VIII. La spedizione dell'armata di Alfonso d'Aragona contro Genova;
tentativi contro la riviera di levante e loro fallimento. La spedizione
dell'esercito di Alfonso in Romagna e le prime difficoltà incontrate. Piero de'
Medici fa unire truppe soldate da' fiorentini all'esercito aragonese. Azione
del pontefice e di Alfonso presso il senato veneziano, presso i re di Spagna e
presso Baiset. Nuovi intrighi di Lodovico Sforza.
Trattavansi
queste e molte altre cose da ogni parte; ma finalmente dette principio alla
guerra d'Italia l'andata di don Federigo alla impresa di Genova, con armata
senza dubbio maggiore e meglio proveduta che già molti anni innanzi avesse
corso per il mare Tirreno armata alcuna; perché ebbe trentacinque galee
sottili, diciotto navi e più altri legni minori, molte artiglierie, e tremila
fanti da porre in terra. Per i quali apparati, e per avere seco i fuorusciti,
si era mossa da Napoli con grande speranza della vittoria; ma la tardità della
partita sua, causata dalle difficoltà che hanno comunemente i moti grandi, e in
qualche parte dalle speranze artificiose date da Lodovico Sforza, e dipoi
l'essere soprastata, per soldare insino al numero di quattromila fanti, ne
porti de' sanesi, aveva fatto difficile quel che tentato uno mese prima sarebbe
stato molto facile. Perché avendo gli avversari avuto tempo di fare potente
provisione, era già entrato in Genova il baglì di Digiuno con dumila svizzeri
soldati dal re di Francia, e già in ordine molte delle navi e delle galee le
quali in quel porto si armavano; arrivatavi similmente una parte de' legni
armati a Marsilia; e Lodovico, non perdonando a spesa alcuna, v'avea mandato
Guasparri da San Severino detto il Fracassa e Antonio Maria suo fratello con
molti fanti; e per aiutarsi non meno della benivolenza de' genovesi medesimi
che delle forze forestiere, stabilito, con doni con provisioni con danari con
promesse e con vari premi l'animo di Giovan Luigi dal Fiesco fratello di
Obietto, degli Adorni e di molti altri gentiluomini e popolari, importanti a
tenere ferma alla sua divozione quella città; e da altra parte chiamato a
Milano, da Genova e delle terre delle riviere, molti seguaci de' fuorusciti. A
questi provedimenti, potenti per se stessi, aggiunse molto di riputazione e di
fermezza la persona di Luigi duca di Orliens, il quale, ne' medesimi dì che
l'armata aragonese si scoperse nel mare di Genova, entrò per commissione del re
di Francia in quella città, avendo prima parlato in Alessandria sopra le cose
comuni con Lodovico Sforza; il quale (come sono piene di oscure tenebre le cose
de' mortali) l'aveva ricevuto lietamente e con grande onore, ma come pari, non
sapendo quanto presto in potestà di lui avesse a essere costituito lo stato e
la vita sua. Queste cose furono cagione che gli aragonesi, che prima avevano disegnato
di presentarsi con l'armata nel porto di Genova, sperando che i seguaci de'
fuorusciti facessino qualche sollevazione, mutato consiglio, deliberorno
d'assaltare le riviere; e dopo qualche varietà di opinione, in quale riviera o
di levante o di ponente fusse da cominciare, seguitato il parere di Obietto,
che si prometteva molto degli uomini della riviera di levante, si dirizzorno
alla terra di Portovenere; alla quale terra, perché da Genova vi erano stati
mandati quattrocento fanti e gli animi degli abitatori confermati da Gianluigi
dal Fiesco che era venuto alla Spezie, dettono più ore invano la battaglia, in
modo che, perduta la speranza di espugnarla, si ritirorno nel porto di Livorno
per rinfrescarsi di vettovaglie e accrescere il numero de' fanti; perché
intendendo le terre della riviera essere bene provedute, giudicavano necessarie
forze maggiori. Dove don Federigo, avuta notizia l'armata franzese, inferiore
alla sua di galee ma superiore di navi, prepararsi per uscire del porto di
Genova, rimandò a Napoli le navi sue, per potere con la celerità delle galee
più espeditamente dagl'inimici discostarsi, quando unite le navi e le galee
andassino ad assaltarlo; restandogli nondimeno la speranza di opprimergli se le
galee dalle navi, o per caso o per volontà, si separassino.
Camminava in
questo tempo medesimo con l'esercito terrestre il duca di Calavria verso
Romagna, con intenzione di passare poi, secondo le prime deliberazioni, in
Lombardia; ma per avere il transito libero né lasciarsi impedimenti alle
spalle, era necessario congiugnersi lo stato di Bologna e le città d'Imola e di
Furlì; perché Cesena, città suddita immediatamente al pontefice, e la città di
Faenza suddita a Astore de' Manfredi, piccolo fanciullo, soldato e che si reggeva
sotto la protezione de' fiorentini, erano per dare spontaneamente tutte le
comodità all'esercito aragonese. Dominava Furlì e Imola, con titolo di vicario
della Chiesa, Ottaviano figliuolo di Ieronimo da Riario, ma sotto la tutela e
il governo di Caterina Sforza sua madre: con la quale avevano trattato, già più
mesi, il pontefice e Alfonso di condurre Ottaviano a' soldi comuni, con
obligazione che comprendesse gli stati suoi; ma restava la cosa imperfetta,
parte per difficoltà interposte da lei per ottenere migliori condizioni, parte
perché i fiorentini, persistendo nella prima deliberazione di non eccedere
contro al re di Francia le obligazioni le quali avevano con Alfonso, non si
risolvevano di concorrere a questa condotta, alla quale era necessario il
consenso loro, perché il pontefice e il re ricusavano di sostenere soli questa
spesa, e molto più perché Caterina negava di mettere in pericolo quelle città
se insieme con gli altri i fiorentini alla difesa degli stati del figliuolo non
si obligavano. Rimosse queste difficoltà il parlamento che ebbe Ferdinando,
mentre che per la via della Marecchia conduce l'esercito in Romagna, con Piero
de' Medici, al Borgo a San Sepolcro, perché nel primo congresso gli offerse,
per commissione d'Alfonso suo padre, che usasse e sé e quell'esercito a ogni
intento suo, delle cose di Firenze di Siena e di Faenza; donde diventata
ardente in Piero la prima caldezza, ritornato a Firenze, volle, benché
dissuadendolo i cittadini più savi, che si prestasse il consenso a quella condotta,
perché con somma instanza n'era stato pregato da Ferdinando: la quale essendosi
fatta a spese comuni del pontefice d'Alfonso e de' fiorentini, si congiunsono,
pochi dì poi, la città di Bologna, conducendo nel medesimo modo Giovanni
Bentivogli, sotto la cui autorità e arbitrio si governava; al quale promesse il
pontefice, aggiugnendovisi la fede del re e di Piero de' Medici, di creare
cardinale Antonio Galeazzo suo figliuolo, allora protonotario apostolico.
Dettono queste condotte riputazione grande all'esercito di Ferdinando, ma molto
maggiore l'arebbono data se con questi successi fusse entrato prima in Romagna;
ma la tardità di muoversi del regno e la sollecitudine di Lodovico Sforza aveva
fatto che non prima arrivò Ferdinando a Cesena che Obignì e il conte di
Gaiazzo, governatore delle genti sforzesche, con parte dello esercito destinato
a opporsi agli aragonesi essendo passati senza ostacolo per il bolognese,
entrorono nel contado d'Imola. Perciò, interrotte a Ferdinando le prime
speranze di passare in Lombardia, fu necessario fermare la guerra in Romagna:
dove, seguitando l'altre città la parte aragonese, Ravenna e Cervia, città
suddite a' viniziani, non aderivano a alcuno; e quel piccolo paese il quale,
contiguo al fiume del Po, teneva il duca di Ferrara non mancava di qualunque
comodità alle genti franzesi e sforzesche.
Ma né per le
difficoltà riscontrate nella impresa di Genova né per lo impedimento
sopravenuto in Romagna la temerità di Piero de' Medici si raffrenava. Il quale
essendosi con secreta convenzione, fatta senza saputa della republica col
pontefice e con Alfonso, obligato a opporsi scopertamente al re di Francia, non
solo aveva consentito che l'armata napoletana avesse ricetto e rinfrescamento
nel porto di Livorno e comodità di soldare fanti per tutto il dominio
fiorentino, ma non potendo più contenersi dentro a termine alcuno, operò che
Annibale Bentivoglio figliuolo di Giovanni, il quale era soldato de'
fiorentini, con la compagnia sua, e la compagnia di Astore de' Manfredi, si
unissino con l'esercito di Ferdinando, subito che entrò nel contado di Furlì;
al quale fece inoltre mandare mille fanti e artiglierie. Simile disposizione
appariva continuamente nel pontefice: il quale, oltre alle provisioni
dell'armi, non contento d'avere con uno breve esortato prima Carlo a non
passare in Italia e a procedere per la via della giustizia e non con l'armi,
gli comandò poi per un altro breve le cose medesime sotto pena delle censure
ecclesiastiche; e per il vescovo di Calagorra nunzio suo in Vinegia, dove al
medesimo effetto erano gli oratori di Alfonso, e benché non con dimande così
scoperte quelli de' fiorentini, stimolò molto il senato viniziano che, per
beneficio comune d'Italia, s'opponesse con l'armi al re di Francia, o almeno a
Lodovico Sforza vivamente facesse intendere avere molestia di questa
innovazione: ma il senato, facendo rispondere per il doge non essere ufficio di
savio principe tirare la guerra nella casa propria per rimuoverla della casa di
altri, non consentì di fare, né con dimostrazioni né con effetti, opera alcuna
che potesse dispiacere a niuna delle parti. E perché il re di Spagna, ricercato
instantemente dal pontefice e da Alfonso, prometteva di mandare la sua armata
con molta gente in Sicilia, per soccorrere quando bisognasse il regno di
Napoli, ma si scusava non potere essere sì presta per la difficoltà che aveva
di danari; il pontefice, oltre a certa quantità mandatagli da Alfonso, consentì
che e' potesse convertire in quest'uso i danari riscossi con l'autorità della
sedia apostolica, sotto nome della crociata, in Ispagna, che spendere contro ad
altri che contro agli inimici della fede cristiana non si potevano. A' quali
opprimere tanto alieno era il pensiero loro che Alfonso, oltre a altri uomini
mandati prima al gran turco, vi mandò di nuovo Cammillo Pandone; con cui andò,
mandato secretamente dal pontefice, Giorgio Bucciardo genovese, che altre volte
papa Innocenzio v'avea mandato: i quali, onorati da Baiseto eccessivamente e
espediti quasi subito, riportorono promesse grandi di aiuti; le quali, benché
confermate poco poi da uno imbasciadore mandato da Baiseto a Napoli, o per la
distanza de' luoghi o per essere difficile la confidenza tra i turchi e i
cristiani, effetto alcuno non partorirono.
Nel quale tempo
Alfonso e Piero de' Medici, non essendo prosperi i successi dell'armi né per
mare né per terra, si ingegnorono di ingannare Lodovico Sforza con l'astuzie e
arti sue; ma non già con migliore evento della industria che delle forze. È stata
opinione di molti che a Lodovico, per la considerazione del pericolo proprio,
fusse molesto che 'l re di Francia acquistasse il regno di Napoli, ma che il
disegno suo fusse, poiché avesse fatto sé duca di Milano e fatto passare
l'esercito franzese in Toscana, interporsi a qualche concordia; per la quale,
riconoscendosi Alfonso tributario della corona di Francia, con assicurare il re
dell'osservanza, e smembrate forse da' fiorentini le terre le quali tenevano
nella Lunigiana, il re se ne ritornasse in Francia: e così, restando sbattuti i
fiorentini e diminuito il re di Napoli di forze e d'autorità, egli, diventato
duca di Milano, avesse conseguito tanto che gli bastasse a essere sicuro, senza
incorrere ne' pericoli imminenti dalla vittoria de' franzesi. Avere sperato che
Carlo, sopravenendone massime la vernata, avesse a trovare qualche difficoltà
la quale il corso della vittoria gli ritenesse; e attesa la impazienza naturale
de' franzesi, l'essere il re male proveduto di danari, e la volontà di molti de'
suoi aliena da questa impresa, si potesse facilmente trovare mezzo di
concordia. Quel che di tale cosa sia la verità, certo è che, se bene nel
principio Lodovico si fusse per separare Piero de' Medici dagli Aragonesi
grandemente affaticato, cominciò poi occultissimamente a confortarlo a
perseverare nella sua sentenza, promettendogli di operare o che 'l re di
Francia non passerebbe o che, passando, ritornerebbe presto, e innanzi che
avesse tentato cosa alcuna di qua da' monti: né cessava, per mezzo dello oratore
suo risedente in Firenze, fare seco spesso, questa instanza, o perché così
fusse veramente la sua intenzione o perché, determinato già alla rovina di
Piero, desiderasse che e' procedesse tant'oltre contro al re che non gli
restasse luogo di reconciliazione. Deliberato adunque Piero, con saputa
d'Alfonso, di fare noto questo andamento al re di Francia, chiamò uno dì a casa
sua, sotto colore di essere indisposto della persona, lo imbasciadore milanese,
avendo prima ascoso quello del re, che era in Firenze, in luogo donde
comodamente i ragionamenti loro udire potesse. Quivi Piero, repetute con parole
distese le persuasioni e le promesse di Lodovico, e che per l'autorità sua era
stato pertinace a non consentire le dimande di Carlo, si lamentò gravemente che
egli con tanta instanza sollecitasse la sua passata, conchiudendo che, poi che
i fatti non corrispondevano alle parole, era necessitato a risolversi di non si
ristrignere in tanto pericolo. Rispondeva il milanese non dovere Piero dubitare
della fede di Lodovico, se non per altro perché almeno era similmente a lui
pernicioso che Carlo pigliasse Napoli, confortandolo efficacemente a
perseverare nella medesima sentenza, perché partendosene sarebbe cagione di
ridurre se stesso e Italia tutta in servitù. Del quale ragionamento l'oratore
franzese dette subito notizia al suo re, affermando che era tradito da
Lodovico: e nondimeno non partorì questa astuzia l'effetto il quale il re
Alfonso e Piero avevano sperato; anzi, rivelato dai franzesi medesimi a
Lodovico, rendé più ardente lo sdegno e l'odio conceputo prima contro a Piero,
e la sollecitudine di stimolare il re di Francia che non consumasse più il
tempo inutilmente.
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