VI. Il re di Francia allontana dal regno gli oratori di Ferdinando
d'Aragona. Morte di Ferdinando. Giudizio dell'autore sul re. Confederazione fra
il pontefice e Alfonso d'Aragona. Tentativi di riconciliazione di Alfonso con
Lodovico Sforza e contegno di questo. Sollecitazioni degli ambasciatori del re
di Francia per ottenere da' fiorentini assicurazione d'alleanza o, almeno, di
benevoli aiuti all'esercito francese. Richiesta al pontefice d'investitura di
Carlo VIII a re di Napoli. Risposta del pontefice. Risposta del governo di
Firenze agli oratori del re di Francia. Sdegno del re contro Piero. Neutralità
di Venezia.
Incominciò in
tale disposizione degli animi, e in tale confusione delle cose tanto inclinate
a nuove perturbazioni, l'anno mille quattrocento novantaquattro (io piglio il
principio secondo l'uso romano), anno infelicissimo a Italia, e in verità anno
principio degli anni miserabili, perché aperse la porta a innumerabili e
orribili calamità, delle quali si può dire che per diversi accidenti abbia di
poi partecipato una parte grande del mondo. Nel principio di questo anno,
Carlo, alienissimo dalla concordia con Ferdinando, comandò agli oratori suoi
che, come oratori di re inimico, si partissino subito del reame di Francia; e
quasi ne' medesimi dì morì per uno catarro repentino Ferdinando, soprafatto più
da' dispiaceri dell'animo che dall'età. Fu re di celebrata industria e
prudenza, con la quale, accompagnata da prospera fortuna, si conservò il regno,
acquistato nuovamente dal padre, contro a molte difficoltà che nel principio
del regnare se gli scopersono, e lo condusse a maggiore grandezza che forse
molti anni innanzi l'avesse posseduto re alcuno. Buono re, se avesse continuato
di regnare con l'arti medesime con le quali aveva principiato; ma in progresso
di tempo, o presi nuovi costumi per non avere saputo, come quasi tutti i
prìncipi, resistere alla violenza della dominazione o, come fu creduto quasi da
tutti, scoperti i naturali, i quali prima con grande artificio aveva coperti,
notato di poca fede e di tanta crudeltà che i suoi medesimi degna più presto di
nome di immanità la giudicavano. La morte di Ferdinando si tenne per certo che
nocesse alle cose comuni; perché, oltre che arebbe tentato qualunque rimedio
atto a impedire la passata de' franzesi, non si dubita che più difficile
sarebbe stato fare che Lodovico Sforza della natura altiera e poco moderata
d'Alfonso s'assicurasse che disporlo a rinnovare l'amicizia con Ferdinando,
sapendo che ne' tempi precedenti era stato spesso inclinato, per non avere cagione
di controversie con lo stato di Milano, a piegarsi alla sua volontà. E
trall'altre cose è manifesto che, quando Isabella figliuola d'Alfonso andò a
congiugnersi col marito, Lodovico, come la vide, innamorato di lei, desiderò di
ottenerla per moglie dal padre; e a questo effetto operò, così fu allora
creduto per tutta Italia, con incantamenti e con malie, che Giovan Galeazzo fu
per molti mesi impotente alla consumazione del matrimonio. Alla qual cosa
Ferdinando arebbe acconsentito, ma Alfonso repugnò; donde Lodovico, escluso di
questa speranza, presa altra moglie e avutine figliuoli, voltò tutti i pensieri
a trasferire in quegli il ducato di Milano. Scrivono oltre a questo alcuni che
Ferdinando, parato a tollerare qualunque incomodo e indegnità per fuggire la
guerra imminente, aveva deliberato, come prima lo permettesse la benignità
della stagione, andare in sulle galee sottili per mare a Genova, e di quivi per
terra a Milano per sodisfare a Lodovico in tutto quello desiderasse, e
rimenarne a Napoli la nipote; sperando che, oltre agli effetti delle cose,
questa publica confessione di riconoscere in tutto da lui la salute avesse a
mitigare l'animo suo: perché era noto quanto egli con sfrenata ambizione
ardesse di desiderio di parere l'àrbitro e quasi l'oracolo di tutta Italia.
Ma Alfonso,
subito morto il padre, mandò quattro oratori al pontefice; il quale, facendo
segni di essere alla prima inclinazione dell'amicizia franzese ritornato, aveva
ne' medesimi dì, per una bolla sottoscritta dal collegio de' cardinali,
promesso, a requisizione del re di Francia, al vescovo di San Malò la degnità
del cardinalato e condotto a' stipendi comuni col duca di Milano Prospero
Colonna, soldato prima del re, e alcuni altri condottieri di gente d'arme: e nondimeno
si rendé facile alla concordia, per le condizioni grandi le quali Alfonso,
desiderosissimo di assicurarsi di lui e d'obligarlo alla sua difesa, gli
propose. Convennono adunque palesemente che tra loro fusse confederazione a
difesa degli stati, con determinato numero di gente per ciascuno; concedesse il
pontefice a Alfonso l'investitura del regno, con la diminuzione del censo
ottenuta per Ferdinando, durante solo la vita sua, dagli altri pontefici, e
mandasse uno legato apostolico a incoronarlo; creasse cardinale Lodovico
figliuolo di don Enrico fratello naturale d'Alfonso, il quale fu poi chiamato
il cardinale d'Aragona; pagasse il re incontinente al pontefice ducati
trentamila; desse al duca di Candia stati nel regno d'entrata di dodicimila
ducati l'anno e il primo de' sette uffici principali che vacasse; conducesselo
per tutta la vita del pontefice a' soldi suoi con trecento uomini d'arme, co'
quali fusse tenuto servire parimente l'uno e l'altro di loro; a don Giuffré,
che quasi per pegno della fede paterna andasse a abitare appresso al suocero,
concedesse, oltre alle cose promesse nella prima convenzione, il
protonotariato, uno medesimamente de' sette uffici; e entrate di benefici del
regno a Cesare Borgia figliuolo del pontefice, promosso poco innanzi dal padre
al cardinalato, avendo, per rimuovere lo impedimento di essere spurio, a' quali
non era solito concedersi tale degnità, fatto con falsi testimoni provare che
era figliuolo legittimo di altri. Promesse di più Verginio Orsino, il quale col
mandato regio intervenne a questa capitolazione, che 'l re aiuterebbe il
pontefice a ricuperare la rocca d'Ostia, in caso che il cardinale di San Piero
a Vincola di andare a Roma ricusasse, la quale promessa il re affermava essere
stata fatta senza suo consentimento o saputa; e giudicando che in tempo tanto
pericoloso fusse molto dannoso l'alienarsi quello cardinale, potente nelle cose
di Genova, le quali stimolato da lui disegnava tentare, e perché forse in
agitazione sì grave s'arebbe a trattare di concili o di materie pregiudiciali
alla sedia apostolica, interpose grandissima diligenza per accordarlo col
pontefice: al quale non sodisfacendo in questa cosa condizione alcuna se il
Vincola non ritornava a Roma, e essendo il cardinale ostinatissimo a non
commettere mai la vita propria alla fede, tali erano le parole sue, di
catelani, restò vana la fatica e il desiderio d'Alfonso. Perché il cardinale,
poi che ebbe simulatamente dato speranza quasi certa di accettare le condizioni
che si trattavano, si partì all'improvviso una notte, in su uno brigantino
armato, da Ostia, lasciata bene guardata quella rocca; e soprastato pochi dì a
Savona e poi in Avignone, della quale città era legato, andò finalmente a
Lione, dove poco innanzi si era trasferito Carlo, per fare con più comodità e
maggiore riputazione le provisioni per la guerra, alla quale già publicava
volere andare in persona; e da lui ricevuto con grandissima festa e onore, si
congiunse con gli altri che la turbazione d'Italia procuravano.
Né mancava
Alfonso, essendogli diventato buon maestro il timore, di continuare con
Lodovico Sforza quel che era stato cominciato dal padre, offerendogli le
medesime sodisfazioni; il quale egli, secondo il costume suo, si ingegnava di
pascere con varie speranze, ma dimostrando essere costretto a procedere con
grandissima destrezza e considerazione acciocché la guerra disegnata contro ad
altri non avesse principio contro a lui. Ma da altra parte non cessava di
sollecitare in Francia le preparazioni; e per farlo con maggiore efficacia e
stabilire meglio tutti i particolari di quel che s'avesse a ordinare, e
acciocché non si ritardasse poi l'esecuzione delle cose deliberate, vi mandò,
dando voce fusse chiamato dal re, Galeazzo da San Severino marito di una sua
figliuola naturale, il quale era di grandissima fede e favore appresso a lui.
Per i consigli
di Lodovico, mandò Carlo al pontefice quattro oratori, con commissione che nel
passare per Firenze facessino instanza per la dichiarazione di quella republica:
Eberardo di Ubignì capitano di nazione scozzese, il generale di Francia, il
presidente del parlamento di Provenza e il medesimo Perone di Baccie che l'anno
precedente v'avea mandato. I quali, secondo la loro istruzione ordinata
principalmente a Milano, narrorono nell'uno luogo e nell'altro le ragioni le
quali il re di Francia, come successore della casa di Angiò e per essere
mancata la linea di Carlo primo, pretendeva al reame di Napoli, e la
deliberazione di passare l'anno medesimo personalmente in Italia, non per
occupare cosa alcuna appartenente ad altri ma solo per ottenere quello che
giustamente se gli aspettava; benché per ultimo fine non avesse tanto il regno
di Napoli quanto il potere poi volgere l'armi contro a' turchi, per
accrescimento e esaltazione del nome cristiano. Esposono a Firenze quanto il re
si confidava di quella città, stata riedificata da Carlo magno e favorita
sempre dai re suoi progenitori, e frescamente da Luigi suo padre, nella guerra
la quale, sì ingiustamente, fu fatta loro da Sisto pontefice, da Ferdinando
prossimamente morto e da Alfonso presente re. Ridusseno alla memoria i comodi
grandissimi i quali, per il commercio delle mercatanzie, nella nazione
fiorentina del reame di Francia pervenivano, dove era bene veduta e carezzata
non altrimenti che se fusse del sangue franzese; col quale esempio, del regno
di Napoli, quando fusse signoreggiato da lui, i medesimi benefici e utilità
sperare potevano: così come dagli Aragonesi giammai altro che danni e ingiurie
ricevute non avevano: ricercando volessino fare qualche segno di essere
congiunti seco a questa impresa; e quando pure per qualche giusta causa
impediti fussino, concedessino almanco passo e vettovaglia per il dominio loro,
a spese dell'esercito franzese. Queste cose trattorono con la republica. A
Piero de' Medici privatamente ricordorono molti benefici e onori fatti da Luigi
undecimo al padre e a' maggiori suoi: avere ne' tempi difficili fatto molte
dimostrazioni per conservazione della grandezza d'essi, onorato, in testimonio
di benivolenza, le insegne loro con le insegne proprie della casa di Francia; e
da altro canto Ferdinando, non contento d'avergli apertamente perseguitati con
l'armi, essersi sceleratamente mescolato nelle congiure civili, nelle quali era
stato ammazzato Giuliano suo zio e ferito gravemente Lorenzo suo padre. Al
pontefice, ricordato gli antichi meriti e la continua divozione della casa di
Francia verso la sedia apostolica, delle quali cose erano piene tutte le
memorie antiche e moderne, la contumacia e spesse inubbidienze degli Aragonesi,
domandorono la investitura del regno di Napoli nella persona di Carlo, come
giuridicamente dovutagli; proponendo molte speranze e facendo molte offerte
quando fusse propizio a questa impresa, la quale non meno per le persuasioni e
autorità sua che per altra cagione era stata deliberata. Alla quale domanda
rispose il pontefice che, essendo la investitura di quello reame conceduta da
tanti suoi antecessori successivamente a tre re della casa di Aragona, perché
nella investitura fatta a Ferdinando nominatamente si comprendeva Alfonso, non
era conveniente concederla a Carlo, insino a tanto che per via di giustizia non
fusse dichiarato che egli avesse migliori ragioni; alle quali la investitura
fatta a Alfonso pregiudicato non avere, perché, per questa considerazione, vi
era stato specificato che ella s'intendesse senza pregiudicio di persona.
Ricordò il regno di Napoli essere di dominio diretto della sedia apostolica,
l'autorità della quale non si persuadeva che il re, contro allo instituto de'
suoi maggiori, che sempre ne erano stati precipui difensori, volesse violare,
come violerebbe assaltandolo di fatto. Convenire più alla sua degnità e bontà,
pretendendovi ragione, cercarla per via della giustizia, la quale, come signore
del feudo e solo giudice di questa causa, si offeriva parato ad amministrargli;
né dovere uno re cristianissimo ricercare altro da uno pontefice romano,
l'ufficio del quale era proibire, non fomentare, le violenze e le guerre tra i
prìncipi cristiani. Dimostrò, quando bene volesse fare altrimenti, molte
difficoltà e pericoli, per la vicinità di Alfonso e de' fiorentini, l'unione
de' quali seguitava tutta la Toscana, e per la dependenza dal re di tanti
baroni, gli stati de' quali insino in sulle porte di Roma si distendevano; e si
sforzò nondimeno di non tagliare loro interamente la speranza, con tutto che in
se medesimo di non partire dalla confederazione fatta con Alfonso determinato
avesse.
A Firenze era
grande la inclinazione inverso la casa di Francia, per il commercio di tanti
fiorentini in quello reame, per l'opinione inveterata, benché falsa, che Carlo
magno avesse riedificata quella città, distrutta da Totila re de' goti; per la
congiunzione grandissima avuta per lunghissimo tempo da' maggiori loro, come da
guelfi, con Carlo primo re di Napoli e con molti de' suoi discendenti,
protettori della parte guelfa in Italia; per la memoria delle guerre che prima
Alfonso vecchio e dipoi, l'anno mille quattrocento settantotto, Ferdinando, mandatovi
in persona Alfonso suo figliuolo, aveva fatte a quella città: per le quali
cagioni tutto 'l popolo desiderava che 'l passo si concedesse. Ma non meno lo
desideravano i cittadini più savi e di maggiore autorità nella republica, i
quali essere somma imprudenza riputavano il tirare nel dominio fiorentino, per
le differenze di altri, una guerra di tanto pericolo, opponendosi a uno
esercito potentissimo e alla persona del re di Francia; il quale entrava in
Italia co' favori dello stato di Milano e, se non consentendo, almanco non
contradicendo il senato viniziano. Confermavano il consiglio loro con
l'autorità di Cosimo de' Medici, stato stimato nell'età sua uno de' più savi
uomini d'Italia; il quale nella guerra tra Giovanni d'Angiò e Ferdinando, benché
a Ferdinando aderissino il pontefice e il duca di Milano, aveva sempre
consigliato che quella città non si opponesse a Giovanni. Riducevano in memoria
l'esempio di Lorenzo padre di Piero, il quale in ogni romore della ritornata
degli Angioini aveva sempre avuto il medesimo parere; le parole usate spesso da
lui, spaventato dalla potenza de' franzesi poi che questo re medesimo aveva
ottenuto la Brettagna: apparecchiarsi grandissimi mali agli italiani se il re
di Francia conoscesse le forze proprie. Ma Piero de' Medici, misurando più le
cose con la volontà che con la prudenza e prestando troppa fede a se stesso, e
persuadendosi che questo moto s'avesse a risolvere più tosto in romori che in
effetti, confortato al medesimo da qualcuno de' ministri suoi corrotto, secondo
si disse, da' doni di Alfonso, deliberò pertinacemente di continuare
nell'amicizia aragonese: il che bisognava che, per la grandezza sua, tutti gli
altri cittadini finalmente acconsentissino. Ho autori da non disprezzare che
Piero, non contento della autorità la quale aveva il padre ottenuta nella
republica, benché tale che secondo la disposizione sua i magistrati si
creavano, da' quali le cose di maggiore momento non senza il parere suo si
deliberavano, aspirasse a più assoluta potestà e a titolo di principe; non
misurando saviamente le condizioni della città, la quale, essendo allora
potente e molto ricca, e nutrita, già per più secoli, con apparenza di
republica, e i cittadini maggiori soliti a partecipare nel governo più presto
simili a compagni che a sudditi, non pareva che senza violenza grande avesse a
tollerare tanta e sì subita mutazione: e perciò, che Piero, conoscendo che a
sostentare questa sua cupidità bisognavano estraordinari fondamenti, era, per
farsi uno appoggio potente alla conservazione del nuovo principato,
immoderatamente ristrettosi con gli Aragonesi e determinato di correre con loro
la medesima fortuna. E accadde per avventura che, pochi dì innanzi che gli
oratori franzesi arrivassino in Firenze, erano venute a luce alcune pratiche,
le quali Lorenzo e Giovanni de' Medici, giovani ricchissimi e congiuntissimi a
Piero di sangue, alienatisi, per cause che ebbono origine giovenile, da lui,
avevano, per mezzo di Cosimo Rucellai fratello cugino di Piero, tenute con
Lodovico Sforza, e per introduzione sua col re di Francia, le quali tendevano
direttamente contro alla grandezza di Piero; per il che, ritenuti da'
magistrati, furono con leggierissima punizione rilegati nelle loro ville,
perché la maturità de' cittadini, benché non senza molta difficoltà, indusse
Piero a consentire che contro al sangue proprio non si usasse il giudicio
severo delle leggi: ma avendolo certificato questo accidente che Lodovico
Sforza era intento a procurare la sua ruina, stimò essere tanto più necessitato
a perseverare nella prima deliberazione. Fu adunque risposto agli oratori con
ornate e reverenti parole ma senza la conclusione desiderata da loro,
dimostrando da una parte la naturale divozione de' fiorentini alla casa di
Francia e il desiderio immenso di sodisfare a così glorioso re, dall'altra gli
impedimenti: perché niuna cosa era più indegna de' prìncipi e delle republiche
che non osservare la fede promessa, la quale senza maculare espressamente non
potevano consentire alle sue dimande; conciossiacosaché ancora non fusse finita
la confederazione la quale, per l'autorità del re Luigi suo padre, era stata
fatta con Ferdinando, con patto che dopo la morte sua si distendesse ad
Alfonso, e con espressa condizione di essere non solo obligati alla difesa del
regno di Napoli ma a proibire il passo per il territorio loro a chi andasse a
offenderlo. Ricevere somma molestia di non potere deliberare altrimenti, ma
sperare che 'l re, sapientissimo e giustissimo, conosciuta la loro ottima
disposizione, attribuirebbe quel che non si prometteva agli impedimenti, tanto
giusti. Da questa risposta sdegnato, il re fece partire subito di Francia
gl'imbasciadori de' fiorentini e scacciò da Lione, secondo il consiglio di
Lodovico Sforza, non gli altri mercatanti ma i ministri solo del banco di Piero
de' Medici, acciocché a Firenze si interpretasse lui riconoscere questa
ingiuria dalla particolarità di Piero non dalla universalità de' cittadini.
Così
dividendosi tutti gli altri potentati italiani, quali in favore del re di
Francia quali in contrario, soli i viniziani deliberavano, standosi neutrali,
aspettare oziosamente l'esito di queste cose; o perché non fusse loro molesto
che Italia si perturbasse, sperando per le guerre lunghe degli altri potersi
ampliare l'imperio veneto, o perché, non temendo per la grandezza loro dovere
essere facilmente preda del vincitore, giudicassino imprudente consiglio il
fare proprie senza evidente necessità le guerre d'altri: benché e Ferdinando
non cessasse continuamente di stimolargli e che il re di Francia, l'anno
dinanzi e in questo tempo medesimo, v'avesse mandato imbasciadori, i quali
avevano esposto che tra la casa di Francia e quella republica non era stata
altro che amicizia e benivolenza e da ogni banda amorevoli e benigni uffici,
dove fusse stata l'occasione; la quale disposizione il re desideroso di
augumentare, pregava quello sapientissimo senato che all'impresa sua volesse
dare consiglio e favore. Alla quale esposizione avevano prudente e brevemente
risposto: quel re cristianissimo essere re di tanta sapienza e avere appresso a
sé tanto grave e maturo consiglio, che troppo presumerebbe di se medesimo
chiunque ardisse consigliarlo; soggiugnendo che al senato viniziano sarebbono
gratissime tutte le sue prosperità, per l'osservanza avuta sempre a quella
corona: e perciò essergli molestissimo di non potere co' fatti corrispondere
alla prontezza dell'animo, perché per il sospetto nel quale gli teneva
continuamente il gran turco, che aveva cupidità e opportunità grandissima di offendergli,
la necessità gli costrigneva a tenere sempre guardate con grandissima spesa
tante isole e tante terre marittime vicine a lui, e ad astenersi sopratutto da
implicarsi in guerre con altri.
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