STORIA D’ITALIA
LIBRO
PRIMO.
I. Proposito e fine dell'opera.
Prosperità d'Italia intorno al 1490. La politica di Lorenzo de' Medici ed il
desiderio di pace de' prìncipi italiani. La confederazione de' prìncipi e
l'ambizione de' veneziani.
Io ho
deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi
che l'armi de' franzesi, chiamate da' nostri prìncipi medesimi, cominciorono
con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza
loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti
anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora
per l'ira giusta d'Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini,
essere vessati. Dalla cognizione de' quali casi, tanto vari e tanto gravi,
potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi
documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta
instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da' venti, siano sottoposte
le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a'
popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente
innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando
delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la
potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per
troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.
Ma le calamità
d'Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme
le cagioni dalle quali ebbeno l'origine tanti mali) cominciorono con tanto
maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose
universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi
che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi
costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare
alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai
sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era
quello nel quale sicuramente si riposava l'anno della salute cristiana mille
quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti.
Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne'
luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili,
né sottoposta a altro imperio che de' suoi medesimi, non solo era
abbondantissima d'abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata
sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte
nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva
d'uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni
molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa;
né priva secondo l'uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante
doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Nella quale
felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma
trall'altre, di consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla
industria e virtù di Lorenzo de' Medici, cittadino tanto eminente sopra 'l
grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose
di quella republica, potente più per l'opportunità del sito, per gli ingegni
degli uomini e per la prontezza de' danari, che per grandezza di dominio. E
avendosi egli nuovamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non
mediocre a' consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta
Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l'autorità.
E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto
pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse più la sua potenza,
procurava con ogni studio che le cose d'Italia in modo bilanciate si
mantenessino che più in una che in un'altra parte non pendessino: il che, senza
la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni
accidente benché minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima
inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe
certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte
volte per l'addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da' consigli
della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria
suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza
duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto
incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soffocato da
Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo più di dieci anni prima, per la
imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui
e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le
genti d'arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel
governo; né come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in
fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno Ferdinando,
avendo più innanzi agli occhi l'utilità presente che l'antica inclinazione o la
indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si
alterasse; o perché, avendo provato pochi anni prima, con gravissimo pericolo,
l'odio contro a sé de' baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per
la memoria delle cose passate molti de' sudditi avevano al nome della casa di
Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a' franzesi
di assaltare il reame di Napoli; o perché, per fare contrapeso alla potenza de'
viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria
l'unione sua con gli altri, e specialmente con gli stati di Milano e di
Firenze. Né a Lodovico Sforza, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva
piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che dominavano a
Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano, e perché gli era più
facile conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra
l'autorità usurpata. E se bene gli fussino sospetti sempre i pensieri di
Ferdinando e di Alfonso d'Aragona, nondimeno, essendogli nota la disposizione
di Lorenzo de' Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente
aveva della grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversità degli animi e
antichi odii tra Ferdinando e i viniziani, fusse vano il temere che tra loro si
facesse fondata congiunzione, si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non
sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non
erano bastanti a ottenere.
Essendo adunque
in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi
rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una
confederazione contratta in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo
duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione de' loro stati; la
quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era
stata nell'anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori
potentati d'Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine
principalmente di non lasciare diventare più potenti i viniziani; i quali,
maggiori senza dubbio di ciascuno de' confederati ma molto minori di tutti
insieme, procedevano con consigli separati da' consigli comuni, e aspettando di
crescere della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a
valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta
Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto
chiaramente; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo
Maria Visconte duca di Milano, tentorono, sotto colore di difendere la libertà
del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e più frescamente
quando, con guerra manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono.
Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del senato viniziano,
ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e fedele:
conciossiacosaché, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non
cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l'uno dell'altro,
sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a qualunque di essi
accrescere si potesse o imperio o riputazione: il che non rendeva manco stabile
la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere
sollecitamente tutte quelle faville che origine di nuovo incendio essere
potessino.
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