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Giovanni Cena In umbra IntraText CT - Lettura del testo |
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4 - Il poeta (A Pellizza da Volpedo)VIDE sentieri stendersi e fiorire a sé davanti d'ideali fiori: accennavano lunge i primi albori: ei s'avviò di fronte a l'avvenire.
Quando vide il sentiero in traditori avvolgimenti torcere e sparire, cinto le membra di tenaci spire, il sangue suo fluì da tutti i pori.
In ogni sasso è di quel sangue traccia, ogni roveto ha di sue carni un brano. Cadde. Ma non passò Samaritano
a trarlo su la sua cavalcatura. Così giacque morente, e la natura non pianse e il sole non velò sua faccia.
I
NEL crepuscolo gelido la neve che assidua sui culmini s'affolta tien la soffitta sotto il manto greve come in sudario candido raccolta.
Vaghi baglior da la finestra breve imbiancan le pareti e da la volta che obliqua preme, si fende e s'imbeve, la neve filtra in lente gocce sciolta.
Starnazza il vento con un rombo cupo entro la gola del camino impura radendo con rigore aspro di lame.
Il poeta supino su lo strame spasima in quell'aerea sepoltura ch'eresse un giorno l'uomo a l'uomo lupo.
II
O bianco paesel che riappare inerpicato su 'l confin del piano, dove brilla un deserto casolare e un cimitero al sol meridiano!
Gli offerse ivi la terra salutare in premio del sudor quotidiano la gioia in vita e un solco ove posare le membra un dì, non solo e non invano.
O, per l'ultima volta visione bianca ritorni fuor dell'ombre gravi? Povere croci in quella terra santa!
E una voce nell'orto lungi canta... O Maria quest'è pur la tua canzone! Ridevan gli occhi ceruli soavi.
III
IL canto egli sapea dell'usignuolo appreso un tempo a la natal pineta e la dolce d'amor pena segreta amava ricantar piangendo solo.
Ma quando vide i suoi fratelli al suolo ignudi, sorse libero poeta con alte voci a predicar la lieta novella e stimolar l'ignavo stuolo.
Stavano i tristi sotto i cieli bui come armenti adunati ad olocausti curvando i corpi già sì poderosi.
E fra tanto squallor vedendo lui pianger i pianti ond'erano essi esausti guardavano in quel volto dubitosi.
IV
EGLI parlò gemendo e quando l'eco tacque della fortissima rampogna, si levarono muti di vergogna, poi esclamò ciascuno: «Eccomi teco!»
Ma quelli che tesserono con bieco ingegno l'empia secolar menzogna, come un ladro lo misero a la gogna e rinchiusero in antro umido e cieco.
E un giorno avesti da misericordi mani la libertà perché morissi di fame lungi o pur di mal sottile…
Così mi torna agli occhi umidi e fissi la tua vista che fu quasi infantile… O ricordi! Terribili ricordi!
V
E da l'alto mirando la sommersa città nell'ombra che di neve albeggia, dove i camini sembrano una greggia lungo scialbi declivii dispersa,
vede la strada in baratro conversa, che di barlumi qua e là biancheggia in cui, rombando come un flutto, ondeggia nera la folla raminga e diversa.
Ahi qual gorgoglia nell'oscuro fondo verso i cieli vaporando sale effluvïo d'angoscia e di delitto!
Guata, sbarrando le pupille, fisso, e un pensiero fulmineo l'assale; «S'io mi lanciassi dentro a capofitto?»
VI
RISPLENDONO finestre lungi, quali aperti su la via grand'occhi d'oro: a lui dice uno spirito canoro come in un soffio cose alte e fatali.
«O folleggiante di felici coro che svoli intorno a ceri funerali, di quanti suscitasti odî mortali coglierai il terribile tesoro.
I tuoi campi avran frutti di paludi: cenere il grano, il vino tuo veleno: per te li agnelli vestiranno spine.
Ma i tuoi figli che nasceranno ignudi benediranno il sol giusto e sereno dopo la notte ch'è presso a la fine.»
VII
ORA ten va, sognante anima e sola caduta nelle tue superbe sfide: la luce che seguivi, ecco, s'invola e il diuturno sogno si recide.
Le vie che tu calcavi erano infide: l'ideal cui tendevi era una fola. Così la vota illusion t'irride e la feroce realtà t'immola.
Pallido asceta! E tu la notte scruti, quella che amasti notte ampia sonora per cui voci s'udian, lucevan forme
care a' tuoi sensi vigili ed acuti. Or t'involge la tenebra deforme. Quest'è la notte cui non segue aurora.
VIII
GIACE. D'un tratto guarda. Si commove l'ombra. Parole ambigüe, remote s'appressano sonando: voci note al certo: visi già veduti: dove?
Ma sorge un turbinìo vivo, di nove forme, laide, terribili. Si scuote la parete. Un rombar cupo di ruote: un crollo ed uno schianto; or tutto move.
Tutto s'avventa dentro il ciel di fiamma: sul capo il cielo e sotto i piedi il cielo: il ciel di sangue, infinito, infinito...
E tutto è sangue. Lo avviluppa un velo tepido. Balza: un grido ch'è smarrito da tant'anni, prorompe: O mamma, mamma!
IX
E ricade gemendo. Come un'onda morta di stagno giace estenuato lo spirito. Ma fuor della profonda ombra, come una fiera da l'agguato
sbuca una forma tacita ed immonda: tende le braccia a lui senza trar fiato: brancica al buio: poi, ratta, la sponda del letto ascende e gli si corca a lato.
Viscida, serpentina gli si pone intorno al corpo e l'avvinghia e lo sugge: «Spirto di fiamma, corpo di fanciulla,
di tua sublime vita che mi sfugge? Ti prendo e son la dissoluzione!» E la più pura vita entrò nel nulla.
X
VIVE! Vive! Nel fluido elemento fuor dai corpi tangibili ed impuri fin che l'essenza incorruttibil duri è la sua vita senza mutamento.
Ma quando sieno gli uomini e l'evento parati e alla vittorïa maturi, su dai recessi delle tombe oscuri lo spirito uscirà simile a vento.
Aleggerà fra gli aspettanti, quale aureola di fiamma su le fronti: gonfierà petti e sciorrà mute bocche.
E i vigili poeti da le rocche «Sorgete» sclameranno «è vinto il Male! ecco già grande il Sole, ecco, sui monti!»
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