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Melchiorre Cesarotti Poesie di Ossian IntraText CT - Lettura del testo |
Soavi note, dilettose istorie,61
Raddolcitrici de' leggiadri cori!
Soggiunse Cucullin. Tal molce il colle
Rugiada del mattin placida e fresca,
Quando il sogguarda temperato il sole,
E la faccia del lago è pura e piana.
Segui, Carilo, segui; ancor satollo
Non è 'l mio cor. La bella voce sciogli,
Dinne il canto di Tura, il canto eletto
Che soleasi cantar nelle mie sale;
Quando Fingallo il gran signor dei brandi
V'era presente, e s'allegrava udendo
O le sue proprie, o le paterne imprese.
Fingallo, uom di battaglia (in cotal guisa
Carilo incominciò) prevenne gli anni
La gloria tua. Nel tuo furor consunta
Restò Loclin, che la tua fresca guancia
Gara avea di beltà con le donzelle.
Esse amorosamente alla fiorita
Vezzosa faccia sorridean, ma morte
Stava nella sua destra. Avea la possa
Della corsìa del Lora; i suoi seguaci
Fremeangli addietro come mille rivi.
Essi il re di Loclin, l'altero Starno62
Presero in guerra, e 'l ricondusser poi
Alle sue navi: ma d'orgoglio e d'ira
Rigonfiossegli il core, e nel suo spirto
Piantossi oscura del garzon la morte:
Perché non altri che Fingallo avea
Vinta di Starno l'indomabil possa.
Stava in Loclin costui dentro la sala
Delle sue conche, e a sé chiamò dinanzi
Il canuto Snivan63; Snivan che spesso
Cantava intorno al circolo di Loda64,
Quando la pugna nel campo dei forti
Volgeasi, e a' canti suoi porgeva ascolto
La Pietra del poter65. Snivan canuto,
Va', disse Starno, alle dal mar cerchiate
Arvenie rocce; ed al possente e bello
Re del deserto66 tu dirai, ch'io gli offro
La figlia mia, la più gentil donzella
Ch'alzi petto di neve; essa ha le braccia
Candide al par della marina spuma;
Dolce e nobile il cor. Venga Fingallo,
Venga co' suoi più forti alla vezzosa
Vergine figlia di segreta stanza.67
Alle colline d'Albion ventose
Venne Snivano; e 'l ben chiomato eroe
Seco n'andò: dinanzi a lui volava
L'infiammato suo cor, mentr'ei l'azzurre
Nordich'onde fendea. Ben venga a noi,
Starno gridò, ben venga il valoroso
Re di Morven scoscesa; e voi ben giunti
Siate pur suoi guerrieri, illustri figli
Dell'isola solinga: in feste e canti
Vi starete tre giorni, e tre le belve
Seguirete alla caccia, affin che possa
Giunger la vostra fama alla donzella
Della segreta stanza abitatrice.
Sì fintamente favellò l'altero
Re della neve68, e meditava intanto
Di trarli a morte. Nella sala ei sparse
La festa delle conche. Avea sospetto
Fingàl di frode, ed avvedutamente
L'arme ritenne; si sguardar l'un l'altro
Pallidi in volto i figli della morte,
E taciti svanir. S'alzan le voci
Della vivace gioja: arpe tremanti
Mandan dolce armonia; cantano i vati
Scontri di pugna, o tenerelli petti
Palpitanti d'amor. Stava tra questi
Il cantor di Fingallo, Ullin69, la dolce
Voce di Cona. Ei celebrò la bella
Vergine della neve70, e 'l nato al carro
Signor di Selma: la donzella intese
L'amabil canto, e abbandonò la stanza
Segreto testimon de' suoi sospiri.
Uscì di tutta sua bellezza adorna,
Quasi luna da nube in oriente.
Le leggiadrie cingevanla e le grazie
Come fascia di luce: i passi suoi
Movean soavi, misurati, e lenti
Come armoniche note. Il garzon vide,
Videlo, e n'arse. O benedetto raggio!
Disse tra sé. Già del suo core egli era
Il nascente sospiro, e a lui di furto
Spesso volgeasi il desioso sguardo.
Tutto raggiante il terzo dì rifulse
Sul bosco delle belve. Uscì Fingallo
Signor dei scudi, e 'l tenebroso Starno.
Del giovin prode rosseggiò la lancia
Nel sangue di Gormallo71. Era già 'l sole
A mezzo il corso suo quando la bella
Figlia di Starno al bel Fingal sen venne
Con amorosa voce, e coi begli occhi
In lagrime girantisi e tremanti;
E sì parlò: Fingallo, ah non fidarti
Del cor di Starno; egli nel bosco agguati
Pose contro di te, guardati o caro
Dal bosco della morte: ad avvisarti
Spronami amor: tu generoso eroe
Rammenta Aganadeca, e mi difendi
Dallo sdegno del padre. Il giovinetto
L'udì tranquillo, ed avviossi al bosco
Spregiantemente: i suoi guerrier possenti
Stavangli a fianco. Di sua man cadero
I figli della morte, e a' loro gridi
Gormallo rimbombò. Rimpetto all'alta
Reggia di Starno si raccolser tutti
Gli stanchi cacciatori. Il re si stava
Torbido, in sé romito; avea sul ciglio
Funesta nube, atro vapor negli occhi.
Olà, gridò l'altero, al mio cospetto
Guidisi Aganadeca; ella ne venga
Al re di Selma, al suo leggiadro sposo:
Già del sangue de' miei tinta è la destra
Del suo diletto72; inefficaci e vane
Non fur sue voci: del fedel messaggio
È giusto il guiderdon. Venne la bella,
Sciolta il crin, molle il ciglio: il bianco petto
Le si gonfiava all'aura de' sospiri,
Come spuma del Luba. Il fero padre
L'afferrò, la trafisse. Ella cadeo
Come di neve candidetta falda,
Che dalle rupi sdrucciolar del Rona
Talor si scorge, quando il bosco tace,
E basso per la valle il suon si sperde.
Giunse Fingal, vide la bella; il guardo
Vibrò sopra i suoi duci, e i duci suoi
L'arme impugnaro: sanguinosa e negra
Pugna mugghiò; Loclin fu spersa, o spenta.
Pallida allor nella spalmata nave
La vergine ei racchiuse: in Arven poi
Le alzò la tomba; or freme il mar d'intorno
All'oscura magion d'Aganadeca.
Benedetto il suo spirto, e benedetta
Sii tu, bocca del canto, allor riprese
Di Semo il figlio. Di Fingal fu forte
Il braccio giovenil, forte è l'antico.
Cadrà Loclin sotto l'invitta spada,
Cadrà di nuovo: esci da' nembi, o luna,
Mostra la bella faccia, e per l'oscura
Onda notturna le sue vele aspergi
Della serena tua candida luce.
E se forse lassù sopra quel basso
Nebuloso vapor sospeso alberghi,
O qual che tu ti sia spirto del cielo,
Cavalcator di turbini e tempeste,
Tu proteggi l'eroe, tu le sue navi
Dagli scogli allontana, e tu lo guida
Securo e salvo ai desiosi amici.
Sì parlo Cucullin; quando sul colle
Salì di Mata il valoroso figlio
Calmar ferito: egli venia dal campo
Nel sangue suo; ne sostenea la lancia
I vacillanti passi: ha fiacco il braccio,
Ma indomabile il cor. Gradito a noi
Giungi, disse Conàl, gradito, o forte
Figlio di Mata. Ond'è ch'esce il sospiro
Dal petto di colui, che in mezzo all'arme
Mai non temè? - Né temerà giammai,
Sir dell'acuto acciar. Brillami l'alma
Entro i perigli, e mi festeggia il core.
Son della schiatta dell'acciaro, a cui
Nome ignoto è 'l timor. Cormar fu 'l primo
Della mia stirpe. Eran suo scherzo e gioco
Flutti e tempeste: il suo leggiero schifo
Saltellava sull'onde, e gìa guizzando
Su le penne dei venti. Un negro spirto
Turbò la notte. Il mar gonfiasi, i scogli
Rugghiano: i venti vorticosi a cerchio
Strascinano le nubi; ale di lampi
Volan focose. Egli smarrissi, a terra
Ei ricovrò; ma s'arrossì ben tosto
Del suo timore: in mezzo al mar di nuovo
Scagliasi, il figlio a rintracciar del vento.
Tre giovinetti del suo legno han cura,
E ne reggon il corso. Egli si stava
Col brando ignudo: ecco passar l'oscuro
Vapor sospeso: ei l'afferrò pel crine
Rapido, e con l'acciaro il tenebroso
Petto gli ricercò: l'aereo figlio
Fuggì stridendo, e comparir le stelle.
Tal fu l'ardir de' miei: Calmar somiglia
Ai padri suoi. Dall'inalzata spada
Fugge il periglio: uom c'ha fermezza, ha sorte.
Ma voi progenie delle verdi valli,
Dalla del Lena sanguinosa piaggia
Scostatevi; adunate i tristi avanzi
Dei nostri amici, e di Fingallo al brando
Ad unirvi correte. Il suono intesi
Dell'oste di Loclin che a noi s'avanza.
Partite, amici, resterà Calmarre,
Calmar combatterà: bench'io sia solo,
Tal darò suon come se mille e mille
Fossermi a tergo. Or tu, figlio di Semo,
Rammentati Calmàr, rammenta il freddo
Corpo giacente. Poi ch'avrà Fingallo
Guasto il campo nemico, appo una pietra
Di memoria73 ripommi, onde il mio nome
Passi ai tempi futuri, e si rallegri
La madre di Calmàr curva sul sasso
Della mia fama. Ah no, figlio di Mata,
Rispose Cucullin, non vo' lasciarti;
Io sarò teco: ove più grande e certo
Rischio s'affaccia, ivi più 'l cor di gioja
M'esulta, e ferve, e mi s'addoppia in petto.
Forte Conallo, e tu Carilo antico,
Voi d'Inisfela i dolorosi figli
Scorgete altrove; e quando al fin sia giunto
L'aspro conflitto, rintracciate i nostri
Pallidi corpi: in questo angusto passo
Presso di questa pianta ambedue fermi
Staremci ad affrontar l'atro torrente
Della pugna di mille. O tu, va', corri
Figlio di Fiti, ale di vento impenna.
Vanne a Fingàl, digli ch'Erina è bassa,
Fa' che s'affretti. Oh venga tosto a noi
Qual vivo sole, e le tempeste nostre
Sgombri coi raggi, e rassereni il colle.
Grigio in Cromla è 'l mattin; sorgono i figli
Dell'oceàno. Uscì Calmar fumante
Di bellicoso ardor; ma pallida era
La faccia sua: chinavasi sull'asta
De' padri suoi, sopra quell'asta istessa,
Che dalle sale egli portò di Lara,
E stava mesta a risguardar la madre.
Ma or languido, esangue a poco a poco
Manca, e cade l'eroe; qual lentamente
Cade sul Cona sbarbicata pianta.
Solo rimane Cucullin qual rupe
Nell'arenosa valle: il mar coi flutti
Viensene, e mugge su i petrosi fianchi;
Stridono i massi, e la scoscesa fronte
Spruzza e ricopre la canuta spuma.
Ma già fuor fuor per la marina nebbia
Veggonsi a comparir le di Fingallo
Bianco-velate navi; e maestoso
S'avanza il bosco dell'eccelse antenne.
Svaran l'adocchia, e di combatter cessa
D'Inisfela l'eroe. Qual per le cento
Isole d'Inistor s'arretra, e ferve
Gonfia marea; sì smisurata e vasta
La possa di Loclin scese a rincontro
All'alto re dei solitari colli.
Ma lento, a capo chin, mesto, piangente,
La lunga lancia traendosi dietro,
Cucullin ritirossi, e si nascose
Dentro il bosco di Cromla, e amaramente
Pianse gli estinti amici. Egli temea
L'aspetto di Fingàl, che tante volte
Seco già s'allegrò74, quand'ei tornava
Dal campo della fama. Oh quanti, oh quanti
Giaccion colà de' miei possenti eroi,
Sostegni d'Inisfela! essi che un tempo
Festosi s'accogliean nelle mie sale,
Delle mie conche al suon. Non più sul prato
Le lor orme vedrò; non più sul monte
Udrò l'usata voce. Or là prostesi
Pallidi, muti, in sanguinosi letti
Giacciono i fidi amici. O cari spirti
Dei dianzi estinti a Cucullin venite;
Con lui vi state a favellar sul vento
Quando l'albero piegasi, e bisbiglia
Su la grotta di Tura: ivi solingo
Giacerò sconosciuto; alcun cantore
Non membrerà 'l mio nome, alcuna pietra
A me non s'ergerà. Bragela addio:
Già più non son, già la mia fama è spenta;
Piangimi cogli estinti, addio Bragela.
Sì parlò sospirando; e si nascose,
Ove la selva è più selvaggia e cupa.
Ma d'altra parte maestosamente
Passa Fingàl nella sua nave, e stende
La luminosa lancia: orrido intorno
Folgoreggia l'acciar, qual verdeggiante
Vapor di morte che talor si posa
Su i capi di Malmor: scura è nel cielo
La larga luna, il peregrin soletto.
Terminato è 'l conflitto; io veggo il sangue
De' nostri amici, il Re gridò; le quercie
Gemon di Cromla, e siede orror sul Lena.
Colà cadèro i cacciatori; il figlio
Di Semo non è più. Rino75, Fillano,
Diletti figli, or via, sonate il corno
Della battaglia di Fingal; salite
Quel colle in su la spiaggia, e dalla tomba
Del buon Landergo76 il fier nemico in campo
Sfidate alla tenzon. La vostra voce
Quella del padre nel tonar pareggi,
Allor che nella pugna entra spirante
Baldanza di valor: qui fermo attendo
Questo possente uom tenebroso; attendo
Con piè fermo Svarano. E venga ei pure
Con tutti i suoi; che non conoscon tema
Gli amici degli estinti. Il gentil Rino
Volò qual lampo; il brun Fillano il segue
Pari ad ombra autunnal. Scorre sul Lena
La voce loro: odon del mare i figli
Il roco suon del bellicoso corno,
Del corno di Fingallo; e piomban forti,
Grossi, mugghianti, qual riflesso oscuro
Del sonante oceàn, quando ritorna
Dal regno della neve: alla lor testa
Scorgesi il re superbo: ha tetro aspetto
D'ira avvampante, occhi rotanti in fiamma.
Lo rimirò Fingallo, e rammentossi
D'Aganadeca sua: perché Svarano
Con giovenili lagrime avea pianto
La gentil suora dal bel sen di neve.
Mandò Ullino dai canti, e alla sua festa
Cortesemente l'invitò; che dolce
Del nobil Fingàl ricorse all'alma
Del suo primiero amor la rimembranza.
Venne l'antico Ullin di Starno al figlio,
E sì parlò: tu che da lungi alberghi
Cinto dall'onde tue, come uno scoglio,
Vieni alla regia festa, e 'l dì tranquillo
Passa; doman combatterem, domani
Spezzeremo gli scudi. Oggi, rispose,
Spezzinsi pur, starò domani in festa;
Domani sì, che fia Fingàl sotterra77.
E ben spezzinsi tosto, e poi festeggi
Doman se può, con un sorriso amaro
L'alto Fingàl riprese. Ossian tu statti
Da presso al braccio mio, tu Gaulo78 inalza
Il terribile acciar, piega Fergusto
L'incurvato tuo tasso, e tu Fillano
La tua lancia palleggia; alzate i scudi
Qual tenebrosa luna, e ciascun'asta
Sia meteora mortal: me me seguite
Per lo sentier della mia fama, e sièno
Le vostre destre ad emularmi intese.
Cento nembi aggruppati, o cento irate
Onde sul lido, o cento venti in bosco,
O cento in cento colli opposti rivi;
Forse con tale, o con minor fracasso,
Strage, furia, terror s'urtan l'un l'altro,
Di quel, con cui le poderose armate
Vannosi ad incontrar nell'echeggiante
Piaggia del Lena: spargesi su i monti
Alto infinito gemito confuso,
Pari a notturno tuon, quando una nube
Spezzasi in Cona; e mille ombre ad un tempo
Mandan nel vuoto vento orrido strido.
Spinsesi innanzi in la sua possa invitta
L'alto Fingàl79, terribile a mirarsi
Come lo spirto di Tremmor, qualora
Vien sopra un nembo a contemplar i figli
Della possanza sua; crollan le querce
Al suon delle sue penne, e innanzi ad esso
S'atterrano le rupi. Atra, sanguigna
Era la man del padre mio rotando
Il balenante acciar; struggeasi il campo
Nel suo corso guerrier. Rino avanzossi
Qual colonna di fuoco: è scuro e torvo
Di Gaulo il ciglio; rapido Fergusto
Corre con piè di vento; erra Fillano
Come nebbia del colle. Io stesso io stesso
Piombai qual masso: alle paterne imprese
Mi sfavillava il cor: molte le morti
Fur del mio braccio; né di grata luce
Splendea la spada di Loclin sul ciglio.
Ah non avea così canuti i crini
Ossian allor, né in tenebre sepolti
Eran quest'occhi, né tremante e fiacca
L'antica man, né 'l piè debole al corso.
Chi del popol le morti, e chi le gesta
Può ridir degli eroi, quando Fingallo
Nella sua ardente struggitrice fiamma
Divorava Loclin? di colle in colle
Gemiti sopra gemiti s'affollano
Di morti e di spiranti, infin che scese
La notte, e tutto in tenebre ravvolse.
Smarriti, spauriti, sbalorditi
Come greggia di cervi, allor sul Lena
Strinsersi i figli di Loclin: ma noi
Lietamente sedemmo in riva al vago
Ruscel di Luba, ad ascoltar le gaje
Note dell'arpa. Il gran Fingàl sedea
Non lungi dai nemici, e dava orecchio
Ai versi dei cantor. S'udian nel canto
Altamente sonar gli eccelsi nomi
Di sua stirpe immortale. Ei sullo scudo
Piegava il braccio, e ne bevea tranquillo
La soave armonìa. Stavagli appresso
Curvo sulla sua lancia, il giovinetto,
Il mio amabile Oscarre80. Ei meraviglia
Avea del re di Selma, e i suoi gran fatti
Scorrean per l'alma, e gli scoteano il core.
Figlio del figliuol mio, disse Fingallo,
Onor di gioventù: vidi la luce
Del tuo brando, la vidi, e mi compiacqui
Della progenie mia: segui la fama
De' padri tuoi, segui l'avite imprese.
Sii quel ch'essi già fur, quando vivea
L'alto Tremmor primo tra' duci, e quando
Tratal padre d'eroi. Quei da' prim'anni
Pugnar da forti: or sono de' vati il canto.
Valoroso garzon, curva i superbi,
Ma risparmia gl'imbelli: una corrente
Di molt'acque sii tu contro i nemici
Del popol tuo; ma a chi soccorso implora
Sii dolce placidissimo, qual aura
Che lusinga l'erbetta, e la solleva.
Così visse Tremmor, Tratal81 fu tale,
Tal è Fingallo. Il braccio mio fu sempre
Schermo degl'infelici, e dietro al lampo
Della mia spada essi posar securi.
Oscarre, io era giovinetto appunto
Qual se' tu ora, quando a me sen venne
Faìnasilla, la vezzosa figlia
Del re di Craca82, vivida soave
Luce d'amore: io ritornava allora
Dalla piaggia di Cona; avea con meco
Pochi de' miei. Di bianche vele un legno
Da lungi apparve, che movea sull'onde
Come nebbia sul nembo. Avvicinossi,
La bella comparì. Salìa, scendea
Il bianco petto a scosse di sospiri,
E le strisciavan lagrimose stille
La vermiglietta guancia. E qual tristezza
Alberga in sì bel sen, placido io dissi,
O figlia di beltà? poss'io, qual sono
Giovine ancor, farmi tuo schermo e scudo
Donna del mar? non ho invincibil brando,
Ma cor che non vacilla. A te men volo,
Sospirando rispose, o prence eccelso
Di valorosi, a te men volo, o sire
Delle conche ospitali, alto sostegno
Della debile destra. Il re di Craca
Me vagheggiava qual vivace raggio
Della sua stirpe, ed echeggiar sovente
Le colline di Cromala s'udìo
Ai sospiri d'amor per l'infelice
Fainasilla. Il regnator di Sora83)
Bella mi vide, e n'arse: ha spada al fianco
Qual folgore del ciel; ma torvo ha 'l ciglio,
E tempesta nel cor: da lui men fuggo
Sopra il rotante mar: costui m'insegue.
Statti dietro al mio scudo84, e posa in pace
Raggio amoroso; fuggirà di Sora
Il fosco re, se di Fingallo il braccio
Rassomiglia al suo cor. Potrei celarti
In qualche cupa solitaria grotta:
Ma non fugge Fingallo85 ove tempesta
D'aste minaccia; egli l'affronta, e ride.
Vidi la lagrimetta in su le guancie
Della beltà: m'intenerii. Ma tosto,
Come da lungi formidabil onda,
Del tempestoso Borbaro la nave
Minacciosa apparì: dietro alle bianche
Vele vedi piegar l'eccelse antenne;
Fiedono i fianchi con le bianche spume
L'onde rotanti; mormora la possa
Dell'oceàn. Lascia il muggir del mare,
Io dissi a lui, calpestator dei flutti,
E vienne alla mia sala; essa è l'albergo
Degli stranieri. Al fianco mio si stava
La donzelletta palpitante: ei l'arco
Scoccò; quella cadèo. Ben hai del paro
Infallibile destra, e cor villano,
Dissi, e pugnammo. Senza sangue, e leve
Non fu la mortal zuffa: egli pur cadde;
E noi ponemmo in due tombe di pietra
L'infelice donzella, e 'l crudo amante.
Tal fui negli anni giovanili: Oscarre,
Tu la vecchiezza di Fingallo imita.
Mai non andarne di battaglia in traccia,
Né la sfuggir giammai quando a te viene.
Fillano, e Oscarre dalla bruna chioma,
Figli del corso, or via pronti volate
Sopra la piaggia, ed osservate i passi
Dei figli di Loclin; sento da lungi
Il trepido rumor della lor tema,
Simile a mar che bolle. Itene, ond'essi
Non possano sottrarsi alla mia spada
Lungo l'onde del Nord86: son basso i duci
Della stirpe d'Erina, e molti eroi
Giaccion sul letto squallido di morte.
Volaro i due campion, come due nubi,
Negri carri dell'ombre, allor che vanno
Gli aerei figli a spaventar la terra.
Fecesi innanzi allor Gaulo, il vivace
Figlio di Morni87, e si piantò qual rupe.
Splendea l'asta alle stelle: alzò la voce
Pari al suon di più rivi. O generoso
Delle conche signor, figlio di guerra,
Fa' che 'l cantor con l'arpa al sonno alletti
D'Erina i stanchi figli. E tu Fingallo
Lascia per poco omai posar sul fianco
La tua spada di morte, e alle tue schiere
Permetti di pugnar: noi qui senz'opra
Stiamci struggendo inonorati e lenti;
Poiché tu sol, tu spezzator di scudi
Sei solo, e sol fai tutto, e tutto sei.
Quando il mattin su i nostri colli albeggia,
Statti in disparte, le prodezze osserva
De' tuoi guerrieri. Di Loclin la prole
Provi di Gaulo la tagliente spada;
Onde me pur cantino i vati, e chiaro
Voli il mio nome ancor; tal fu 'l costume
Della nobil tua stirpe, e tale il tuo.
Figlio di Morni, a lui Fingàl rispose,
Gioisco alla tua gloria: e ben, combatti,
Prode garzon; ma fia sempre a tergo
La lancia mia, per arrecarti aita,
Quando sia d'uopo. O voi la voce alzate,
Figli del canto, e 'l placido riposo
Chiamatemi sul ciglio. Io giacerommi
Tra i sibili del vento: e se qui presso
Aganadeca amabile t'aggiri
Tra i figli di tua terra, o se t'assidi
Sopra un nembo ventoso in fra le folte
Antenne di Loclin; vientene o bella,
Rallegra i sonni miei; vieni, e fa' mostra
Del tuo soave rilucente aspetto.
Più d'una voce e più d'un'arpa sciolse
Armoniose note. Essi cantaro
Le gesta di Fingallo, e dell'eccelsa
Stirpe di Selma; e nell'amabil canto
Tratto tratto s'udia sonar con lode
Dell'or così diverso Ossian il nome.
Ossian dolente! io già pugnai, già vinsi
Spesso in battaglia: or lagrimoso e cieco,
Squallido, inconsolabile passeggio
Coi piccioli mortali. Ove, Fingallo,
O padre ove se' tu? più non ti veggo
Con l'eccelsa tua stirpe; erran pascendo
Cervetti e damme in su la verde tomba
Del regnator di Selma. O benedetta
L'anima tua, re delle spade, altero
Esempio degli eroi, luce di Cona!