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Fernando Colombo Historie IntraText CT - Lettura del testo |
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99 - Come l'Ammiraglio raccolse la gente che lasciava in Betlem, e poi traversammo a Giamaica.
Quando l'Ammiraglio intese la rotta, il tumulto, e la disperazione della gente, deliberò di aspettarli per raccoglierli, benché non senza gran pericolo, perché aveva i suoi navigli nella spiaggia, e senza alcun riparo né speranza di salvare sé né loro se il tempo fosse peggiorato. Ma piacque a nostro Signore che nel termine di 8 dì che vi stette, a beneficio dei provesi, bonacciò di tal maniera il tempo che quelli di terra con la loro barca e con grosse canoe bene in ordine, l'una legata con l'altra perché non si travolgessero, potettero cominciare a raccogliere le loro robe, e procacciando ognuno di non essere degli ultimi, usarono tanta fretta che in due dì non rimase cosa alcuna in terra se non il vaso del naviglio, il quale per cagion delle biscie era innavigabile. E così, con molta allegrezza di vederci tutti insieme, facemmo vela, prendendo la via del levante per la costa in su di quella terra, perché, ancorché a tutti i piloti paresse che prendendo la via di tramontana potessimo ritornare a San Domingo, solo l'Ammiraglio e il Prefetto suo fratello conoscevano che era necessario ascendere un buon pezzo per la costa in su, avanti che si attraversasse il golfo, che giace fra la terraferma e la Spagnola: di che era assai scontenta la nostra gente, parendole che l'Ammiraglio volesse tornare per dritta via in Castiglia senza navigli, né vettovaglie, che bastassero per il viaggio. Ma poiché egli sapeva meglio quel che conveniva, seguimmo il nostro cammino, finché giungemmo a Belporto, dove fummo costretti ad abbandonare il naviglio Vizcaino per la molta acqua che faceva, perché aveva il piano tutto consumato e pertugiato dalle biscie. E, seguendo la costa all'in su, ascendemmo, finché passammo più oltre il porto del Retrete e d'un paese a cui erano vicine molte isolette, le quali l'Ammiraglio noma le Barbe, ma gl'Indiani e i piloti chiamano tutto quel contorno del cacico Pocorosa. Quindi passati più oltre, al fine che vedemmo di terra ferma chiamò Marmo quello spazio che v'era di 10 leghe dalle Barbe. E poi il lunedì al I° di maggio del detto anno 1503 prendemmo la via di tramontana con venti e correnti dalla banda di levante, perché procacciavamo sempre di andare più al vento che potevamo. E ancorché tutti i piloti dicessero che noi saremmo passati al levante delle isole dei Caribi, l'Ammiraglio nondimeno temeva di non poter neppure prendere la Spagnola. Il che si verificò: perché il mercoldì ai 10 dello stesso mese di maggio andammo a vista di due molto piccole e basse isole, piene di testuggini, di cui il mare all'intorno tutto era pieno, sì che parevano scoglietti, e perciò alle dette isole fu posto nome le Testuggini e, passando di lungo alla via di tramontana, il venerdì seguente sul tardi, 30 leghe quindi lontani, arrivammo al Giardino della Rejna, il che è una quantità molto grande d'isolette che giacciono al mezzodì dell'isola di Cuba. Ed essendo qui sorti 10 leghe lontani da Cuba con assai uomini e travagli, perché non avevam che mangiare, eccetto biscotto e qualche poco d'olio e d'aceto, e faticando il dì e la notte per seccar l'acqua con tre trombe, perché i navigli andavano a fondo per le molte biscie che li avean forati, sopravvenne di notte una gran fortuna, per la quale non potendo la nave Bermuda sostenersi sopra le sue ancore e provesi, caricò sopra di noi, e ci ruppe tutta la prua, ancorché neppur essa rimanesse sana in tutto, perché perdé tutta la poppa fin quasi alla lemeta, e, con gran travaglio della molta acqua e del vento, piacque a Dio che si sciogliessero l'una dall'altra, e, gittate in mare tutte le ancore e gli agumini che avevamo, niun bastò per fermar la nave, fourché la fermaressa, il cui cavo, quando aggiornò, noi trovammo in guisa tagliato, che non si teneva se non con un filo, il quale, se durava più un'ora la notte, finiva anch'esso di tagliarsi; ed essendo tutto quel luogo spredo e pieno di scogli, non potevamo fuggire di sdruscire in alcuni di loro che avevamo per poppa. Ma piacque a Dio di liberarci, come ci aveva liberati di molti altri pericoli. E così partendo di qua con assai fatica, andammo ad una popolazione d'Indiani nella costa di Cuba, nomata Macaca: donde preso alcun rinfrescamento, partimmo verso Giamaica e ciò perché i venti di levante e le grandi correnti che vanno all'occidente non ci lasciavano andare alla Spagnola, essendo specialmente i navigli tanto abbisciati, che, come abbiam detto, di giorno e di notte non lasciavamo di estrarre l'acqua in ciascuno di essi con tre trombe delle quali se si rompeva alcuna era mestieri, mentre si acconciava, che le caldaie supplissero e l'ufficio delle trombe facessero. Con tutto ciò la notte avanti la vigilia di S. Giovanni nella nostra nave crebbe tanto l'acqua, che non v'era rimedio di poterla vincere, perché arrivava quasi fino alla coperta, e con grandissima fatica ci sostenemmo così, finché, venuto il giorno, prendemmo un porto di Giamaica detto Porto Buono, il quale, ancorché sia buono per riparare i navigli dalla fortuna, non aveva però acqua da poter raccoglierci, né alcuna popolazione all'intorno. Pure rimediando noi a ciò il meglio che potemmo, passato il giorno di S. Giovanni partimmo per un altro porto che giace più all'Est, chiamato Santa Gloria, coperto da sassi; ed entrativi dentro, non potendo sostener più i navigli li incagliammo in terra il più che potemmo, accomodando l'uno presso all'altro alla lunga, bordo con bordo, e con molti puntali dall'una parte e dall'altra li fermammo di modo che non si potevano muovere: e così si empirono d'acqua fin quasi alla coperta, sopra la quale, e per i castelli della poppa e della prora, si fecero stanze dove la gente potesse alloggiare, con pensiero di farci qui forti, affinché gl'Indiani non potessero farci danno: giacché in quel tempo non era l'isola ancora popolata né soggetta ai Cristiani.
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