I
QUANDO il
primaveril sole s'accende
mite e la linfa nel
terren ribolle
come in un corpo
giovine, le zolle
brulicano e la
scorza aspra si fende.
E mentre nella
siepe un nido attende
una covata e
schiudonsi corolle
come infantili
occhi stupiti, un molle
tappeto lungo i
solchi si distende.
Piegano brividendo
le sottili
cime nella carezza
che s'imprime
come in
capigliature puerili.
e che allegrezza
quando tenerine
sui culmi lunghi,
fuor da le guaine
aguzze tremeran le
spighe prime!
II
SPLENDETE, o
giorni, limpidi e benigni!
le spiche
inturgidiscono e la veccia
tra' verdi gambi e
fiordalisi intreccia:
cupi frastagli e
petali rossigni.
Le mondaiole vanno
e di sanguigni
papaveri
s'infiorano la treccia:
cantando la canzone
villereccia
svelgon dal grano i
cespiti maligni.
É il meriggio. La
terra ardente e muta
nell'abbraccio del
sol pare svenuta:
e 'l coro canta in
voce illanguidita:
«Quella mattina che
l'andò nell'orto
vide la rosa bianca
inaridita,
o me! o me! Povero
amore è morto!»
III
E mentre giugno a
le colline apriche
i caldi succhi
negli acini prome,
a la trebbia
verranno alte le biche
e daranno a' mulini
grevi some.
Ondeggia l'oro
eguale e vasto come
fluido lago su le
zolle antiche:
piegano da leggier
zefiro dome
sui frali gambi le
ricolme spiche.
Sur uno spalto un
bove bianco e grande
guarda col glauco
occhio sereno e spande
l'augurale mugulo
nel piano.
O Madre, nel cui
grembo si rinnova
la morta vita con
la vita nuova,
o Terra, dànne il
pan quotidiano!
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