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Giovanni Cena
In umbra

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  • FUNUS (Ad Arturo Graf)
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FUNUS (Ad Arturo Graf)

 

I

 

ONDE la visione orrenda sorse

che m'ha fatto a parlare arido e fioco

sì ch'io rimango di mio senno in forse?

 

Io tali cose vidi in ogni loco

che ancora attendo da' meridiani

cieli tempeste e turbini di fuoco.

 

Dai monti augusti ch'erano vulcani

di sacra fiamma, le cui cime pure

parevan tese al ciel candide mani,

 

fendersi vidi molte bocche impure

fumide, vomitanti in polle dense

com'ebri su la via melma e sozzure.

 

E dai cieli scendevano le immense

ombre come palpabili velarî

per cui serpean lingue di fiamma intense.

 

Spandeansi lungo i fianchi i flutti, pari

a fiumi per soverchie acque rigonfi

e le valli eran colme, i piani, i mari.

 

Cupamente cantava i suoi trionfi

la melma, in cui le cime più serene

vid'io piombar con fragorosi tonfi.

 

Sparnazzavan nel fosco aer oscene

forme e sbucando da' gorghi maligni,

grandi mostri inarcavano le schiene.

 

Pullulavano bolle di rossigni

vapori, a' cui fosforei bagliori

splendeano fauci immani, occhi sanguigni.

 

O giardini divini ov'eran fiori

puri, ove scendeano l'api a nembi:

arbori che chiudevano tesori

 

d'infantili bisbigli dentro a' grembi

pudibondi! Fiumane su' cui lati

la terra distendea floridi lembi:

 

o colli come altari consagrati!

Tutto è polluto dentro l'onda immonda

e profanato da putridi fiati.

 

Tutto la rea corruzion circonda

violando ed il cielo è ben remoto:

sangue dai cieli spalancati gronda!

 

Quest'è dunque la fine? Io giaccio immoto

su l'onde nere, vigile, le braccia

come di piombo; e 'l corpo non ha moto

 

per fuggir da la tragica minaccia.

Orsù, fuochi del cielo, divampate:

né della terra più rimanga traccia.

 

Risorgano le cose immacolate!

 

 

II

 

UOMINI emersi innumeri sui fianchi

del Monte si torceano. Brulicanti,

torme di corpi su la costa bianchi

 

adunghiavano i sassi erti e le piante

nane. Sorgevan altri presso a riva

abbracciati ad informi cose infrante,

 

e l'onda invidiosa li rapiva

vivi nel gorgo e vomitava morti.

Fremeva il monte pari a cosa viva.

 

E i flutti pur salian come coorti

compatte di cavalli scalpitanti.

Guardando abbrividivano i risorti.

 

Macigni s'ingoiavano con schianti

onde infiniti percoteansi gli echi

negli abissi tra 'l vortice anelanti.

 

E gli uomini correvan sotto i ciechi

firmamenti con ansia enorme e il Monte

appariva talor nei lampi biechi

 

un mostro nero immane, con la fronte

immersa nelle stelle anguicrinite,

solo emergendo in mezzo all'orizzonte,

 

formicolante al piè di mille vite.

E da lunge pareva il brulichio

un polipo di braccia irte infinite.

 

Ma dal Mare e dal Monte un mormorio

sorse ed un grido. Tutti i petti esausti

s'effusero in estremo impeto a Dio.

 

Fumava il cielo come d'olocausti.

 

III

 

E quei che dentro l'Ombra si nasconde

E noi cerchiam nello splendor diurno

quei che invocato sempre non risponde,

 

cui pregano d'aiuto e di perdono

amato e maledetto Taciturno

ed ei non dice ai moribondi: «Io sono»

 

rimase tra le dense nubi muto,

però che il giorno estremo era venuto.

 

 

IV

 

CUPO era l'aër, cavo e senza veli

dove una croce fulse di scintille.

Poi figure addensate a mille a mille

s'accesero e s'estinsero ne' cieli.

 

Angioli in atti supplici o crudeli,

ferine piante, mostri con pupille

onde gocciavan rosse a terra stille

su le fronti pallenti e su gli steli.

 

Rombò la terra. Parve che il gran giogo

si spaccasse: piombavan le ruine

che a uomini ed a belve erano tombe.

 

Muti, adunati come in ecatombe

attesero i superstiti che alfine

fosse la terra a la sua stirpe rogo.

 

 

V

 

O Tu che le tempeste agiti e scagli

e 'l mar sollevi e i monti apri e scoscendi,

di tenebre coperto e di barbagli,

 

che di saette repentine fendi

l'aer profondo e nella notte muta

più densa l'ombra dopo il lampo rendi.

 

Tu che rimani là da quel che muta,

cui nell'esiguo spazio sommersa

l'anima implora e la creta rifiuta.

 

Vedi qual sangue e quai lagrime versa

l'uom solitario, poi che dolorare

in sé risente l'anima universa.

 

Invano l'uomo interrogò l'ignare

apparenze. Fra gli astri accesi cupa

è l'ombra e 'l vero dietro il sol dispare.

 

Sgombra l'orror di morte che ci occùpa

Dio della vita, però che una trista

brama nel vòto nulla ci dirupa.

 

E se la tua possanza non conquista

l'abisso di miseria che c'ingoia,

se la creta si strugge a la tua vista,

 

l'Uomo contempli la tua faccia e muoia!

 

 




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