lui mi buttò via tutti i miei romanzi e mi lasciò soltanto i Miserabili. Questo qui, come mi ha commossa! Quelle storie – aggiunse indicando i poemi – sono molto belle e divertenti, ma non fanno piangere... Adesso però non posso aprirli senza sentirmi un gruppo al cuore, perché sento la sua voce, che legge in un modo tanto stanco e dolce... Ma mi dica dunque, quanto può costare?
– Da tre a quattrocento lire.
Ella mi guardò spaventata, poi le si riempirono gli occhi di lagrime:
– Io non avrò mai trecento lire.
Non potei far a meno di sorridere:
– Ma non poteva lei consigliarsi con qualche amico, parlarne coll'editore?
– Sì? Lui mi ha detto tante cose di lei! Le voleva molto bene: non mi parlava che di lei: diceva che era un filosofo. Voleva che mi consigliassi con lei e con la dottoressa che venne qui di poi. Ma io avrei voluto farlo tutto da me: fargli questo regalo dopo morto. Ah se fosse mio, tutto mio! Per questo ho aspettato tanto prima di parlargliene...
– Bene, – diss'io, commosso – io sono a sua disposizione per un anticipo allo stampatore, se lei accetta... Ma pensi un po': l'editore, se lei glielo porta, lo stamperà senza costo di spesa, anzi dandole un tanto per cento sul guadagno, che sarà importante, poiché Crastino adesso ha una fama: avrà un posto nella poesia italiana.
Ella mi guardò tra offesa e intimorita:
– Vendere, guadagnare! Ma come può lei parlare così? Ma c'è il suo sangue, qui, la sua vita, ed anche la mia! Ah! Lei non può capire! Lo legga, lo legga... Io lo sentirò fino alla morte. È tutto quello che mi ha contato dei suoi dolori, tutto l'amore per sua sorella: e poi... mio povero amore, povero amore!
E si pose a piangere disperatamente.
Io la lasciai sfogarsi un momento. Tutta la sua persona, smagrita, era scossa dai singhiozzi. I capelli, scioltisi, le inondavano la faccia: notai che la gran capigliatura bionda era tagliata poco più sotto le spalle.
– Ascolti un momento, la prego – feci io. – Ci penseremo meglio. Possiamo benissimo stamparlo a nostre spese: quello che si ricava andrà per una tomba conveniente al nostro povero amico. Io leggerò subito il libro: domattina glielo riporto.
Ella si volse a me tutta racconsolata. Le strinsi la mano commosso e uscii.
Quello che soffersi e piansi quella notte è indicibile.
Che cosa orrenda la vita, se un essere può soffrire come ha sofferto quel povero fanciullo: che cosa terribile l'arte, che condanna un uomo a frugare, rivoltare, lavorare questo dolore come se fosse una creta da cui deve uscire la statua! Che orribile dono la poesia! Per questi esseri è una maledizione, uno strumento che intensifica la sofferenza. Io non ho mai sofferto de' miei dolori più roventi, de' miei desiderii d'amore frustrati, quanto ho sofferto per la visione di questa esistenza disumanamente infelice...
Eppure io l'avevo sentito esclamare con voce costernata: «Vivere, vivere!... Troppo tardi! Troppo tardi!» Dunque aveva desiderato la vita, ci s'era aggrappato alla fine con tutte le forze.
Bastò che in una vita d'inferno entrasse uno sguardo di donna! Questo ha potuto fare quella semplice creatura, solo perché era una donna: egli si è sentito per un momento saldo, forte, completo, uomo: ha cantato il suo breve inno alla vita, poi è sparito.
Un poemetto racconta il rapido dramma della sorella: meditazioni sulla nascita e sulla morte, l'aspettazione d'una vita novella uscita da un seme ignoto, ch'egli carezzerebbe con un'interrogazione inutile negli occhi e un timore nell'anima, il timore dello sconosciuto che s'era intruso e ingrandirebbe fra sua sorella e lui. Il poemetto finiva lì. La morte di lei non ha lasciato che vaghi e cupi echi in alcune poesie di solitudine e di morte, ove il senso del mistero ha risonanze di terrore.
Una collana di sonetti densi e per me alquanto oscuri racchiude in brevi sintesi i concetti moderni della vita umana: espansione libera dell'infanzia, rivelazione scientifica della vita, l'iniziazione dell'amore, la fusione di due esseri, la propagazione della esistenza nello spazio e nel tempo, ai contemporanei e ai posteri: idee astratte, rese sensibili con parole viventi, più che con immagini. Qui egli mostra veramente la via della poesia di domani: è un precursore.
Poi una parte s'inizia con un'esplosione di gioia. È come se un sole presente che si sentiva dietro una cortina di nubi invada subitamente una landa, dissecchi le pozzanghere e tragga dalla terra un trionfo di vegetazione. Seguono alate poesie d'amore, ove una figura viva si disegna, si colora e sorride, semplice, incolta e profonda, colla freschezza d'un fiore di monte. L'incontro nella miserabile cornice delle soffitte, mutate nelle cupole e nelle guglie d'una cattedrale: due vite canore, aeree, e l'una gorgheggia e l'altra piange. Io non rilessi il libro, ma l'impressione è profondissima in me, la visione vivissima. Io vedo quel piccolo corpo di bimba, stretto intorno alle membra scarse di calore del mio povero amico, come per infondergli la gioia, e nulla ho mai veduto né immaginato più bello di quel gruppo. Egli parla, egli affascina la piccola cingallegra, colla sua musica che le canterà in cuore fino alla morte, ed ella ascolta – e adora: adora l'ignoto che splende per lei in quel corpo che abbraccia, pallido e ardente.
Al mattino, appena vidi la Biondina aprir la finestra, metter fuori la gabbietta e i piccoli vasi, serena e seria come se la fonte del riso fosse in lei esaurita, bussai alla sua porta. Dovevo aver in viso la riverenza e l'ammirazione che sentivo dentro, perché ella sorrise quasi di gratitudine.
Accanto a lei, seduto su una coperta di lana stesa sul pavimento, era un bimbo di due anni, con una scodella fra le gambette, vuota, in cui rigirava un cucchiaio che portava alle labbra inutilmente.
– Vede che ho un bambino anch'io – disse sorridendo.
– Sì: gli voglio tanto bene. Non è vero che è bello?
Lo considerai un momento: bello non era affatto: aveva le gote molli e pallide, due grandi orecchie e una bocca enorme dalle labbra di mulatto: ma gli occhi brillavano, fissi su me, come due carbonchi.
– Ho pensato tutta la notte a quel che lei m'ha detto iersera. Gli faremo un bel monumento come quello di Silvio Pellico, nel camposanto nuovo. So io, chi glielo farà: io andrò dal signor Leonardi e gli darò il libro, e dirò che sono io...
– Conosce il Leonardi? Quello sì che può farlo, un bel monumento, anche con un piccolo marmo!
– Sì: avevo un'amica che è stata sua modella. Poi si è maritata. Una volta è andata da lui a dirgli che il suo bimbo era morto: egli ha fatto il ritratto e gliel'ha regalato...
– Il libro servirà a comprar il marmo! Vuol andar lei dall'editore? È necessario parlarne anche alla signorina Lavriano.
Io ero tormentato da un'interrogazione. Le domandai:
– Senta... dove sono i suoi capelli?
– Li ho venduti – rispose subito, turbata, ma con un lievissimo sorriso.
– Non ci credo!
Ella scoppiò a piangere, ma con in faccia uno strano miscuglio di pudore e di gioia:
– Non lo sa nessuno – confessò. – Quanto crede mi avrebbero dato? Settanta lire m'ha offerto una volta il parrucchiere qui abbasso. Erano belli, non e vero? E lui li amava tanto!... Prima che gli chiudessero la cassa... La Minca non se n'accorse affatto.
Era contenta come una bimba. Io mi raffigurai i bei capelli sul petto del povero morto.
Il bimbo rotolandosi sulla coperta aveva valicato l'orlo e così, con le cosce nude sull'ammattonato, la scodella rovesciata tra i piedi, mi guardava ridendo.
– Su, batuffolo! – esclama lei togliendogli la scodella e ponendolo a sedere sul suo letto; e rivolta a me:
– Ha due anni suonati e non cammina ancora. A proposito, sa che l'Ubriaco è in prigione? Lei che ha dei mezzi dovrebbe aiutare la Minca. Finirà male: ho paura che impazzisca o ne faccia una cattiva.
– Perché l'hanno messo in prigione?
– L'hanno preso per un manutengolo: era sull'angolo di via Bonzanigo mentre i ladri scassinavano il negozio del gioielliere: forse li conosceva: qui siamo costretti a conoscere anche i ladri e le donne disgraziate... O non li conosceva affatto. Quella povera donna! Le monache di Santa Zita le portano qualcosa, e poi i ragazzi vanno al Pane Quotidiano tutti i giorni. Lei non mangia più: bisogna metterle il boccone in bocca. Io voglio occuparmi del piccino, ma e gli altri due? Notu ha nove anni, l'altra, una bimbetta mezzo scema, ne ha sei. Adesso lei guadagna, sapete quanto? sei lire al mese, a far la camera d'un impiegato del lotto al quarto piano. Qualche mese fa aveva molte camere da fare e riusciva a metter insieme fino a trenta soldi al giorno. Quando le hanno messo in prigione il marito, nessuno ha più voluto saperne, eccetto quel giovine del lotto che forse non lo sa ancora o che sarà un socialista... Figuriamoci: moglie d'un ubriacone, pazienza, ma di un ladro! Non è vero, Gip? – seguitò, baciando il bimbo. – Adesso le domando io se questo innocente deve saperne qualcosa, lui!
Ad un tratto sbarrò gli occhi guardando fuori, sul tetto. Mi volsi da quella parte: un piccolo spazzacamino era sbucato da un abbaino, s'era piantato cogli scarponi su la cresta, poco lontano dalla mia soffitta, e girava lo sguardo sicuro tutt'intorno.
– Per quello là non c'è da aver paura – osservò la ragazza. – Si ricorda del Notu? Che spavento!
Lo spazzacamino si scioglieva la corda dai fianchi, deponeva la raspa, indi, inerpicatosi su un comignolo, vi faceva scendere la sua spazzola di ferro, poi ne la ritraeva con tutta forza. Il cielo era cosparso di nuvole argentee investite dal vento, e mentre esse movevano compatte, pareva che la piccola figura nera e il comignolo e il tetto navigassero in un moto lento che dava la vertigine.
– E quel povero bimbo lì! Chi sa dove ha la mamma: dicono che ci sono delle mamme che li vendono, li dànno a nolo per tre o quattr'anni... Che orrore! E la giustizia lascia fare tutto questo?
– La giustizia? Chi è la giustizia, buona figliola? Insomma lei è una piccola socialista, eh?
– Io? – rispose ella guardandomi curiosamente. – Crede lei? Vorrei bene essere qualche cosa, ma non sono niente. Vigi diceva bene che ero... non so più che cosa... Ha letto? Che belle cose, eh? Io ero umiliata, prima, davanti a lui: ma lui mi diceva soltanto che fossi bella e che sorridessi, e che gli bastava. Mi contemplava delle ore intere ed io m'inquietavo per paura che non mi trovasse come mi voleva, ma poi lo vedevo così felice! Io sono sicura che non mi guardava me, ma che guardandomi gli venivano chi sa quante belle memorie e quante belle idee... Voleva sempre che sorridessi, e io ho sorriso fino alla fine, con che pena, mentre lo vedevo morire!
Abbracciò strettamente il bimbo, che si ritrasse un po' stupito; poi si asciugò gli occhi:
– E mentre sorridevo senza parlare, – non parlavo mai! – lui pensava alle rose, ai paesaggi ed alle stelle e diceva ch'io ero della stessa famiglia e anche lui... Quante volte m'indicava le stelle! Guardavamo fuori della finestra, sulle creste dei tetti, nel cielo nero, e lui mi diceva che sono tutte vive o che lo saranno, e che lui andrebbe presto in una di quelle... Difatti io sono sicura ch'egli è ancora vivo. Ho visto morire il mio bambino, e ho pianto tanto! Ma dopo mi faceva l'effetto d'un canarino che mi è morto: era proprio finito tutto, finito! Ma lui... non può essere! Ha parlato fino alla fine e mi ha detto delle cose che non posso ricordare... oh quanto mi affatico per ricordarle, ma non posso! Eppure io mi sento un'altra donna dopo quelle parole, e voglio vivere, sebbene desiderassi di morire con lui: sento che devo vivere, perché devo fare qualche cosa. Non so che cosa, e aspetto...
Io consideravo quella ragazza semplice e la vedevo penetrata d'una forza misteriosa, come se una volontà energica le si fosse trasfusa. Sorrise come per dissipare l'impressione delle parole gravi che le erano uscite dal cuore quasi inconsciamente: ma sotto il sorriso e nell'occhio pensoso vedevo che esse dovevano formar ormai il fondo della sua sostanza. L'amore aveva fatto questo miracolo e una acuta malinconia m'assalì, come sempre, davanti a quello che era e che deve restare per me un ignoto ineffabile.
Intanto, la lettura della vita di Crastino m'aveva confermato un'idea che era germogliata nella mia mente già quando l'avevo sentita narrare da lui e la confrontavo colla mia. Il mio Memoriale, colle sue divisioni scolastiche, pure imprecise, col suo sforzo di esattezza che lo rendeva arido, colla sua dottrina incerta ed affastellata, com'era inefficace, di fronte alla semplice narrazione personale d'una esistenza! La stessa parte che descriveva la miseria presente, riusciva monca e imperfetta. Forse, ripetei a me stesso, il nudo racconto della mia vita può essere più rappresentativo, più suggestivo che non una trattazione, per la quale mi manca una disciplina d'anni. E quanto alla forma, s'io non ho la potenza d'arte di Crastino, ho la passione, ho una volontà di afferrare il mondo nelle mie mani e di torcerlo e di foggiarlo come la creta in cui sono nato, una volontà talmente intensa che ne soffro e mi consumo.
Pochi giorni dopo incominciai questa narrazione. Quanto al modo di ottener udienza, ero sicuro, comunque, di pervenirvi...