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Giovanni Cena In umbra IntraText CT - Lettura del testo |
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3 - Pomeriggi canavesani (al pittore A. M. Mucchi)SE ti punga desio di più sereni cieli in codesta bolgia ove tu avvampi, un dì tra' miei laboriosi campi, nel gran respiro della terra, vieni;
o solitario amico cittadino, chiuso in tuoi panni come in salde maglie, che un giorno i bracchi fervidi e le quaglie pettegole destavano al mattino!
Andremo erranti per sentieri insieme, umiliando l'anima superba. Meco vedrai fiorire ogni fil d'erba, udrai nel suolo fendersi ogni seme.
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Nel cielo puro e vasto come un mare cavo d'azzurro il sol possente regna, e le nubi di lembi argentei segna che paiono in quell'onde navigare.
O grande mar diafano che incide il profil delle vette acute in giro, come esultante la gran conca miro sotto il tuo riso che universo ride!
O grande arco dell'alpi gloriose! Salgono a te dal piano, su le caste frigidità le nubi pigre e vaste, nembi di gigli, cumuli di rose!
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Su la terra tripudia la vita. Tutte le cose stanno assorte e mute, ma tra' muschi gorgogliano le argute fontane. Qualche pura acqua romita
tra mezzo a' sassi e l'eriche rampolla. Un fruscio di locusta passa, un rombo celere d'ale, il brontolio d'un bombo od il trillìo d'un grillo su la zolla.
Io mi soffermo e chiudo gli occhi, pregni di luce, e ascolto i palpiti sonori. Non sono esausti in me tutti i tesori, Madre? Sono i miei occhi ancora degni?
E aspiro lungo i marghi le corolle protese al vento disiosamente, mentre amor leva il polline lucente e scioglie i germi gonfi entro le zolle.
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Nella siepe s'intricano le rame intorno a un piccol nido che pispiglia, dove una madre veglia una famiglia e rimira guardinga tra 'l fogliame,
trasalendo, se là dove s'azzuffa un ammasso di spini irti sul fosso, frugar oda un ramarro in fuga mosso o la rana che in acqua si rituffa.
Quanta vita selvaggia! Quanti succhi munti all'arena avara, erbe maligne! Ruvide foglie, livide, sanguigne, cardi, ortiche, pruni, atropi, vilucchi,
rovi da cui occhieggiano le more com'occhi di libellule spianti, viticchi e ricci e spire inerpicanti… Ed in lor ombre intumidano spore
venefiche. Dintorno il buon frumento fugge da quel rapace stuol che preme. Così, villico improvvido, il mal seme ogni nostra fatica sperde al vento!
*****
Mentre qui, dove il rivo si dirupa, sedendo guardo, tra le delicate acace, le colline miniate su la massa dei monti azzurro cupa,
un'erbaiola gorgheggia d'amore tra le saggine e l'irte erbe recide. Ella canta: «Una bocca mi sorride, mi sorride una bocca e m'ama un core…»
Poi si leva nel solco alta, vermiglia, come un gran fior tra le selvagge aiuole, dove sui fusti rigidi nel sole il pendulo fagiolo s'attorciglia.
Quasi schierata lungo i solchi piega i ricolmi pennacchi la saggina: a lei la bionda meliga s'inchina e le guaine hanno stridii di sega.
E col fascio dell'erba s'incammina, nuda le braccia e 'l seno. Ed io da lunge guardo… Nessun rimpianto antico punge lei che si trastullò meco bambina!
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E poi che verso l'Alpi azzurre, ingombre di vapori, contende il sole e neri si fanno i boschi e sui bianchi sentieri le file degli ontani allungan l'ombre,
a lenti passi ripigliam la via del borgo, tra le grige canapaie, tra' boschi dove gracchian le ghiandaie e 'l cacciator di tra le fronde spia.
Nei seminati vociano bifolchi dietro gli aratri e 'l vomero s'intrude. Si fendono le zolle asciutte e crude: volano corvi ne' recenti solchi.
Mi volgono da lunge ampî saluti i falciator' da' bronzei petti nudi. È la serenità ne' volti rudi. Le adunche falci hanno barbagli acuti.
Tornano da le stoppie, ove s'affolta maturata di già la lupinella, cacciando innanzi lentamente nella strada bianca la mandria disciolta;
vigili, se una voce lamentosa avvisi lungo il tràino che passa; dilegua esso ululando ed una bassa nuvola sovra i pascoli si posa.
E se una croce memore sui cigli d'un borro sorge o su l'orlo d'un ponte, passando a canto piegano la fronte, fatti pensosi e muti un tratto. O figli
integri della terra, son cadute le parvenze del mio superbo sogno. Voi siete forti e buoni: io mi vergogno, però che volli a voi recar salute!
*****
O fiume che dipingi nelle chiare acque il bel cielo e i penduli querceti, dove le vacche bianche di sui greti levansi con gli umani occhi a guardare,
io tuffo nelle chiare acque la faccia e nel passato l'anima profonda. Ah da quel dì che nell'età gioconda io mi venni a gittar fra le tue braccia,
passò dentro 'l mio cuor tanto dolore, quant'è fra le tue rive onda passata! Fiacco è 'l mio corpo e l'anima malata: la giovinezza mia sterile muore.
Ed or quasi vorrei in te calare come bimbo che fugge una minaccia, padre! Oh per sempre, chiuso da tue braccia sotto immobili cieli andare andare!
Mentre tu da le cime irte di torri dirute, intorno a cui tripudianti alzarono i miei padri incendî e canti, calmo o torvo com'essi, al pian trascorri.
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E tutto vive, tutto canta a' cieli inni di luce, di suoni, di odori! Così, santa natura, a me i tesori dell'eterne bellezze tue non celi.
E umilmente nel tuo seno anch'io, fra l'ardua pugna che imperversa e mugge, vo rintracciando quel che ognor mi fugge, degli uomini e di me sereno oblio!
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