Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giovanni Cena
Gli ammonitori

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

-15-

 

Nondimeno feci più d'un tentativo per tornare alla mia tipografia. Richiesi infine delle spiegazioni. E allora compresi. Un nuovo direttore era entrato, un mese prima dello sciopero, nello stabilimento: il precedente usava forse molta indulgenza con me? Lo immagino, perché i rimproveri e le multe, che mi assegnava il nuovo, erano quasi sempre giustificati. Dovevo essere permanentemente assorto nei casi che avvenivano intorno a me e turbato, perché gravi errori mi sfuggivano sovente. Un gran mutamento doveva pur essere avvenuto nel mio contegno, perché il contegno dei miei colleghi correttori con cui stavo, su uno stesso banco, gomito a gomito, intere giornate, era affatto mutato verso di me. Forse non udivo qualche loro domanda e non rispondevo, o gettavo qualche frase distratta e impaziente. Non so: so che ho visto su pochi visi un po' di rincrescimento perché non rientravo.

L'ultima volta contemplai a lungo con una infinita tristezza quella vasta tettoia vetrata dove avevo passato quasi dieci anni!

Dieci anni! Le file dei compositori nel loro camicione grigio stavano intente alle casse: nelle corsie ad ogni tratto passavano due uomini, l'un dietro l'altro, portando una «forma» su una tavola, il foglio pronto per le macchine, come portassero una barella o un feretro. Dirimpetto i cilindri giravano con fragore, i fogli si rovesciavano l'un sull'altro: le donne nel loro grembialone di prigioniere ripetevano il gesto monotono di collocare i fogli sul cilindro o di raccoglierli in mucchio. Su due ballatoi laterali le legatrici si agitavano continuamente. Un centinaio di donne e un centinaio d'uomini. Immaginare che potesse stabilirsi qualche rapporto fra quegli esseri fatti per integrarsi a vicenda, qualche rapporto diverso da quello che esiste fra l'uno e l'altro pezzo d'una macchina, è impossibile. Eppure nell'ininterrotto affaccendarsi di tutti quegl'individui, ridotti a essere come i denti d'un ingranaggio, nascevano, si annodavano, traverso il minuto lavorìo della composizione e il fragore delle piattaforme volanti, sorrisi, desideri, amori, e quando la campana del mezzodì liberava d'un subito tutti quegli esseri, legati, irrigiditi per ore e ore in un immenso organismo meccanico, e la folla si riversava fitta traverso i corridoi e fuor della porta nella strada soleggiata, che gioia vederli tornar vivi, tornar esseri umani, sorridersi, parlarsi, interpellarsi, salutarsi dividendosi, o andar di conserva come amici o stringersi a braccetto come amanti!

Fra quelle ragazze che, uniformemente vestite sfoggiavano tutta la loro bellezza nell'acconciatura dei capelli, qualcuna forse mi guardò non affatto sprezzante o indifferente? Ho in fondo agli occhi qualche leggero sorriso, qualche sguardo di simpatia, e non so più a qual figura assegnarli. Forse era una donna che avrei amata?

Dieci anni!

Ero dunque infine libero. Per la prima volta mi sentivo indipendente, senza padrone. Nella Pia Casa ero soggetto, lungo le ore di lavoro, al padrone presso cui mi mandavano e nel resto del tempo agli assistenti dell'Istituto; poi passai di padrone in padrone, col senso perenne della soggezione, sì che alla festa non potevo mai liberarmi dal peso della schiavitù del domani e delle settimane prossime. Forse che mi sento io ora pienamente libero? No: ho in fondo una timidezza irragionevole che costituisce una inferiorità reale: s'io volessi fare un atto d'indipendenza, certamente sarebbe esagerato e rasenterebbe la ribellione: credo che ciò sia avvenuto infatti nei miei rapporti col direttore della tipografia.

E per godere intera la sensazione almeno della libertà fisica, mi diedi a grandi corse traverso le colline di Torino: che respiri, che bagni d'aria e di sole in mezzo agli effluvii dell'autunno, che stupori dinanzi alla scoperta improvvisa degli orizzonti luminosi e sconfinati! Io non mi ero mai sentito vivere con tale espansione. Ah, quando dicevo a Crastino che la vita è buona! Sì: basta essere sani di corpo e di mente: la felicità è forse una cosa molto semplice e molto facile. Essere vivi: molti se ne contentano, e questa non è ancora la felicità. Senza dubbio la felicità è sentirsi vivi. A misura che la vita è complessa, larga, intensa in un uomo, cresce la sua felicità, e coloro che contengono maggior quantità di vita sono coloro che più son capaci di felicità. È questo ch'io avevo pensato sempre, così semplice e per così inintelligibile per la maggior parte. Ma il giorno che questo vero così luminoso e vittorioso apparirà a tutti, non sarà mutata la vita sociale?

Un giorno nelle mie gambate traverso i colli mi trovai vicino a Gassino. Ci entrai. Riconobbi qualche casetta screpolata, ma nessuna fisionomia mi richiamò qualche immagine d'un passato tanto remoto. Non mi sentii vincolato più a quei poveri contadini che vedevo moversi tra i seminati, che all'altro povero e cieco genere umano. Pure, presso le fornaci, affatto trasformate e irriconoscibili, la vista della terra gialla in cui io e mio padre e i miei nonni, intere generazioni forse, avevamo frugato rintanati come talpe, svegliò un vago miscuglio di sensazioni dolorose insieme e dolci in fondo al mio essere.

Uscendo dal paese, vedo, seduto al sole, di fronte al Po e al piano immenso, un vecchio, rotto in due dalla sciatica: faccia raggrumata, occhietti umidi e morti. Così sarebbe stato mio padre se fosse vissuto: così avrei finito io pure. La terra in cui hanno frugato tutta la vita, li ghermisce pel collo, li curva, li soffoca nel suo seno.

Ci tornai. Una sera, imbruniva, la campana del villaggio, la sola voce festiva della mia infanzia, era di sabato, sonava a concerto annunziando la festa. E un ritornello... me lo trovai nella memoria, nell'orecchio, sulle labbra: d'onde veniva? E io camminavo, camminavo, verso la città, solo nella strada provinciale. E cominciai a cantare e a piangere, a piangere e a cantare...

Canté, canté, fijete, canté touzour!

...così ostinato, così doloroso, così aspramente, lungamente penetrante... da impazzire! E saltai nel seminato, mi affondai nei solchi recenti, bocconi, ficcando le mani tra le radici, mordendo, suggendo le erbe. O terra, mia terra, umile e cara sola madre mia! Chi mi ha divelto dal tuo seno, sì presto, ch'io avevo dimenticato perfino il tuo sapore?

Ma non tardai, dopo aver vagato per due settimane, a sentir troppo grave il peso della mia solitudine scioperata. Ah poter agire! Fare qualcosa di grande, di immensamente benefico!

E meditavo. Avrei potuto forse dedicarmi ad un'opera paziente, continua, serena, come quella buona dottoressa Lavriano, il cui sorriso e il tocco della mano gentile dovevano aver sollevato o guarito chi sa quanti mali? Sentivo una strana impazienza: ciò era troppo minuto e troppo lungo, e io non avevo tempo. Da parecchi mesi sentivo in tutti i miei atti l'impulso ad affrettarmi, perché il tempo davanti a me s'accorciava; e che cosa s'avvicinava con esso? Una sventura? Una malattia?

Forse nel corpo sociale ci sono delle molecole che devono scomparire per salvare l'organismo. Io sento in certi momenti l'esaltazione e la voluttà di prodigarmi. Sono anch'io un tipo patologico? Ci sarebbe a stupire che non lo fossi. Ci sono dei tipi normali ammirabili, come la Lavriano. La sua azione è molteplice, diffusa, piena d'insuccessi e di qualche successo, lentissimamente progressiva. Coglie, annoda, compone innumerevoli fili; par che tessa un arazzo di cui ella non compierà che una minima parte e che abbia ereditata l'opera da una generazione per affidarla ad un'altra. Ebbene, io non posso darmi a piccole dosi: io m'impaziento, mi irrito. Cercavo qualcosa di pronto, di fulmineo e non trovavo, non trovavo... fuorché la distruzione?

Due visioni s'erano impadronite del mio spirito con ugual forza, sebbene l'una reale, l'altra fantastica.

Nell'una Crastino ed io ci volgevamo indietro in un gran viale fiancheggiato ai lati da grossi cumuli di neve: un punto lontano ingrandiva rapidamente avvicinandosi: il veicolo tozzo e fulmineo passava, lasciandoci appena indovinare una figura su di esso Lo seguivo coll'occhio: un piccolo mucchio nero innanzi stava fermo in mezzo alla strada e l'automobile si lanciava.. La visione si spegneva d'un tratto lasciandomi un gelo nella schiena. Nell'altra, una carrozza pesante correva in una strada di città assiepata di gente: un uomo si gettava verso di essa e veniva fracassato dai zoccoli d'un cavallo. E mi pareva di sentir un colpo al cervello...

E cominciai un mattino a svegliarmi con l'idea d'una cosa che dovevo fare, oggi? domani? E tutte le mattine avevo la stessa sensazione di aspettativa insieme e di obbligo, come d'una promessa che dovessi adempiere e differissi di giorno in giorno per cause non del tutto dipendenti dalla mia volontà.

La cosa che dovevo fare era affatto intima, era semplicemente di accettare un atto ancora oscuro che mi s'imponeva lentamente con forza e ostinazione, perché di poi è cessata affatto l'inquietudine che m'invadeva ogni mattina e che diminuiva soltanto la sera mentre dicevo a me stesso: Domani!... coll'intenzione implicita di considerare e infine di accettare; quasi per far tacere una voce insistente e irritante che mi ripeteva sempre lo stesso: «È necessario!».

Ed ecco il fatto che mi determinò.

Quel mattino avevo aperto gli occhi colla immagine vaga d'un sogno o d'una allucinazione che svaniva. Ero in presenza d'un uomo: avvicinarlo mi era parso una gran fatica, come un'ascensione gravosa, e il rimanervi un pericolo mortale. Ora egli mi guardava. Io avevo da dirgli una gran parola, ma non mi usciva dalle labbra: sentivo che le mie labbra si movevano, che la mia faccia si contraeva, che forse emettevo un suono inarticolato... ed egli mi guardava e non comprendeva e i suoi occhi diventavano irati, terribili... E avrei voluto uccidermi a' suoi piedi perché mi comprendesse!

Levatomi, l'impressione svanì, o mi parve. Fatto è che corsi subito alla Biblioteca Civica per immergermi nei libri, come facevo già da parecchi giorni, per imprigionare la mia attenzione e sedare l'inquietudine che mi tormentava. Ero divenuto d'una tale instabilità nervosa, che nella strada una voce improvvisa, il rullìo d'una carrozza, una scampanellata di tranvia, mi tiravano, dal lato da cui venivano, dei tuffi di sangue.

Uscito dalla Biblioteca Civica ove avevo finito la Risurrezione di Tolstoi cominciata giorni prima, me ne tornavo colla testa tutta scombussolata. Vi ero rimasto sei ore: il sole tramontava: il cielo, lontano, dietro l'angolo del monumento al Fréjus, discendeva leggerissimo sulle creste bianche ed azzurre delle Alpi. Respiravo a pieni polmoni, anche per sollevarmi l'oppressione morale. Il romanzo mi aveva lasciato un enorme senso di sgomento: esso descrive con tal potenza la massa dell'iniquità sociale, che i personaggi pieni di buona volontà e i precetti di vita che l'autore diventano sproporzionati, inefficaci, strani. E pensavo ch'io ero forse, come codesti russi, un'anima ingenua che vede tutta la mostruosità degli organismi sociali e crede poterli atterrare con una spallata. Forse val meglio scomporli vite per vite, ruota per ruota, come farebbe un esperto meccanico. Ma come persuadere questi capi macchina ad esaminare, riformare, rinnovare i lor vecchi strumenti, traverso cui l'uomo moderno esce falsato, deformato, talvolta stritolato?

Ero giunto in piazza Statuto.

Ho l'abitudine di soffermarmi presso ai chioschi dei giornalai. Mi avvicinai ad uno per guardare su un giornale in che giorno eravamo. Era la Gazzetta di Torino, uscita allora, e mi colpì subito la scritta: Il dramma di Via San Donato. Simultaneamente avverto il gridìo che alcuni venditori facevano per le strade, colle stesse parole. Un tremore inesplicabile m'assalse, comprai il giornale: era un'intera colonna: il cronista faceva un lungo e lacrimoso preambolo: «La donna può avere quarant'anni...: marito in prigione... Ella aveva mandato i tre figli... il maggiore teneva l'ultimo in braccio e l'altro per mano... al Pane Quotidiano... La donna stava inginocchiata contro la parete in un angolo della soffitta... Un braciere...».

Mi sentii toccare sulla spalla: mi volsi. Era la dottoressa Eva: era molto turbata:

– Ho fatto fermare la tranvia, vedendo lei qui. Che cosa orribile! – disse, accennandomi il giornale.

– È la Minca, non è vero?

– Sì. Lei non sa ancora nulla? Venga con me. Io l'ho vista: ora ho portato i due ragazzi a casa mia, poi vedrò... È morta verso mezzogiorno, sembra. Stamattina aveva mandato i bambini da noi. Pareva che lo sapesse, il povero Notu; non ha voluto mangiare: è stato tutto il giorno ammusonito, cupo. Che cosa crede che diventerà quel ragazzo ?

Io ero come stordito.

– Aveva chiuso le imposte e turato il caminetto...– continuò la signorina. – Ha preso tutte le precauzioni più minute: tutte le fessure dell'uscio e della finestra erano tappate. Ha fatto presto l'ossido di carbonio a raggiungerla, così inginocchiata a terra... Aveva ingannato anche la Biondina, che ha bussato soltanto quando sono tornati i ragazzi, alle due, ed essi dovevano stare fuori fino a sera... Notu pareva che lo sapesse. È lui che si è messo a piangere davanti all'uscio, picchiando, e gli altri due anche essi... Così il marito della portinaia ha sospettato e ha forzato l'uscio. Me lo raccontava la Biondina...

Eravamo giunti, quasi correndo, alla casa. Sotto il portone le donne chiacchieravano, coi visi curiosi e inquieti. Salimmo. L'uscio era chiuso e due guardie passeggiavano lungo il corridoio. Avrei voluto vedere un momento la povera morta, ma le due faccie arcigne me ne distolsero.

Da parecchi giorni era entrato in me un vago timore delle guardie: mi sentivo fissato, nelle strade, con insistenza, con diffidenza. Forse il mio aspetto s'era fatto più tristo: mi sentivo inquieto e umiliato nella mia disoccupazione...

Andammo fino in fondo, nella camera della Biondina .

La Biondina colla faccia piangente teneva stretto in collo un bimbo, il bimbo della morta, che mordeva un tozzo di mela senza stupirsi degli abbracci e delle lacrime di lei. Quando ella ci vide, parve acquietarsi, guardò la dottoressa che conservava la sua mirabile calma.

– Non si ha mai la mente a tutto – diceva costei. – Le cose vanno innanzi lentamente! Io pensavo anche a questa disgraziata, ma è inutile: noi non possiamo mai aver il senso immediato dell'urgenza, dell'imminenza, della necessità! Il mio aiuto sarebbe giunto fra un mese, o più: e chi può misurare le forze di resistenza d'una creatura? Pare forte oggi. Domani è sfasciata a terra come un cencio!

Tutto questo dramma mi pareva una continuazione, uno svolgimento di quello che un genio possente mi aveva edificato davanti agli occhi: ma con qual semplicità spaventevole il destino mi gettava dinanzi una realtà così enorme! Una semplicità che mi incuteva il terrore del mistero. Ecco: una creatura aveva voluto morire. Era morta, niente di più facile. Così facile... e irreparabile!

Ma la dottoressa pensava al marito, ai figli. Ella non si tratteneva mai sull'irreparabile e andava innanzi. Ogni triste avvenimento la stimolava ad agire sempre più prontamente: tutto le era occasione di complicare sempre più le fila delle sue operazioni, come un generale che approfitta d'ogni menomo vantaggio contro un nemico formidabile. Così ogni crisi le era favorevole per condurre i suoi conoscenti verso le sue idee o verso la sua opera: ogni morte le lasciava un'eredità.

Sapete che ho fatto una conquista? – aggiunse dopo un poco, indicando la ragazza. – Ho una recluta nuova che mi può esser preziosa, sapete perché? Perché è bella: io avevo estremo bisogno d'una donna bella e che sapesse sorridere bene. I miei bambini se la disputeranno.

E vedendo le tacite proteste e le denegazioni di lei, come per vincere un'ultima riluttanza:

– È troppo modesta. Crede di non esser buona a nulla... e infatti è proprio necessario esser buone a qualcosa? C'è del pane da distribuire, c'è da accogliere dei poveri affamati mezzo nudi: che cosa è più facile che aver pietà? Che cosa è più desiderabile che aver delle ceste di pane, dei pentolini di minestra da distribuire?

E continuava col suo fluido eloquio di propagandista:

Vedere ogni giorno tanti miserabili non è punto allegro, lo so anch'io! È un malessere, un disagio che ci prende... Ma il malessere che ci viene dalla vista della sofferenza, è subito sollevato dal fatto di poterla far cessare, per un momento almeno, e senza fatica... Lei è una buona sarta: faremo tanti vestitini: avremo della stoffa... Ci sono due opere dove la nostra Biondina può far tanto bene. La Cassa per la Maternità... Lei è della stessa classe. Non ho ragione, Stanga? Va a trovar le madri di famiglia, le persuade a pagar due soldi al mese, due soldi, capisce, per aver di che vivere a casa e curarsi nel tempo della gravidanza... E poi il Pane Quotidiano, dove non sono che vecchi e bambini, bambini e vecchi, che hanno bisogno della gioventù e dell'allegria. E allora la rivedremo fiorire, la nostra bella cara, che vuol lasciarsi ammalare, lasciarsi morire...

E con una mossa tenerissima s'era avvicinata: le carezzò i capelli, l'abbracciò e la baciò in fronte. Il viso della ragazza parve irradiarsi.

– Sono due settimane che la catechizzo – mi diss'ella. – Ora il libro del povero Crastino è in corso di stampa: uscirà presto: abbiamo trovato un buon editore, l'editore di mio papà. Leonardi farà il monumento e lei andrà a posare per un bel bassorilievo di cui ho già visto il disegno, bellissimo. Dopo, che le resterà da fare?

– È vero, – disse la ragazza costernata – la mia vita è finita .

– Perciò – insistè la signorina, fatta improvvisamente grave – bisogna mutar vita: quei giorni devono restar puri. Tu devi considerarti sua per sempre, non è vero? È lui che t'ha detto di vivere, e ha desiderato che tu vivessi in modo che potesse sempre volerti bene, non è vero, cara?

L'altra alzò la testa guardandola con due occhi fermi e luminosi:

– Verrò quando lei vorrà.

– Allora domani! Non perdiamo tempo. Verrò a prenderti.

La baciò sulla guancia, poi si volse verso di me:

–E lei che fa ora?

Io mi sentii leggermente turbato come per un celato rimprovero:

– Non so. Mi preparo... Credo che troverò qualche cosa.

– Vuol che trovi io qualche cosa anche per lei? Vuol che domandi al dottor Semmi, che dice tanto bene di lei? Vuol essere reclutato nell'esercito del bene? Ci penserò e voglio un po' vedere se oserà rifiutare!

Ma nel corridoio si fece un gran rumore di passi pesanti. Vedemmo una cassa entrare nell'uscio. La ragazza scoppiò in un pianto disperato, cui seguì per riflesso il bimbo.

Ricordava ella un'altra cassa, nello stesso corridoio, e il suo morto amore?

La dottoressa la richiuse nella sua soffitta, poi avviandosi disse a me che l'accompagnavo:

– Non si lasci prendere il sopravvento dalla tristezza, dalla tristezza sterile. Ora un momento dalla Salamandra. È ammalata, lo sa?...

E stringendomi forte la mano:

– Bisogna agire, si ricordi!

Dietro di lei mi parve che la mia poca forza di vivere se n'andasse per sempre.

 

«Bisogna agire... ».

Apersi il giornale che avevo comprato. Come potevano i lettori veder altro in quelle colonne, altro che il dramma spaventoso? Come avevano potuto i redattori occuparsi d'altro? «La Banca sconto... La rendita al 4 per cento... L'Eritrea... L'unione delle forze costituzionali!». Ah miseria!

E io, che avevo fatto per quella povera donna? Forse io avrei potuto impedire quel suicidio? Le avevo dato qualche denaro, ed ecco tutto. Era soltanto questo il mio dovere? Ed ecco un'altra cagione di malessere per me... Son io che devo provvedere a che la gente non s'ammazzi? Eppure io ho una parte di colpa. E tutti abbiamo una parte di colpa. È intollerabile!

E il senso dell'impotenza mi abbattè. Aver tanta energia, tanta passione, tanto furore, e sentirmi oppresso come dalle pareti d'un monte!...

Ma io sono come un germoglio di quercia in un vecchio muro, e quanti di questi germogli intorno a me! Così si sgretola, si spacca il vecchio muro!

Io non posso dunque che distruggere: non posso edificare, non posso impiegare la mia forza in nulla. Nessuno vuole la mia vera forza. Tanto non varrebbe buttarla come un cencio ai piedi di chi può?

Forse avrei avuto mezzo di portare qualche meschino aiuto ai miseri che mi morirono d'intorno: potrei forse contare al mio attivo molte piccole azioni, molte consolazioni, molte parole, molte lagrime spese a pro di essi... Ma era necessario ch'io vedessi costoro soltanto, ch'io fossi miope, ch'io non lanciassi la mia mente, il mio cuore ad abbracciare tutte le miserie della terra, ch'io non ne formassi una mole che mi annienta... E io avevo ben altro da dare, posseggo ben altro! Ecco perché non posso pensare che ad un'azione sintetica, grandiosa, feconda.

Quella sera (come mi par già lontana!) errai per Torino in giri interminabili. Si accesero i fanali, si riempirono i recinti all'aria aperta dei caffè: poi i teatri riversarono fuori le loro folle, le strade si sgombrarono, si decimarono le lampade e la città prese il suo aspetto notturno, triste e deserto.

Allora rimase viva soltanto la gente oscura: le donne aspettanti negli angoli delle strade, con la testa scoperta e le mani sotto il grembiale, i ciccaioli col lumicino rasente il selciato, come cani randagi, i cerinai che corrono zoppicando dall'uno all'altro dei due o tre caffè aperti tutta la notte... La sensazione era per me nuova e aveva il suo fascino d'incubo. Volli entrare in uno.

Una vecchia calva dalla faccia ignobile mi aperse la porta, alzandomi in faccia un paniere di cerini e d'altri oggetti. Nell'aria fumosa sedevano fitti, intorno ai tavolini, giovanotti dalla faccia di vecchio e ragazze dai vestiti e dai cappelli fronzuti e irrequieti: esse parevano alberi nani agitati da un vento continuo. Alcuni giocavano fumando e bevendo birra. Io pensavo alle osterie di campagna in cui ero andato qualche volta la domenica, e alle ubriacature che prendeva alcuno dei miei compagni. Quanto meglio che non tutto questo!

Uscito dalla birreria Dreher errai ancora, quasi senza rendermene conto, avendo affatto perduto la nozione del tempo. A un certo punto mi parve di essere seguito: mi volsi e non vidi nessuno. Affrettai il passo, poi lo rallentai per paura di farmi notare. Mi trovai sul ponte della Gran Madre, salii sul Monte dei Cappuccini e coi gomiti sul parapetto della terrazza contemplai a lungo la massa nera della città e il fiume tranquillo e cupo in cui si sospendevano i fanali coi loro riflessi come una duplice collana di stelle, e ne scesi col cuore stretto e col senso vago di qualcosa ch'io stessi abbandonando giorno per giorno, minuto per minuto, come se a tutte le cose, una per una, ch'io vedevo, dovessi dare un addio per sempre.

Per il Corso Vittorio un sonno invincibile mi prese, e una stanchezza mortale. Entrai nel caffè della Stazione e bevvi un latte caldo. Non vi rimasi che pochi istanti. Che spettacolo! Vi parevano accolti tutti i mostri della notte, atroci scherzi d'umanità, nani, sciancati, gobbi, rattrappiti, monchi, coi loro oggetti di vendita, che parevano fare parte della loro deformità, e nessuno destava pietà, ma soltanto ripugnanza e sdegno. Pareva che tutti questi infelicissimi si sforzassero e riuscissero stranamente a simulare le infermità da cui erano affetti, come odiose caricature di veri infelici. E le celie ed i lazzi che ad essi rivolgevano certe donne dalle occhiaie pavonazze, dalle bocche rugose e sbilenche mi destavano dei fremiti d'irritazione e mi spingevano degl'insulti alle labbra.

Appena fuori, l'aria frizzante mi diede una scossa salutare. Mi si rinfrescarono le idee e le mie visioni d'incubo svanirono. Erano le quattro e tutta la città era d'un curioso colore azzurro sotto il cielo che albeggiava. Mi pareva d'aver sognato. Mi posi a camminare verso casa rapidamente. Mi sentivo le membra pesanti e indolenzite: una pàtina amara in bocca mi dava la nausea.

In piazza Castello alcuni operai alla luce d'un fanale a nafta, luminosissimo, collocavano delle rotaie, e i gran colpi di martello, riscotendomi, parevano dare alle mie idee un tono salubre e saldo. Il loro lavoro, tra il sonno della gran città e il piccolo agitarsi di quegli esseri di vizio e d'avvilimento donde uscivo, mi commoveva. Non era in essi la verità e la giustizia? Ebbi un momento l'impulso di dirlo a uno. Io sono forse un retore o forse un artista: ma le cose che immagino con una estrema vivacità e forza e che spesso formulo inconsciamente, non passano mai dal pensiero all'atto. Forse ero nato oratore, o scrittore?

Mentre osservavo, due guardie mi si avvicinarono. Trasalii intimamente, ma rimasi e non mi mossi finché non le sentii oltrepassate. Allora riflettei anche, essere assolutamente necessario ch'io non fossi sospettato per nulla, se mi proponevo in qualsiasi modo d'agire. Ma come avrei voluto persuadere coloro ch'io non sarei mai nocivo... se non a me stesso?

Quella fu la sola notte ch'io passai interamente fuori di casa (il tempo e lo spazio come si sconnettono nel mio cervello!), e mi fece un'impressione enorme. Esisteva dunque una popolazione sotterranea che sbucava la notte fuor dalle cloache, al par degli idrofili neri che si sbattono contro i globi perlacei della luce elettrica: una popolazione che vive sulla viltà, sulla bassezza, sul vizio degli altri, degli altri che dormono al mattino dei sonni senza rimorsi? Che cos'era dunque l'umanità, quest'amalgama di sacrificio e di oppressione, di purezza e di infamia? Per tali esseri poteva trovarsi una salvezza?

Bisogna attendere le generazioni degli uomini sani e buoni e la prole della loro prole! Com'è lontano tutto ciò!

Ad un certo punto, non so come, scorsi distintamente nella mia fantasia due figure, che non avevo mai dapprima associate, una testa serena d'apostolo e una faccina di bimba, il dottor Semmi e la signorina Eva.

Che gioia n'ebbi, un momento, che gioia!

Giunto a casa, una gran calma era entrata in me. Avevo accettato. E mi addormentai d'un sonno tranquillo e profondo.

 

E così la mia vita è passata. C'è forse della gente libera, che viaggia, che osserva paesi e costumi, ed altra che gode, mangia, ride, va alle corse, ai bagni, accanto a quella che muore, muore continuamente... Io non fui tra nessuno di costoro. Io passai accanto alla vita, ma non ne toccai che un lato e un istante solo; intravidi appena il mare enorme e l'onda inesauribile: qualche essere emerse, fino a venire scorto da' miei occhi. Ora il mare si richiude sopra il mio capo per sempre.

 

E ho scritto... A mano a mano mi pareva di liberarmi da me stesso, dalla mia vita, dalla mia miseria, per entrare nudo e puro nella grande vita.

 

È venuta la dottoressa Eva, tutta affaccendata a trasportar la Salamandra all'ospedale. Altri occuperà la sua soffitta. Alle note finestre visi d'ignoti si affacciano e mi guardano senza uscir dalle loro preoccupazioni miserevoli. Non rimane se non il fischiettìo di Cimisin che il gusto del veleno non ha troppo amareggiato. Dacché egli abita qui, quanti sono affondati nel vortice! E sull'ombra che si richiude il vecchio pazzo zufola...

 

Ecco, in fondo al cortile la signorina Eva. Scompare... Addio, visione di sole! Possa io averti negli occhi morendo! Mi ha fatto cenno di saluto da lontano...

Come era bello il sole!...




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License