V. Pubbliche dichiarazioni di fiduciosa sicurezza e segrete preoccupazioni
di Ferdinando d'Aragona. Sua azione per allontanare da sé il pericolo e per
riconciliarsi col pontefice e con Lodovico Sforza. Il re di Francia compone le
sue divergenze co' re di Spagna, col re de' romani e con l'arciduca d'Austria.
L'investitura di Lodovico Sforza a duca di Milano. Ambasciata di Perone di
Baccie al pontefice, al senato veneziano ed a' fiorentini. Piero de' Medici di
fronte alle richieste del re di Francia. Comincia a vacillare la congiunzione
fra il pontefice e Ferdinando d'Aragona.
Ma essendo già
incominciata, benché da principio con autori incerti, a risonare in Italia la
fama di quello che oltre a' monti si trattava, si destorono vari pensieri e
discorsi nelle menti degli uomini: perché a molti, i quali la potenza del regno
di Francia, la prontezza di quella nazione a nuovi movimenti e le divisioni
degli italiani consideravano, pareva cosa di grandissimo momento; altri, per la
età e per le qualità del re, e per la negligenza propria a' franzesi e per gli
impedimenti che hanno le grandi imprese, giudicavano questo essere più tosto
impeto giovenile che fondato consiglio, il quale, poi che fusse alquanto
ribollito, avesse leggiermente a risolversi. Né Ferdinando, contro al quale
tali cose si macchinavano, dimostrava d'averne molto timore, allegando essere
impresa durissima: perché, se e' pensassino assaltarlo per mare, troverebbono
lui proveduto d'armata sufficiente a combattere con loro in alto mare, i porti
bene fortificati e tutti in sua potestà, né essere nel regno barone alcuno che
gli potesse ricevere come era stato ricevuto Giovanni d'Angiò dal principe di
Rossano e da altri grandi; l'espedizione per terra essere incomoda, sospetta a
molti e lontana, avendosi a passare prima per la lunghezza di tutta Italia, di
maniera che ciascuno degli altri arebbe causa particolarmente di temerne, e
forse più di tutti Lodovico Sforza, benché, volendo dimostrare che fusse
proprio di altri il pericolo comune, simulasse il contrario, perché, per la
vicinità dello stato di Milano alla Francia, aveva il re maggiore facoltà e
verisimilmente maggiore cupidità di occuparlo. E essendogli il duca di Milano
congiuntissimo di sangue, come potere almeno assicurarsi Lodovico che il re non
avesse in animo liberarlo dalla sua oppressione? avendo massime pochi anni
innanzi affermato palesemente che non comporterebbe che Giovan Galeazzo suo
cugino fusse conculcato sì indegnamente. Non avere tale condizione le cose
aragonesi che la speranza della debolezza loro dovesse dare a' franzesi ardire
d'assaltarle, essendo egli bene ordinato di molta e fiorita gente d'arme,
abbondante di bellicosi cavalli, di munizioni, di artiglierie e di tutte le
provisioni necessarie alla guerra, e con tanta copia di danari che senza
incomodità potrebbe quanto gli fusse necessario augumentarle; e oltre a molti
peritissimi capitani preposto al governo degli eserciti e armi sue il duca di
Calavria suo primogenito, capitano di fama grande e di virtù non minore, e
esperimentato per molti anni in tutte le guerre d'Italia. Aggiugnersi alle
forze proprie gli aiuti pronti de' suoi medesimi, perché non essere da dubitare
gli mancasse il soccorso del re di Spagna, suo cugino e fratello della moglie,
sì per il vincolo doppio del parentado come perché gli sarebbe sospetta la
vicinità de' franzesi alla Sicilia. Queste cose si dicevano da Ferdinando publicamente,
magnificando la sua potenza e estenuando quanto poteva le forze e l'opportunità
degli avversarii; ma, come era re di singolare prudenza e di esperienza
grandissima, intrinsecamente gravissimi pensieri lo tormentavano, avendo fissa
nell'animo la memoria de' travagli avuti, nel principio del regno suo, da
questa nazione. Considerava profondamente dovere avere la guerra con inimici
bellicosissimi e potentissimi, e molto superiori a sé di cavalleria, di
peditato, d'armate marittime, di artiglierie, di danari e d'uomini ardentissimi
a esporsi a ogni pericolo per la gloria e grandezza del proprio re; a sé, per
contrario, sospetta ogni cosa, pieno il regno quasi tutto o di odio grande
contro al nome aragonese o di inclinazione non mediocre a rebelli suoi, del
resto la maggiore parte cupida per l'ordinario di nuovi re, e nella quale
avesse a potere più la fortuna che la fede, ed essere maggiore la riputazione
che il nervo delle sue cose; non bastare i danari accumulati alle spese
necessarie per la difesa, e empiendosi per la guerra ogni cosa di ribellione e
di tumulti annichilarsi in uno momento l'entrate. Avere in Italia molti
inimici, niuna amicizia stabile e fidata; perché chi non era stato offeso, in
qualche tempo, o dalle armi o dalle arti sue? Né di Spagna, secondo l'esempio
del passato e le condizioni di quel regno, potere aspettare altri aiuti a' suoi
pericoli che larghissime promesse e fama grandissima di apparati ma effetti
piccolissimi e tardissimi. Accrescevangli il timore molte predizioni infelici
alla casa sua, venutegli a notizia in diversi tempi, parte per scritture
antiche ritrovate di nuovo parte per parole d'uomini, incerti spesso del
presente ma che si arrogano certezza del futuro; cose nella prosperità credute
poco, come cominciano a apparire l'avversità credute troppo. Angustiato da
queste considerazioni, e presentandosegli maggiore senza comparazione la paura
che le speranze, conobbe non essere altro rimedio a tanti pericoli che o il
rimuovere, quanto più presto si poteva, con qualche concordia, la mente del re
di Francia da questi pensieri o levargli parte de' fondamenti che lo incitavano
alla guerra. Perciò, avendo in Francia imbasciadori, mandativi per trattare lo
sposalizio di Ciarlotta figliuola di don Federigo suo secondo genito col re di
Scozia, il quale, per essere la fanciulla nata di una sorella della madre di
Carlo e allevata nella sua corte, si maneggiava da lui, dette loro sopra le
cose occorrenti nuove commissioni; e vi deputò, oltre a questi, Cammillo
Pandone, statovi altre volte per lui: affine che, tentando privatamente i
principali con premi e offerte grandi, e proponendo al re, quando altrimenti
non si potesse mitigarlo, condizione di censo e altre sommissioni, si sforzasse
di ottenere da lui la pace. Né solo interpose tutta la diligenza e autorità sua
per comporre la differenza delle castella comperate da Verginio Orsino, la cui
durezza si lamentava essere stata causa di tutti i disordini, ma ricominciò col
pontefice le pratiche del parentado trattato prima tra loro. Ma il principale
suo studio e diligenza si indirizzò a mitigare e ad assicurare l'animo di
Lodovico Sforza, autore e motore di tutto il male, persuadendosi che a così
pericoloso consiglio più il timore che altra cagione lo conducesse. E però,
anteponendo la sicurtà propria allo interesse della nipote e alla salute del
figliuolo nato di lei, gli offerse, per diversi mezzi, di riferirsi in tutto
alla sua volontà, delle cose di Giovan Galeazzo e del ducato di Milano: non
attendendo al parere d'Alfonso, il quale, pigliando animo dalla timidità
naturale di Lodovico, né si ricordando che alle deliberazioni precipitose si
conduce non meno agevolmente il timido per la disperazione che si conduca il
temerario per la inconsiderazione, giudicava che l'aspreggiarlo con spaventi e
con minaccie fusse mezzo opportuno a farlo ritirare da questi nuovi consigli.
Composesi finalmente, dopo varie difficoltà, procedute più da Verginio che dal
pontefice, la differenza delle castella; intervenendo alla composizione don
Federigo, mandato a questo effetto dal padre a Roma: convennono che Verginio le
ritenesse, ma pagando al pontefice tanta quantità di danari per quanti l'aveva
prima comperate da Franceschetto Cibo. Conchiusesi insieme lo sposalizio di
madama Sances figliuola naturale di Alfonso in don Giuffré figliuolo minore del
pontefice, inabili tutt'a due per l'età alla consumazione del matrimonio: le
condizioni furono che don Giuffré andasse fra pochi mesi a stare a Napoli,
ricevesse in dote il principato di Squillaci con entrata di ducati diecimila
l'anno, e fusse condotto con cento uomini d'arme agli stipendi di Ferdinando:
donde si confermò l'opinione, avuta da molti, che quel che aveva trattato in
Francia il pontefice fusse stato trattato principalmente per indurre col timore
gli Aragonesi a queste convenzioni. Tentò di più Ferdinando di confederarsi con
lui a difesa comune; ma interponendo il pontefice molte difficoltà, non ottenne
altro che una promessa occultissima, per breve, di aiutarlo a difendere il
regno di Napoli, in caso che Ferdinando promettesse a lui di fare il medesimo
dello stato della Chiesa. Le quali cose espedite, si partirono, licenziate dal
papa, del dominio ecclesiastico le genti d'arme che i viniziani e il duca di
Milano gli aveano mandate in aiuto. Né cominciò Ferdinando con minore speranza
di felice successo a trattare con Lodovico Sforza, il quale con arte
grandissima, ora mostrandosi malcontento della inclinazione del re di Francia
alle cose d'Italia come pericolosa a tutti gli italiani, ora scusandosi per la
necessità la quale, per il feudo di Genova e per la confederazione antica con
la casa di Francia, l'aveva costretto a udire le richieste fattegli, secondo
diceva, da quel re, ora promettendo, qualche volta a Ferdinando qualche volta
separatamente al pontefice e a Piero de' Medici, di affaticarsi quanto potesse
per raffreddare l'ardore di Carlo, si sforzava di tenergli addormentati in
questa speranza, acciocché, innanzi che le cose di Francia fussino bene
ordinate e stabilite, contro a lui qualche movimento non si facesse: e gli era
creduto più facilmente perché la deliberazione di fare passare il re di Francia
in Italia era giudicata sì mal sicura ancora per lui, che non pareva possibile
che finalmente non se n'avesse, considerato il pericolo, a ritirare.
Consumossi
tutta la state in queste pratiche, procedendo Lodovico in modo che, senza dare
ombra al re di Francia, né Ferdinando né il pontefice né i fiorentini delle sue
promesse si disperavano né totalmente vi confidavano. Ma in questo tempo si
gittavano in Francia sollecitamente i fondamenti della nuova espedizione, alla
quale, contro al consiglio di quasi tutti i signori, era ogni dì maggiore
l'ardore del re: il quale, per essere più espedito, compose le differenze che
aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di Spagna, prìncipi in quello
tempo molto celebrati e gloriosi per la fama della prudenza loro, per avere
ridotti di grandissime turbolenze in somma tranquillità e ubbidienza i regni
suoi, e per avere nuovamente, con guerra continuata dieci anni, recuperato al
nome di Cristo il reame di Granata, stato posseduto da' mori di Affrica poco
manco di ottocento anni; per la quale vittoria conseguirono dal pontefice, con
grande applauso di tutti i cristiani, il cognome di re cattolici. Fu espresso
in questa capitolazione, fermata molto solennemente e con giuramenti prestati
in publico dall'una parte e dall'altra ne' templi sacri, che Ferdinando e
Isabella (reggevasi la Spagna in nome comune) né direttamente né indirettamente
gli Aragonesi aiutassino, parentado nuovo con loro non contraessino, né in modo
alcuno per difesa di Napoli a Carlo si opponessino; le quali obligazioni egli
per ottenere, cominciando dalla perdita certa per speranza di guadagno incerto,
restituì senza alcuno pagamento Perpignano con tutta la contea di Rossiglione,
impegnata molti anni innanzi a Luigi suo padre da Giovanni re di Aragona padre
di Ferdinando: cosa molestissima a tutto il regno di Francia, perché quella
contea, situata alle radici de' monti Pirenei e però, secondo l'antica
divisione, parte della Gallia, impediva agli spagnuoli l'entrare in Francia da
quella parte. Fece per la medesima cagione Carlo pace con Massimiliano re de'
romani e con Filippo arciduca d'Austria suo figliuolo, i quali avevano seco gravissime
cagioni, antiche e nuove, di inimicizia, cominciate perché Luigi suo padre, per
l'occasione della morte di Carlo duca di Borgogna e conte di Fiandra e di molti
altri paesi circostanti, aveva occupato il ducato di Borgogna, il contado di
Artois e molte altre terre possedute da lui. Donde essendo nate gravi guerre
tra Luigi e Maria figliuola unica di Carlo, la quale poco dopo la morte del
padre si era maritata a Massimiliano, era ultimamente, essendo già morta Maria
e succeduto nell'eredità materna Filippo figliuolo comune di Massimiliano e di
lei, fattasi, più per volontà de' popoli di Fiandra che di Massimiliano,
concordia tra loro; per stabilimento della quale a Carlo figliuolo di Luigi fu
Margherita sorella di Filippo sposata e, benché fusse di età minore, condotta
in Francia: dove poi che fu stata più anni, Carlo repudiatala, tolse per moglie
Anna, alla quale, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi,
apparteneva il ducato di Brettagna; con doppia ingiuria di Massimiliano, privato
in uno tempo medesimo del matrimonio della figliuola e del proprio, perché
prima per mezzo di suoi procuratori aveva sposato Anna. E nondimeno, impotente
a sostentare da se stesso la guerra, ricominciata per cagione di questa
ingiuria, né volendo i popoli di Fiandra, i quali, per essere Filippo pupillo,
con consiglio e autorità propria si reggevano, stare in guerra col regno di
Francia; e vedendo posate l'armi contro a' franzesi da' re di Spagna e di
Inghilterra, consentì alla pace: per la quale Carlo restituì a Filippo
Margherita sua sorella, ritenuta insino a quel dì in Francia, e insieme le
terre del contado di Artois, riservandosi le fortezze ma con obligazione di
restituirle alla fine di quattro anni; al quale tempo Filippo, divenuto di età
maggiore, poteva validamente confermare l'accordo fatto. Le quali terre, nella
pace fatta dal re Luigi, erano state concordemente riconosciute come per dote
di Margherita predetta.
Stabilissi, per
esser renduta al regno di Francia la pace da tutti i vicini, la deliberazione
della guerra di Napoli per l'anno prossimo; e che in questo mezzo tutte le
provisioni necessarie si preparassino, sollecitate continuamente da Lodovico
Sforza. Il quale (come i pensieri degli uomini di grado in grado si distendono),
non pensando più solo a assicurarsi nel governo ma sollevato a più alti
pensieri, aveva nell'animo, con l'occasione de' travagli degli Aragonesi,
trasferire in tutto in sé il ducato di Milano: e per dare qualche colore di
giustizia a tanta ingiustizia, e fermare con maggiori fondamenti le cose sue a
tutti i casi che potessino intervenire, maritò Bianca Maria sorella di Giovan
Galeazzo e sua nipote a Massimiliano, succeduto nuovamente per la morte di
Federico suo padre nello imperio romano; promettendogli in dote in certi tempi
quattrocentomila ducati in pecunia numerata, e in gioie e in altri apparati
ducati quarantamila. E da altro canto Massimiliano, seguitando in questo
matrimonio più i danari che il vincolo della affinità, si obligò di concedere a
Lodovico, in pregiudicio di Giovan Galeazzo nuovo cognato, l'investitura del
ducato di Milano, per sé, per i figliuoli e per i discendenti suoi; come se
quello stato, dopo la morte di Filippo Maria Visconte, fusse di legittimo duca
sempre vacato: promettendo di consegnargli, al tempo dell'ultimo pagamento, i
privilegi, spediti in forma amplissima.
I Visconti,
gentiluomini di Milano, nelle parzialità sanguinosissime che ebbe Italia de'
ghibellini e de' guelfi, cacciati finalmente i guelfi, diventorno (è questo
quasi sempre il fine delle discordie civili), di capi di una parte di Milano,
padroni di tutta la città; nella quale grandezza avendo continuato molti anni,
cercorono, secondo il progresso comune delle tirannidi (perché quello che era usurpazione
paresse ragione), di corroborare prima con legittimi colori e dipoi di
illustrare con amplissimi titoli la loro fortuna. Però, ottenuto dagli
imperadori, de' quali Italia cominciava già a conoscere più il nome che la
possanza, prima il titolo di capitani poi di vicari imperiali, all'ultimo
Giovan Galeazzo, il quale, per avere ricevuto la contea di Virtus da Giovanni
re di Francia suo suocero, si chiamava il conte di Virtù, ottenne da Vincislao
re de' romani, per sé e per la sua stirpe mascolina, la degnità di duca di
Milano; nella quale gli succederono, l'uno dopo l'altro, Giovan Maria e Filippo
Maria suoi figliuoli. Ma finita la linea mascolina per la morte di Filippo,
benché egli avesse nel testamento suo instituito erede Alfonso re d'Aragona e
di Napoli, mosso dall'amicizia grandissima la quale, per la liberazione sua,
aveva contratta seco, e molto più perché il ducato di Milano, difeso da
principe sì potente, non fusse occupato da' viniziani, i quali già
manifestamente v'aspiravano, nondimanco Francesco Sforza, capitano in quella
età valorosissimo né minore nell'arte della pace che della guerra, aiutato da
molte occasioni che allora concorsono, e non meno dall'avere stimato più il
regnare che l'osservanza della fede, occupò con l'armi quel ducato come
appartenente a Bianca Maria sua moglie, figliuola naturale di Filippo; ed è
fama che e' potette ottenerne poi, con non molta quantità di danari,
l'investitura da Federigo imperatore, ma che, confidando di potere con le
medesime arti conservarlo con le quali l'aveva guadagnato, la dispregiò. Così
senza investitura continuò Galeazzo suo figliuolo, e continuava Giovan Galeazzo
suo nipote: onde Lodovico, in uno medesimo tempo scelerato contro al nipote
vivo e ingiurioso contro alla memoria del padre e del fratello morti,
affermando non essere stato alcuno di essi legittimo duca di Milano, se ne fece
come di stato devoluto allo imperio investire da Massimiliano, intitolandosi
per questa ragione non settimo ma quarto duca di Milano. Benché queste cose alla
notizia di pochi, mentre visse il nipote, trapassorono. Soleva oltre a questo
dire, seguitando l'esempio di Ciro fratello minore di Artoserse re di Persia, e
confermandolo con l'autorità di molti giurisconsulti, che precedeva Galeazzo
suo fratello, non per l'età ma per essere stato il primo figliuolo che fusse
nato al padre comune poi che era diventato duca di Milano: la quale ragione
insieme con la prima, benché taciuto l'esempio di Ciro, fu espressa ne’
privilegi imperiali; a' quali, per velare, benché con colore ridicolo, la
cupidità di Lodovico, fu in lettere separate aggiunto non essere consuetudine
del sacro imperio concedere alcuno stato a chi l'avesse prima con l'autorità di
altri tenuto, e perciò essere stati da Massimiliano disprezzati i prieghi fatti
da Lodovico per ottenere l'investitura per Giovan Galeazzo, che aveva prima dal
popolo di Milano quel ducato riconosciuto. Il parentado fatto da Lodovico
accrebbe la speranza a Ferdinando che e' s'avesse a alienare dalla amicizia del
re di Francia, giudicando che l'essersi aderito e il somministrare a uno emulo,
e per tante cagioni inimico, quantità così grande di danari, fusse per generare
diffidenza tra loro, e che Lodovico, preso animo da questa nuova congiunzione,
avesse più arditamente a discostarsene: la quale speranza Lodovico nutriva con
grandissimo artificio, e nondimeno (tanta era la sagacità e destrezza sua)
sapeva in uno tempo medesimo dare parole a Ferdinando e agli altri d'Italia, e
bene intrattenersi col re de' romani e con quello di Francia. Sperava
similmente Ferdinando che al senato viniziano, al quale aveva mandato
imbasciadori, avesse a essere molesto che in Italia, dove tenevano il primo
luogo di potenza e di autorità, entrasse uno principe tanto maggiore di loro:
né conforti e speranze da' re di Spagna gli mancavano, i quali soccorso potente
gli promettevano, in caso che con le persuasioni e con l'autorità non potessino
questa impresa interrompere.
Da altra parte
si sforzava il re di Francia, poiché aveva rimosso gl'impedimenti di là da
monti, rimuovere le difficoltà e gli ostacoli che potessino essergli fatti di
qua. Però mandò Perone di Baccie, uomo non imperito delle cose d'Italia, dove
era stato sotto Giovanni d'Angiò; il quale, significata al pontefice, al senato
viniziano e a' fiorentini, la deliberazione fatta dal re di Francia per
recuperare il regno di Napoli, fece instanza con tutti che si congiugnessino
con lui; ma non riportò altro che speranze e risposte generali, perché, essendo
la guerra non prima che per l'anno prossimo disegnata, ricusava ciascuno di
scoprire tanto innanzi la sua intenzione. Ricercò medesimamente il re gli
oratori de' fiorentini, mandati prima a lui, con consentimento di Ferdinando,
per escusarsi della imputazione si dava loro di essere inclinati agli
Aragonesi, che gli fusse promesso passo e vettovaglia nel territorio loro
all'esercito suo, con pagamento conveniente, e di mandare con esso cento uomini
d'arme, i quali diceva chiedere per segno che la republica fiorentina
seguitasse la sua amicizia: e benché gli fusse dimostrato non potersi senza
grave pericolo fare tale dichiarazione se prima l'esercito suo non era passato
in Italia, e affermato che di quella città si poteva in ogni caso promettere
quanto conveniva alla osservanza e devozione che sempre alla corona di Francia
portata aveva, nondimeno erano con impeto franzese stretti a prometterlo,
minacciando altrimenti di privargli del commercio che la nazione fiorentina
aveva grandissimo di mercatanzie in quel reame: i quali consigli, come poi si
manifestò, nascevano da Lodovico Sforza, guida allora e indirizzatore di tutto
quello che per loro con gli italiani si praticava. Affaticossi Piero de' Medici
di persuadere a Ferdinando queste dimande importare sì poco alla somma della
guerra, che e' potrebbe giovargli più che la republica e egli si conservassino
in fede con Carlo, per la quale arebbono forse opportunità di essere mezzo a
qualche composizione. Allegava, oltre a questo, il carico grandissimo e l'odio
il quale contro a sé si conciterebbe in Firenze se i mercatanti fiorentini
fussino cacciati di Francia; e convenire alla buona fede, fondamento principale
delle confederazioni, che ciascuno de' confederati tollerasse pazientemente
qualche incomodità perché l'altro non incorresse in danni molto maggiori. Ma
Ferdinando, il quale considerava quanto si diminuirebbe della riputazione e
sicurtà sua se i fiorentini si separassino da lui, non accettava queste
ragioni, ma si lamentò gravissimamente che la costanza e la fede di Piero
cominciassino così presto a non corrispondere a quel che di lui s'avea
promesso; donde Piero, determinato di conservarsi innanzi a ogni cosa
l'amicizia aragonese, fece allungare con varie arti la risposta da' franzesi
instantemente dimandata, rimettendosi in ultimo che per nuovi oratori si
farebbe intendere l'intenzione della republica.
Nella fine di
quest'anno cominciò la congiunzione fatta tra il pontefice e Ferdinando a
vacillare: o perché il pontefice aspirasse, con introdurre nuove difficoltà, a
ottenere da lui cose maggiori o perché si persuadesse di muoverlo con questo
modo a ridurre il cardinale di San Piero a Vincola all'ubbidienza sua; il quale
egli, offerendo per sicurtà la fede del collegio de' cardinali, di Ferdinando e
de' viniziani, desiderava sommamente che andasse a Roma, essendogli sospetta
molto la sua assenza, per la importanza della rocca d'Ostia (perché intorno a
Roma teneva Ronciglione e Grottaferrata), per molte dependenze e autorità
grande che aveva nella corte, e finalmente per la natura sua desiderosa di cose
nuove e l'animo pertinace a correre prima ogni pericolo che allentare uno punto
solo delle sue deliberazioni. Scusavasi efficacissimamente Ferdinando di non
potere piegare a questo il Vincola, insospettito tanto che qualunque sicurtà
gli pareva inferiore al pericolo; e si lamentava della sua mala fortuna col
pontefice, che sempre attribuisse a lui quel che veramente procedeva da altri;
così avere creduto che Verginio per i conforti e co' danari suoi avesse
comperato le castella, e nondimeno la compera essere stata fatta senza sua
partecipazione, ma essere bene egli stato quello che aveva disposto Verginio
all'accordo, e che a questo effetto l'aveva accomodato de' danari che si
pagorono in ricompensa delle castella. Le quali scuse mentre che 'l pontefice
non accetta, anzi con acerbe e quasi minatorie parole si lamenta di Ferdinando,
pareva che nella reconciliazione fatta tra loro non si potesse fare stabile
fondamento.
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