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Giovanni Cena
Gli ammonitori

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Ed eccomi solo, ora, definitivamente, dinanzi a me stesso.

Temo io forse? No. Mi vedo. Un punto nero appare lontano lontano; ingrossa, avanza, s'avventa. Ecco: balzo in mezzo alla strada, chiudo gli occhi immoto, rigido... Ah!

Da quell'attimo, da quell'urto incomincerà per Qualcuno una nuova vita... forse per molti.

Si traviserà la cosa? Scriveranno i giornali d'un povero pazzo...? Per qualche ora, poi si farà la luce.

Uno di questi giorni, tutto sarà finito; forse domani.

Non ho nessuna ragione che mi trattenga. Io credo aver trovato il senso della vita generale. L'individuo non può esser felice per se stesso, perché in fondo a tutto ciò è la morte. Il segreto dunque della felicità anche per l'individuo mortale è di sentirsi immortale, di sentirsi cioè vivere dentro gli altri, dentro l'umanità, dentro l'Essere universale. La morte dunque non m'importa: ripugna a tutta la compagine che forma il mio essere, ripugna alla vaga coscienza che hanno tutte le mie molecole, tutte le unità elementari che formano di me una colonia; esse anzi mi faranno sentire tutta la loro forza coesiva al momento dell'atto: ma non ripugna alla mia coscienza superiore.

Vivere è per me troppo doloroso: ogni sofferenza altrui si ripercuote ora in me con troppa violenza. Io potrei essere il più sfortunato dei miei simili e non soffrirei un millesimo di quello che soffro ora, che mi sento penetrato, inebriato da tutta la sofferenza degli uomini. Fuggire l'agglomeramento, la città, il contatto dei miei simili e rifugiarmi nei campi, isolarmi in mezzo alla natura sana e serena? Ma ora anche le lande, ove gli eremiti si seppellivano, sono proprietà d'alcuno e in nessuna parte tace l'eco della miseria... D'altronde è troppo tardi.

Ho trovato per gli altri la ragione di vivere e per me la ragione di morire. Il suicidio è viltà quando significa fuga. Io non fuggo. Io m'immergo nella vita: io certamente, colla mia morte, comunque fruttifichi, e il sacrifizio non è mai senza frutto, un maggior senso di libertà e di solidarietà ai miei simili. Io dico a chiunque viva oggidì, posto dalla società in qualsiasi condizione: «Bisogna operare e amare. Bisogna limitare il proprio volere, congiungerlo in armonia col volere dei nostri simili. Umile o precipua parte nel coro sociale, espandi in tutta la sua potenza l'anima che ti diede il destino, abbraccia l'umanità e la natura, compenetrati e fortificati di esse: opera ed ama!».

La scossa ch'io a quest'onda repentina d'umanità che va faticosamente orientandosi nell'armonia, sarà come l'urto che sconquassa un organamento vizioso, liberandone gli elementi, acciocché trovino la lor via e il loro posto. La mia morte volontaria dunque è una testimonianza in favore della vita.

Stanotte dormirò? Fra qualche giorno tutto sarà finito. Non temo di me stesso: solo soffrirò in questo tempo molte impazienze e inquietudini, aspettando l'attimo.

Poi... dormirò.

FINE

 

 

 




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