Così dissimulando i cittadini, la
città era in gran discordia. Advenne che in quelli dì messer Corso Donati,
potente cavaliere, mandò alcuni fanti per fedire messer Simone Galastrone, suo
consorto: e nella zuffa uno vi fu morto e alcuni feriti. L'accusa si fe' da
amendue le parti; e però si convenia procedere secondo gli Ordini della
Giustizia, in ricevere le pruove e in punire. Il processo venne innanzi al
podestà, chiamato messer Gian di Lucino, lonbardo, nobile cavaliere e di gran
senno e bontà. E ricevendo il processo uno suo giudice, e udendo i testimoni
prodotti da amendue le parti, intese erano contro a messer Corso: fece scrivere
al notaio per lo contrario; per modo che messer Corso dovea esser assoluto, e messer
Simone condannato. Onde il podestà, essendo ingannato, prosciolse messer Corso,
e condannò messer Simone. I cittadini che intesono il fatto, stimorono l'avesse
fatto per pecunia, e che fosse nimico del popolo; e spezialmente gli adversari
di messer Corso gridarono a una voce: «Muoia il podestà! Al fuoco, al fuoco!».
I primi cominciatori del furore furon Taldo della Bella e Baldo dal Borgo, più
per malivolenzia aveano a messer Corso, che per pietà dell'offesa giustizia. E
tanto crebbe il furore, che il popolo trasse al palagio del potestà con la
stipa per ardere la porta.
Giano, che era co' Priori, udendo
il grido della gente, disse: «Io voglio andare a campare il podestà delle mani
del popolo»; e montò a cavallo, credendo che il popolo lo seguisse e si ritraesse
per le sue parole. Ma fu il contrario, ché li volsono le lancie per abbatterlo
del cavallo: il perché si tornò adietro. I Priori, per piacere al popolo,
scesono col gonfalone in piaza, credendo attutare il furore. Et e' crebbe sì,
ch'eglino arsono la porta del palagio, e ruborono i cavalli e arnesi del
podestà. Fuggissi il podestà in una casa vicina; la famiglia sua fu presa; gli
atti furono stracciati; e chi fu malizioso, che avesse suo processo in corte,
andò a stracciarlo. E acciò procurò bene uno giudice che avea nome messer Baldo
dell'Ammirato, il quale avea molti adversari, e stava in corte con accuse e con
piati; e avendo processi contro, e temendo esser punito, fu tanto scalterito
con suoi sequaci, ch'egli spezò gli armari, e stracciò gli atti, per modo che
mai non si trovorono. Molti feciono di strane cose in quel furore. Il podestà e
la sua famiglia fu in gran fortuna, il quale avea menata seco la donna, la
quale era in Lonbardia assai pregiata e di grande belleza; la quale col suo
marito, sentendo le grida del popolo, chiamavano la morte fuggendo per le case
vicine, ove trovarono soccorso, essendo nascosi e celati.
Il dì sequente, si raunò il
Consiglio; e fu diliberato, per onore della città, che le cose rubate si
rendessono al podestà, e che del suo salario fusse pagato. E così si fe': e
partissi.
La città rimase in gran
discordia. I cittadini buoni biasimavano quello che era fatto; altri dava la
colpa a Giano, cercando di cacciarlo o farlo mal capitare; altri dicea: «Poi
che cominciato abiamo, ardiamo il resto»: e tanto romore fu nella terra, che
accese gli animi di tutti contro a Giano. E acciò consentirono i Magalotti suoi
parenti; i quali lo consigliorono che, per cessare il furore del popolo, per
alquanti dì s'assentasse fuori della terra: il quale, credendo al loro falso
consiglio, si partì; e subito li fu dato bando; e condannato nell'avere e nella
persona.
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