IV. Il reame di Napoli fino a Ferdinando ed i diritti di successione della
casa d'Angiò. Ambizione di Carlo VIII sul reame e sollecitazioni di Lodovico
Sforza. Disposizione contraria all'impresa de' grandi del regno di Francia.
Patti conclusi fra Carlo VIII e Lodovico Sforza. Considerazioni dell'autore.
Il reame di
Napoli, detto assurdamente nelle investiture e bolle della chiesa romana, della
quale è feudo antichissimo, il regno di Sicilia di qua dal Faro, fu, come
occupato ingiustamente da Manfredi, figliuolo naturale di Federigo secondo
imperadore, conceduto in feudo insieme con l'isola della Sicilia, sotto titolo
delle Due Sicilie, l'una di qua l'altra di là dal Faro, insino nell'anno mille
dugento sessantaquattro, da Urbano quarto pontefice romano a Carlo conte di
Provenza e di Angiò, fratello di quello Lodovico re di Francia che, chiaro per
la potenza ma più chiaro per la santità della vita, meritò di essere ascritto
dopo la morte nel numero de' santi. Il quale avendo con la possanza dell'armi
ottenuto effettualmente quello di che gli era stato conferito il titolo con
l'autorità della giustizia, si continuò dopo la morte sua il regno di Napoli in
Carlo suo figliuolo, chiamato dagli italiani, per distinguerlo dal padre, Carlo
secondo; e dopo lui in Ruberto suo nipote. Ma essendo dipoi, per la morte di
Ruberto senza figliuoli maschi, succeduta Giovanna figliuola di Carlo duca di
Calavria, il quale giovane era morto innanzi al padre, cominciò presto a essere
dispregiata, non meno per l'infamia de' costumi che per la imbecillità del
sesso, l'autorità della nuova reina. Da che essendo nate in progresso di tempo
varie discordie e guerre, non però tra altri che tra i discendenti medesimi di
Carlo primo, nati di diversi figliuoli di Carlo secondo, Giovanna, disperando
di potersi altrimenti difendere, adottò per figliuolo Lodovico duca di Angiò,
fratello di Carlo quinto re di Francia, quello a cui, per avere, con fare
piccola esperienza della fortuna, ottenuto molte vittorie, dettono i franzesi
il sopranome di saggio. Il quale Lodovico, passato in Italia con potentissimo
esercito, essendo prima stata violentemente morta Giovanna e trasferito il
regno in Carlo chiamato di Durazzo, discendente similmente di Carlo primo, morì
di febbre in Puglia, quando era già quasi in possessione della vittoria: in
modo che agli Angioini non pervenne di questa adozione altro che la contea di
Provenza, stata posseduta continuamente da' discendenti di Carlo primo. Ebbe
nondimeno da questo l'origine il diritto, col quale poi e Lodovico d'Angiò
figliuolo del primo Lodovico e in altro tempo il nipote del medesimo nome,
stimolati da' pontefici quando erano discordi con quegli re, assaltorono
spesso, benché con poca fortuna, il regno di Napoli. Ma a Carlo di Durazzo era
succeduto Ladislao suo figliuolo; il quale essendo mancato, l'anno mille
quattrocento quattordici, senza figliuoli, pervenne la corona a Giovanna
seconda, sua sorella, nome infelice a quel reame e non meno all'una e all'altra
di loro, non differenti né di imprudenza né di lascivia di costumi. Perché,
mettendo Giovanna il governo del regno nelle mani di quelle persone nelle mani
delle quali metteva impudicamente il corpo suo, si ridusse presto in tante
difficoltà che, vessata dal terzo Lodovico con l'aiuto di Martino quinto
pontefice, fu finalmente costretta, per ultimo sussidio, a adottare per
figliuolo Alfonso re di Aragona e di Sicilia: ma venuta non molto poi con lui
in contenzione, annullata sotto titolo di ingratitudine l'adozione, adottò per
figliuolo e chiamò in soccorso suo il medesimo Lodovico per la guerra del quale
era stata necessitata di fare la prima adozione; e cacciato con l'armi Alfonso
di tutto il regno, lo conservò mentre visse pacificamente, e morendo senza
figliuoli instituì erede (come fu fama) Renato duca d'Angiò e conte di
Provenza, fratello di Lodovico figliuolo suo adottivo, morto per avventura
l'anno medesimo. Ma dispiacendo a molti de' baroni del regno la successione di
Renato, essendosi divulgato che 'l testamento era stato falsamente fabricato
dai napoletani, fu da una parte de' baroni e de' popoli chiamato Alfonso. Da
questo ebbono origine le guerre tra Alfonso e Renato, le quali molti anni
afflissono sì nobile regno, fatte da loro più con le forze del reame medesimo
che con le proprie; da questo, per le volontà contrarie, sorsono le fazioni,
non ancora al dì d'oggi al tutto spente, degli aragonesi e angioini; variando
eziandio nel corso del tempo i titoli e i colori della ragione, perché i
pontefici, seguitando più le sue cupidità o le necessità de' tempi che la
giustizia, le investiture diversamente concederono. Ma essendo delle guerre tra
Alfonso e Renato rimasto vincitore Alfonso, principe di maggiore potenza e
valore, e morendo poi senza figliuoli legittimi, non fatta memoria di Giovanni
suo fratello e successore ne' regni di Sicilia e di Aragona, lasciò per
testamento il regno di Napoli, come acquistato da sé e però non appartenente
alla corona di Aragona, a Ferdinando figliuolo suo naturale. Il quale, se bene
quasi incontinente dopo la morte del padre fu assaltato, con le spalle de'
principali baroni del regno, da Giovanni figliuolo di Renato, nondimeno con la
felicità e virtù sua non solamente si difese, ma afflisse in modo gli avversari
che mai più in vita di Renato, il quale sopravisse più anni al figliuolo, ebbe
né da contendere con gli Angioini né da temerne. Morì finalmente Renato, e non
avendo figliuoli maschi fece erede in tutti gli stati e ragioni sue Carlo
figliuolo del fratello, il quale morendo poco di poi senza figliuoli lasciò per
testamento la sua eredità a Luigi undecimo re di Francia; a cui non solo
ricadde come a supremo signore il ducato di Angiò, nel quale, perché è membro
della corona, non succedono le femmine, ma con tutto che 'l duca dell'Oreno,
nato di una figliuola di Renato, asserisse appartenersi a sé la successione
degli altri stati, entrò in possessione della Provenza; e poteva, per vigore
del testamento medesimo, pretendere essergli applicate le ragioni che gli
Angioini avevano al reame di Napoli: le quali essendo, per la sua morte,
continuate in Carlo ottavo suo figliuolo, incominciò Ferdinando re di Napoli ad
avere potentissimo avversario, e si presentò grandissima opportunità a chiunque
di offenderlo desiderava. Perché il regno di Francia era in quel tempo più
florido d'uomini, di gloria d'arme, di potenza, di ricchezze e di autorità in
tra gli altri regni, che forse dopo Carlo magno fusse mai stato; essendosi
ampliato novellamente in ciascuna di quelle tre parti nelle quali, appresso
agli antichi, si divideva tutta la Gallia. Conciossiaché, non più che quaranta
anni innanzi a questo tempo, sotto Carlo settimo, re per molte vittorie
ottenute con gravissimi pericoli chiamato benavventurato, si fussino ridotte
sotto quello imperio la Normandia e il ducato di Ghienna, provincie possedute
prima dagli inghilesi; e negli ultimi anni di Luigi undecimo la contea di
Provenza, il ducato di Borgogna e quasi tutta la Piccardia; e dipoi aggiunto,
per nuovo matrimonio, alla potenza di Carlo ottavo il ducato di Brettagna. Né
mancava nell'animo di Carlo inclinazione a cercare d'acquistare con l'armi il
regno di Napoli, come giustamente appartenente a sé, cominciata per un certo
istinto quasi naturale insino da puerizia e nutrita da' conforti di alcuni che
gli erano molto accetti; i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano
questa essere occasione di avanzare la gloria de' suoi predecessori, perché,
acquistato il reame di Napoli, gli sarebbe agevole il vincere lo imperio de'
turchi. Le quali cose, essendo già note a molti, dettono speranza a Lodovico
Sforza di potere facilmente persuadergli il suo desiderio; confidandosi oltre a
questo non poco nella introduzione che aveva nella corte di Francia il nome
sforzesco, perché ed egli sempre e prima Galeazzo suo fratello aveano, con
molte dimostrazioni e offici, continuata l'amicizia cominciata da Francesco
Sforza loro padre: il quale, avendo, trenta anni innanzi, ricevuto in feudo da
Luigi undecimo, l'animo del quale re aborrì sempre le cose d'Italia, la città
di Savona e le ragioni che e' pretendeva avere in Genova, dominata già dal suo
padre, non era giammai da altra parte mancato a lui ne' suoi pericoli né di
consiglio né di aiuto. E nondimeno Lodovico, parendogli pericoloso l'essere
solo a suscitare movimento sì grande, e per trattare la cosa in Francia con
maggiore credito e autorità, cercò, prima, di persuadere il medesimo al
pontefice non meno con gli stimoli dell'ambizione che dello sdegno;
dimostrandogli che, o per favore de' prìncipi italiani o per mezzo dell'armi
loro, non poteva né di vendicarsi contro a Ferdinando né di acquistare stati
onorati per i figliuoli avere speranza alcuna. E avendolo trovato pronto, o per
cupidità di cose nuove o per ottenere dagli Aragonesi, per mezzo del timore,
quei che di concedergli spontaneamente recusavano, mandorono secretissimamente
in Francia uomini confidati a tentare l'animo del re e di coloro che erano
intimi ne' consigli suoi: i quali non se ne mostrando alieni, Lodovico,
dirizzatosi in tutto a questo disegno, vi mandò, benché spargendo nome d'altre
cagioni, scopertamente imbasciadore Carlo da Barbiano conte di Belgioioso. In
quale, poi che per qualche dì, e con Carlo in privata udienza e separatamente
con tutti i principali, ebbe fatto diligenza di persuadergli, introdotto
finalmente un giorno nel consiglio reale, presente il re, dove oltre a'
ministri regi intervennono tutti i signori e molti prelati e nobili della
corte, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:
- Se alcuno,
per qual si voglia cagione, avesse, cristianissimo re, sospetta la sincerità
dell'animo e della fede con la quale Lodovico Sforza, offerendovi eziandio comodità
di danari e aiuto delle sue genti, vi conforta a muovere l'armi per acquistare
il reame di Napoli, rimoverà facilmente da sé questa male fondata suspicione se
si ridurrà in memoria l'antica divozione avuta in ogni tempo da lui, da
Galeazzo suo fratello e prima da Francesco suo padre, a Luigi undecimo padre
vostro, e poi continuamente al vostro gloriosissimo nome; e molto più se e'
considererà di questa impresa potere risultare a Lodovico gravissimi danni
senza speranza di alcuna utilità, e a voi tutto il contrario; al quale uno
regno bellissimo della vittoria perverrebbe, con grandissima gloria e
opportunità di cose maggiori, ma a lui non altro che una giustissima vendetta
contro alle insidie e ingiurie degli Aragonesi: e da altra parte, se tentata non
riuscisse, non per questo diventerebbe minore la vostra grandezza. Ma chi non
sa che Lodovico, fattosi esoso a molti e divenuto in dispregio di ciascuno, non
arebbe in caso tale rimedio alcuno a' suoi pericoli? E però, come può essere
sospetto il consiglio di colui che ha, in qualunque evento, le condizioni tanto
ineguali e con tanto disavvantaggio dalle vostre? Benché le ragioni che vi
invitano a fare così onorata espedizione sono tanto chiare e potenti per se
stesse che non ammettono alcuna dubitazione, concorrendo amplissimamente tutti
i fondamenti i quali nel deliberare l'imprese principalmente considerare si
debbono: la giustizia della causa, la facilità del vincere, il frutto
grandissimo della vittoria. Perché a tutto il mondo è notissimo quanto siano
efficaci sopra il reame di Napoli le ragioni della casa d'Angiò, della quale
voi siete legittimo erede, e quanto sia giusta la successione che questa corona
pretende a' discendenti di Carlo; il quale, primo del sangue reale di Francia,
ottenne, con l'autorità de' pontefici romani e con la virtù dell'armi proprie,
quel reame. Ma non è già minore la facilità a conquistarlo che la giustizia.
Perché chi è quello che non sappia quanto sia inferiore di forze e di autorità
il re di Napoli al primo e più potente re di tutti i cristiani? quanto sia
grande e terribile per tutto il mondo il nome de' franzesi? e di quanto
spavento siano l'armi vostre a tutte le nazioni? Non assaltorono giammai il
reame di Napoli i piccoli duchi d'Angiò che non lo riducessino in gravissimo
pericolo. È fresca la memoria che Giovanni figliuolo di Renato aveva in mano la
vittoria contro al presente Ferdinando, se non glien'avesse tolta Pio
pontefice, e molto più Francesco Sforza, che si mosse, come ognuno sa, per
ubbidire a Luigi undecimo vostro padre. Che faranno adunque ora l'armi e
l'autorità di tanto re, essendo massime cresciute le opportunità e diminuite le
difficoltà che ebbono Renato e Giovanni, poi che sono uniti con voi i prìncipi
di quegli stati che impedirono la loro vittoria, e che possono con somma
facilità offendere il regno di Napoli? il papa per terra, per la vicinità dello
stato ecclesiastico; il duca di Milano, per l'opportunità di Genova, a
assaltarlo per mare. Né sarà in Italia chi vi si opponga; perché i viniziani
non vorranno esporsi a spese e a pericoli, né privarsi della amicizia che lungo
tempo co' re di Francia hanno tenuta, per conservare Ferdinando inimicissimo
del nome loro; e i fiorentini non è credibile che si partino dalla divozione
naturale che hanno alla casa di Francia, e se pure volessino opporsi, di che
momento saranno contro a tanta possanza? Quante volte ha, contro alla volontà
di tutta Italia, passate l'Alpi questa bellicosissima nazione, e nondimeno, con
inestimabile gloria e felicità, riportatone tante vittorie e trionfi! E quando
fu mai il reame di Francia più felice, più glorioso, più potente che ora? e
quando mai gli fu sì facile l'avere pace stabile con tutti i vicini? le quali
cose se per l'addietro concorse fussino, sarebbe stato pronto, per avventura,
il padre vostro a questa medesima espedizione. Né sono manco accresciute agli
inimici le difficoltà che a voi l'opportunità, perché è ancora potente in quel
reame la parte angioina, sono gagliarde le dipendenze di tanti prìncipi e
gentiluomini scacciati iniquamente pochissimi anni sono, e perché sono state sì
aspre le ingiurie fatte in ogni tempo da Ferdinando a' baroni e a' popoli, a
quegli ancora della fazione aragonese. Tanto è grande la sua infedeltà, tanto
immoderata l'avarizia, tanto orribili e sì spessi gli esempli della crudeltà
sua e di Alfonso suo primogenito, che è notissimo che tutto il regno, concitato
da odio incredibile contro a loro e nel quale è verde la memoria della
liberalità, della bontà, della magnanimità, dell'umanità, della giustizia de'
re franzesi, si leverà con allegrezza smisurata alla fama della vostra venuta;
in modo che la deliberazione sola del fare la impresa basterà a farvi
vittorioso. Perché come i vostri eserciti aranno passati i monti, come l'armata
marittima sarà congregata nel porto di Genova, Ferdinando e i figliuoli,
spaventati dalla coscienza delle loro sceleratezze, penseranno più a fuggirsi
che a difendersi. Così con somma facilità arete recuperato al sangue vostro uno
regno, che, se bene non è da agguagliare alla grandezza di Francia, è pure
regno amplissimo e ricchissimo, ma da apprezzare molto più per il profitto e
per i comodi infiniti che ne perverranno a questo reame: i quali racconterei
tutti, se non fusse notorio che maggiori fini ha la generosità franzese, che
più degni e più alti pensieri sono quegli di sì magnanimo, di sì glorioso re,
diritti non allo interesse proprio ma all'universale grandezza di tutta la
republica cristiana. E a questo che maggiore opportunità? che più ampia
occasione? quale sito più comodo, più atto a fare la guerra contro agli inimici
della nostra religione? Non è più largo, come ognuno sa, in qualche luogo, che
settanta miglia il mare che è tra il regno di Napoli e la Grecia: dalla quale
provincia, oppressata e lacerata da' turchi, e che non desidera altro che
vedere le bandiere de' cristiani, quanto è facile l'entrare nelle viscere di
quella nazione! percuotere Costantinopoli, sedia e capo di quello imperio! E a
chi appartiene più che a voi, potentissimo re, volgere l'animo e i pensieri a
questa santa impresa? per la potenza maravigliosa che Iddio v'ha data, per il
cognome cristianissimo che voi avete, per l'esempio de' vostri gloriosi
predecessori; i quali usciti tante volte armati di questo regno, ora per
liberare la chiesa d'Iddio oppressa da' tiranni ora per assaltare gli infedeli
ora per recuperare il sepolcro santissimo di Cristo, hanno esaltato insino al
cielo il nome e la maestà de' re di Francia. Con questi consigli, con queste
arti, con queste azioni, con questi fini, diventò magno e imperadore di Roma
quello gloriosissimo Carlo; il cui nome come voi ottenete, così vi si presenta
l'occasione d'acquistare la gloria e il cognome. Ma perché consumo io più tempo
in queste ragioni? come se non sia più conveniente e più secondo l'ordine della
natura il rispetto del conservare che dell'acquistare! Perché chi non sa di
quanta infamia vi sarebbe, invitandovi massime sì grandi occasioni, il
tollerare più che Ferdinando vi occupi uno regno tale? stato posseduto per
continua successione poco manco di dugento anni da' re del vostro sangue, e il
quale è manifesto giuridicamente aspettarsi a voi? Chi non sa quanto appartenga
alla degnità vostra il recuperarlo? quanto pietoso il liberare quegli popoli
che adorano il glorioso nome vostro, che di ragione sono vostri sudditi, dalla
tirannide acerbissima de' catelani? È adunque l'impresa giustissima, è
facilissima, è necessaria. È non meno gloriosa e santa, e per se stessa e
perché vi apre la strada alle imprese degne di uno cristianissimo re di
Francia: alle quali non solo gli uomini, ma Dio è quello, o magnanimo re, che
tanto apertamente vi chiama, Dio è quello che vi mena, con sì grandi e sì
manifeste occasioni, proponendovi, innanzi al principiarla, somma felicità.
Imperocché quale maggiore felicità può avere principe alcuno che le
deliberazioni dalle quali risulta la gloria e la grandezza propria siano
accompagnate da circostanze e conseguenze tali che apparisca che elle si
faccino non meno per beneficio e per salute universale, e molto più per
l'esaltazione di tutta la republica cristiana? -
Non fu udita
con allegro animo questa proposta da' signori grandi di Francia, e specialmente
da coloro che per nobiltà e opinione di prudenza erano di maggiore autorità; i
quali giudicavano non potere essere altro che guerra piena di molte difficoltà
e pericoli, avendosi a condurre gli eserciti in paese forestiero e tanto
lontano dal regno di Francia, e contro a inimici molto stimati e potenti.
Perché grandissima era per tutto la fama della prudenza di Ferdinando, né
minore quella del valore di Alfonso nella scienza militare; e si credeva che,
avendo regnato Ferdinando trenta anni e spogliati e distrutti in vari tempi
tanti baroni, avesse accumulato molto tesoro. Consideravano il re essere poco
capace a sostenere da sé solo un pondo sì grave; e, nel maneggio delle guerre e
degli stati, debole il consiglio e l'esperienza di coloro che avevano fede
appresso a lui più per favore che per ragione. Aggiugnersi la carestia di
danari, de' quali si stimava avesse a bisognarne grandissima quantità; e
doversi ridurre nella memoria ciascuno l'astuzie e gli artifici degli italiani,
e rendersi certo che non solo agli altri ma né a Lodovico Sforza, notato non
che altro in Italia di poca fede, potesse piacere che in potestà di uno re di
Francia fusse il reame di Napoli. Onde e il vincere sarebbe difficile, e più
difficile il conservare le cose vinte. Però Luigi padre di Carlo, principe che
aveva sempre seguitato più la sostanza che l'apparenza delle cose, non avere
mai accettato le speranze propostegli d'Italia, né tenuto conto delle ragioni
pervenutegli del regno di Napoli, ma sempre affermato che il mandare eserciti
di là da' monti non era altro che cercare di comperare molestie e pericoli, con
infinito tesoro e sangue del reame di Francia. Essere, volendo procedere a
questa espedizione, innanzi a ogni cosa necessario comporre le controversie co'
re vicini: perché con Ferdinando re di Spagna cagioni di discordie e di
sospetti non mancavano; e con Massimiliano re de' romani e con Filippo arciduca
d'Austria suo figliuolo erano molte non solo emulazioni ma ingiurie; gli animi
de' quali non si potrebbono riconciliare senza concedere a essi cose
dannosissime alla corona di Francia, e non di meno si riconcilierebbono più con
le dimostrazioni che con gli effetti: perché quale accordo basterebbe a
assicurare che, sopravenendo all'esercito regio qualche difficoltà in Italia,
non assaltassino il regno di Francia? né doversi sperare che in Enrico settimo
re di Inghilterra non avesse forza maggiore l'odio naturale degli inghilesi
contro a' franzesi che la pace fatta con lui pochi mesi avanti; perché era
manifesto avervelo tirato, più che altra causa, il non corrispondere gli
apparati del re de' romani alle promesse con le quali l'avea indotto a porre il
campo intorno a Bologna. Queste e altre simili ragioni si allegavano da'
signori grandi, parte tra loro medesimi parte col re, a dissuadere la nuova
guerra: tra i quali la detestava, più efficacemente che alcun altro, Iacopo
Gravilla, ammiraglio di Francia, uomo al quale la fama inveterata in tutto il
regno di essere savio conservava l'autorità, benché gli fusse alquanto stata
diminuita la grandezza. E nondimeno si porgeva in contrario con grande avidità
l'orecchio da Carlo: il quale, giovane d'anni ventidue, e per natura poco
intelligente delle azioni umane, era traportato da ardente cupidità di dominare
e da appetito di gloria, fondato più tosto in leggiera volontà e quasi impeto
che in maturità di consiglio; e prestando, o per propria inclinazione o per
l'esempio e ammonizioni paterne, poca fede a' signori e a' nobili del regno,
poi che era uscito della tutela di Anna duchessa di Borbone sua sorella, né
udendo più i consigli dell'ammiraglio e degli altri i quali erano stati grandi
in quel governo, si reggeva col parere di alcuni uomini di piccola condizione,
allevati quasi tutti a servigio della persona sua; de' quali quegli di più
favore veementemente ne lo confortavano, parte, come sono venali spesso i
consigli de' prìncipi, corrotti da' doni e da promesse fatte dallo imbasciadore
di Lodovico, che non lasciò indietro diligenza o arte alcuna per farsi propizii
quegli che erano di momento a questa deliberazione, parte mossi dalle speranze
propostesi, chi d'acquistare stati nel regno di Napoli chi di ottenere dal
pontefice degnità e entrate ecclesiastiche. Capo di tutti questi era Stefano di
Vers, di nazione di Linguadoca, di basso legnaggio, ma nutrito molti anni nella
camera del re, e da lui fatto siniscalco di Belcari. A costui aderiva Guglielmo
Brissonetto; il quale, di mercatante diventato prima generale di Francia e poi
vescovo di San Malò, non solo era preposto all'amministrazione delle entrate
regie, che in Francia dicono sopra le finanze, ma unito con Stefano, e per sua
opera, aveva già grandissima introduzione in tutte le faccende importanti,
benché di governare cose di stato avesse piccolo intendimento. Aggiugnevansi
gli stimoli di Antonello da San Severino principe di Salerno, e di Bernardino
della medesima famiglia principe di Bisignano, e di molti altri baroni sbanditi
del reame di Napoli; i quali, ricorsi più anni prima in Francia, avevano
continuamente incitato Carlo a questa impresa, allegando la pessima
disposizione, più presto disperazione, di tutto il regno, e le dipendenze e il
seguito grande che avere in quello si promettevano. Stette in questa varietà di
pareri sospesa molti giorni la deliberazione, essendo non solo dubbio agli
altri quello che s'avesse a determinare ma incerto e incostante l'animo di
Carlo; perché, ora stimolandolo la cupidità della gloria e dello imperio ora
raffrenandolo il timore, era talvolta irresoluto, talvolta si volgeva al
contrario di quello che pareva che prima avesse determinato. Pure
ultimatamente, prevalendo la sua pristina inclinazione e il fato infelicissimo
d'Italia a ogni contradizione, rifiutati del tutto i consigli quieti, fu fatta,
ma senza saputa di altri che del vescovo di San Malò e del siniscalco di
Belcari, convenzione con lo imbasciadore di Lodovico. Della quale stettono più
mesi occulte le condizioni, ma la somma fu che, passando Carlo in Italia o
mandando esercito per l'acquisto di Napoli, il duca di Milano fusse tenuto a
dargli il passo per il suo stato, a mandare con le sue genti cinquecento uomini
d'arme pagati, permettergli che a Genova armasse quanti legni volesse, e a
prestargli, innanzi partisse di Francia, dugentomila ducati; e da altra parte
il re si obligò alla difesa del ducato di Milano contro a ciascuno, con
particolare menzione di conservare l'autorità di Lodovico, e a tenere ferme in
Asti, città del duca di Orliens, durante la guerra, dugento lancie, perché
fussino preste a' bisogni di quello stato: e o allora o non molto dipoi, per
una scritta sottoscritta di propria mano, promesse, ottenuto che avesse il
reame di Napoli, concedere a Lodovico il principato di Taranto.
Non è certo
opera perduta o senza premio il considerare la varietà de' tempi e delle cose
del mondo. Francesco Sforza padre di Lodovico, principe di rara prudenza e
valore, inimico degli Aragonesi per gravissime offese ricevute da Alfonso padre
di Ferdinando, e amico antico degli Angioini, nondimeno, quando Giovanni
figliuolo di Renato, l'anno mille quattrocento cinquantasette, assaltò il regno
di Napoli, aiutò con tanta prontezza Ferdinando che da lui fu principalmente
riconosciuta la vittoria; mosso non da altro che da parergli troppo pericoloso
al ducato suo di Milano che di uno stato così potente in Italia i franzesi
tanto vicini si insignorissino: la quale ragione aveva prima indotto Filippo
Maria Visconte che, abbandonati gli Angioini favoriti insino a quel dì da lui,
liberasse Alfonso suo inimico; il quale, preso da' genovesi in una battaglia
navale presso a Gaeta, gli era stato condotto, con tutta la nobiltà de' regni
suoi, prigione a Milano. Da altra parte Luigi padre di Carlo, stimolato spesse
volte da molti, e con non leggiere occasioni, alle cose di Napoli, e chiamato
instantemente da' genovesi al dominio della loro patria stata posseduta da
Carlo suo padre, aveva sempre recusato di mescolarsi in Italia, come cosa piena
di spese e difficoltà e all'ultimo perniciosa al regno di Francia. Ora, variate
l'opinioni degli uomini ma non già forse variate le ragioni delle cose, e
Lodovico chiamava i franzesi di qua da' monti, non temendo da uno potentissimo
re di Francia, se in mano sua fusse il regno di Napoli, di quello pericolo che
il padre suo, valorosissimo nell'armi, aveva temuto se l'avesse acquistato uno
piccolo conte di Provenza; e Carlo ardeva di desiderio di fare guerre in
Italia, preponendo la temerità di uomini bassi e inesperti al consiglio del
padre suo, re di lunga esperienza e prudente. Certo è che Lodovico fu
medesimamente confortato a tanta deliberazione da Ercole da Esti duca di
Ferrara, suo suocero; il quale, ardendo di desiderio di recuperare il Polesine
di Rovigo, paese contiguo e molto importante alla sicurtà di Ferrara, statogli
occupato da' viniziani, nella guerra dieci anni innanzi avuta con loro,
conosceva essere unica via di poterlo ricuperare che Italia tutta si turbasse
con grandissimi movimenti. Ma e fu creduto da molti che Ercole, benché col
genero simulasse benivolenza grandissima, nondimeno in secreto l'odiasse
estremamente, perché, essendo in quella guerra tutto 'l resto d'Italia che
aveva prese l'armi per lui molto superiore a viniziani, Lodovico, il quale già
governava lo stato di Milano, mosso da' propri interessi, costrinse gli altri a
fare la pace, con condizione che a' viniziani rimanesse quel Pulesine; e però,
che Ercole, non potendo con l'armi vendicarsi di tanta ingiuria, cercasse
vendicarsi col dargli pestifero consiglio.
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